Mamma, cortocircuito della perdita. Intervista a Danilo Giuva
Una madre è colei che dà inizio alla vita, è colei che rende possibile l’inizio di un altro mondo, è colei che fa esistere un’altra volta, ancora una volta, il mondo. Nell’atto del concepimento la madre diventa creatrice, generatrice di un corpo che cresce, si espande, che acquista le sue forme, per rivelare, però, alla fine, la sua trascendenza. La maternità è, dunque, l’evento in cui ogni madre incontra, la dimensione irreversibile della perdita. È l’atto in cui la madre, perde il frutto creato dal suo corpo, in cui cessa di essere creatrice.“
“Mamma” (Liberamente ispirato a “Mamma – piccole tragedie minimali” di Annibale Ruccello) è il titolo dello spettacolo che vede regista e interprete Danilo Giuva. Uno spettacolo sul cortocircuito, sul bug che infetta il cervello delle madri nell’istante della perdita.
Sono quattro brevi storie che, partendo da una fiaba, intrisa di magie e malefici, si ri-avvicinano, man mano, al mondo reale.
Quattro donne che, confinate in un piccolo spazio, disegnano un’unica parabola ascendente di ferocia in cui, passando proprio attraverso la Vergine Maria, la mamma è l’unica protagonista.
Una mamma in cui si cerca un naturale rifugio, che parla una lingua arcaica, terrena, che diventa progressivamente, l’incarnazione metaforica della disgregazione del nido familiare in funzione del Sé e dell’adeguamento di esso e della sua lingua, al contesto sociale in cui vive, al punto di disconoscere ogni sua mansione naturale e rivelare, all’opposto, un animo di genitrice perfida, mutevole e finanche sadica.
Abbiamo intervistato il regista e interprete Danilo Giuva:
Che rapporto hai con Annibale Ruccello? Come ti sei avvicinato a questo autore?
Ho visto, diversi anni fa, una messa in scena de Le cinque rose di Jennifer. La messa in scena non mi ha colpito particolarmente, ma il testo moltissimo e allora ho letto Ferdinando, uno dei pochi testi reperibili all’infuori di quella raccolta pubblicata da Ubulibri che non si trova più. Anni dopo mi sono messo a lavorare sul tema della maternità, ho provato a scrivere qualcosa ma non funzionava, era troppo autoreferenziale. Quando ho invitato Licia a vedere una prova, lei mi ha detto: «È vero, ci sono delle cose che non funzionano, ma ciò che mi ha colpito è che hai una modalità di affrontare questi temi e una scrittura, in alcuni momenti, molto simile a Mamma di Ruccello: lo hai mai letto?»
No, non lo avevo mai letto: lei mi ha prestato la sua raccolta Ubulibri, ho letto Mamma e me ne sono completamente innamorato. Descrive un immaginario materno molto vicino al mio, delle madri che io ho vissuto, mia madre, mia nonna… una maternità di cuore, ma anche molto feroce, egoista. Ho letto quindi tutti gli altri lavori di Ruccello, di cui mi ha colpito soprattutto la capacità di tirar fuori questa ferocia quotidiana. Dopo aver letto Mamma, non ho più avvertito la voglia di scrivere di mio pugno qualcosa sulla maternità, perché aveva già detto tutto Ruccello. Nel teatro cerchiamo la catarsi, io oramai la mia l’avevo avuta, attraverso le sue parole. Inoltre l’operazione di riscrittura dal napoletano al foggiano è stata ulteriormente catartica, ha reso il testo ancora più vicino a me, quasi come se davvero raccontassi i fatti miei.
Come mai hai sentito l’esigenza di tradurre il testo in foggiano?
Perché il mio fine non era fare un omaggio a Ruccello, ma lavorare sulla maternità. Quindi non mi interessava fare un monologo in napoletano e avvicinarmi al testo attraverso un esercizio di stile. Ho preferito fare il contrario. Un po’ perché – ma questa è un’opinione del tutto personale – gli autori napoletani in napoletano li possono fare solo i napoletani, perché ognuno è sanguigno nella propria lingua, quella roba lì ti arriva dalle viscere e se non ti arriva da lì rimane un esercizio di stile; un po’ avevo bisogno di ricondurre tutto a suoni a me familiari, proprio perché, lavorando sulla maternità, avevo bisogno di usare una lingua ancestrale. Ho rispettato la parabola linguistica che Ruccello disegna all’interno del testo, perché lui parte dalla fiaba di Basile in cui usa questo napoletano arcaico, antico, per arrivare poi a imbastardirlo con un napoletano molto più quotidiano, più simile all’italiano: ho utilizzato per tradurre Basile un dizionario di dialetto foggiano e il supporto di un linguista foggiano, il resto ho provato a sporcarlo un po’ alla volta e quindi per il delirio di Maria Assunta e per la telefonata mi sono fatto aiutare da mia madre, perché avevo bisogno di trovare termini che fanno parte di un foggiano un po’ più antico e che io non ho mai utilizzato, il finale invece ho deciso di tradurlo in autonomia, usando la lingua che conosco io, proprio per ricondurlo a me.
Pensi che possa essere un problema la comprensione del dialetto foggiano in tournée?
Fino a Roma credo che il problema non si ponga. Potrebbe forse essere un problema nel profondo nord, ma per risolverlo basterebbe addolcire la pronuncia, la scansione delle parole. Essendo il foggiano una lingua molto simile al napoletano, e quindi non totalmente ignota in termini di suoni, dopo le prime battute scatta il patto col pubblico, che si abitua al codice linguistico.
Quali altri drammaturghi contemporanei ti affascinano?
Provo una stima profonda per Riccardo Spagnulo, trovo che sia un drammaturgo di grandissima intelligenza, amo la sua scrittura estremamente quotidiana e poetica allo stesso tempo. Penso a La Beatitudine, a Duramadre… credo abbia raggiunto dei livelli altissimi. Adoro ovviamente Emma Dante, ma non la considero una drammaturga vera e propria. Mi piacciono Koltès, Salinger, Crimp, Tolcachir… Al momento sto lavorando su Roberto Zucco con Licia Lanera e su Spregelburd con alcuni nostri allievi, in particolare sulla Stupidità….
Da diversi anni affianchi Licia nella conduzione dei laboratori di Fibre Parallele: quanto ti lasci ispirare dal lavoro con gli allievi?
Per il mio lavoro teatrale i laboratori sono fondamentali. Osservando la gente in scena capisci cosa funziona e cosa no e questo aiuta ad avere un occhio più allenato. Ma aldilà del piacere di insegnare, ovvero di trasferire delle cose – che poi in realtà non di insegnamento vero si tratta, perché dopo i primi tempi, in cui trasmetti delle regole, per me diventa uno scambio vero e proprio – nei laboratori, soprattutto in quelli intensivi, dove c’è modo di fare un lavoro continuo e si crea un clima, un livello energetico diverso, ciò che più mi affascina è la possibilità di aprire una finestra su mondi che non conosco: nei laboratori viene fuori inevitabilmente, sempre, tutto il personale, soprattutto quando si lavora con gente emotivamente generosa. Di altri universi mi nutro: il mio universo non basta, per quanto sia molto complicato.
Descrivi con una frase il tipo di teatro che vuoi fare.
A me piace il teatro che smaschera.