Se le speranze di un sistema economico più equo e rispettoso dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici sembrano ormai tramontate e se le lotte per un sistema politico che sappia creare le condizioni necessarie per rilanciare un settore in perenne crisi, andando a valorizzare le relazioni umane attraverso l’arte e la cultura piuttosto che distruggere l’umanità degli artisti che cercano di opporsi a questo status quo, sembrano essere sempre più lontane, qualcosa a Roma, più precisamente al Teatro Argot Studio, si muove.
Visioni illuminate che portano a percorsi che, a loro volta, liberano creatività e desideri comunardi di rigenerazione socio-culturale di un gruppo di giovani, che, rilanciando il protagonismo cittadino, hanno cercato di rivoluzionare un sistema antropofago e disumanizzante qual è quello dello Spettacolo dal vivo in Italia. Un gruppo di bell* e ribell* che, da anni anima l’amorfa Roma attraverso l’organizzazione di Dominio Pubblico, Festival under 25, è riuscito anche a riversare tutto il proprio entusiasmo nellenumerose attività proposte nel teatro trasteverino di Via Natale del Grande.
L’ultima, in ordine temporale, è #OVER – Emergenze teatrali. Rassegna di giovani talenti + 25, kermesse teatrale dedicata alle nuove generazioni artistiche del panorama romano e nazionale, che tesaurizza le forti connessioni del network creato con cura da diversi anni fra diverse realtà che lavorano nel settore: compagnie, festival, operatori e pubblico, i quali diventano protagonisti di un’esperienza di cambiamento necessaria quanto vitale. Un’operazione guidata dal direttore artistico Tiziano Panici, con cui, in questa sede, continuiamo a dialogare circa le destinazioni possibili di questo folle volo.
Negli ultimi anni abbiamo dedicato molte energie e attenzione alle giovanissime generazioni attraverso il progetto Dominio Pubblico. Nel 2015, in collaborazione con Teatro dell’Orologio e Kilowatt, Argot programmava Dominio Pubblico Officine, riuscendo anche a garantire un premio di produzione a progetti in via di sviluppo. Poi con la chiusura dell’Orologio il progetto Dominio Pubblico si è progressivamente trasferito al Teatro India e oggi è un evento unico nel suo genere dedicato a progetti di artisti con meno di 25 anni. Come Argot ci siamo di nuovo posti il problema di come però deve essere affrontata la crescita e lo sviluppo delle giovani compagnie una volta che sono “emerse”. Crediamo che oggi il compito di una casa di Produzione come Argot sia di fungere da incubatore per nuove realtà che hanno il bisogno di crescere e diventare adulte. Spazi come il nostro devono poter incoraggiare e tutelare questa crescita mettendo a disposizione quello che è nelle nostre possibilità: offrire spazi di residenza, visibilità e accompagnamento produttivo.
Tanti nomi di compagnie “giovani” ma con alle spalle debutti e repliche in festival e teatri importanti: quali sono stati i parametri artistici perseguiti nella selezione degli spettacoli?
Ancora una volta è stato importante il connubio con Dominio Pubblico che ci ha permesso di venire in contatto con moltissime realtà ancora poco conosciute ma con grande potenziale. È il caso di Alessandro Blasioli, attivissimo autore e interprete che è stato ospite nel Festival per ben due edizioni e che da quest’anno inizia a collaborare con Argot Produzioni, dopo essere stato notato e premiato in contesti nazionali come il Festival della Resistenza del Museo Cervi o Direction Under 30 del Teatro Sociale di Gualtieri, realtà con cui collaboriamo attivamente ormai da tre anni.
A Gualtieri abbiamo conosciuto anche Anonima Sette e la sensibilissima drammaturgia di Giacomo Sette. Abbiamo poi amplificato le relazioni con il Matuta Teatro di Sezze, alla cui rassegna Pollini ci siamo legati fin dalla prima edizione. Ma lo stesso Argot in questi anni è rimasto spazio aperto che si è fatto attraversare da compagnie contemporanee più affermate, come quella di Licia Lanera che ha iniziato a produrre giovani scommesse tra cui Danilo Giuva.
Tra i protagonisti di OVER anche Valerio Peroni e Alice Occhiali, nuova generazione cresciuta sotto l’ala dell’Odin Teatret, che gira il mondo proprio come le ragazze di Unterwasser che, con il loro OUT, sono approdate lo scorso autunno al REF dopo centinaia di date internazionali. Non manca la ricerca sulla drammaturgia, da sempre cara a casa Argot: la freschissima scrittura di Paolo Tommaso Tambasco e quella di Sandra Lucentini a servizio della cura scenica di Lucrezia Coletti. Ad aprire le danze di OVER, il 2 maggio, sarà un progetto che proviene da una delle fucine più interessanti del panorama nazionale: il NEST di Napoli. Lo spettacolo, ospitato in residenza in questi giorni all’Argot, è firmato da Adriano Pantaleo e Giovanni Spezzano.
Se volessimo scattare un’istantanea della situazione teatrale romana e nazionale attuale, cosa emergerebbe dall’analisi delle nuove generazioni teatrali? Quali sono le ricerche artistiche e quali le specifiche sperimentali rispetto ai movimenti delle generazioni precedenti?
Mi sembra che nel suo piccolo OVER abbia proprio questa ambizione: cercare attraverso queste nove realtà artistiche di scattare una fotografia, sicuramente parziale ma molto eterogenea, di una nuova generazione teatrale e non solo. Se osserviamo il lavoro di questi artisti troviamo dei percorsi e delle ricerche davvero uniche e per nulla ripetitive. Sono opere diverse nel linguaggio, nella scrittura, nella ricerca visiva e sonora. Ma, allo stesso tempo, se guardiamo il quadro generale, questi giovani artisti sono tutti legati da un filo sottile che li tiene insieme: una rete di rapporti e di sostegno che da più parti d’Italia si è impegnata a garantire supporto alle nuove voci della scena.
Mi sembra che rispetto alle generazioni precedenti oggi ci sia anche un gruppo di programmatori che sta cercando di rinnovare l’impegno nei confronti della ricerca e della sperimentazione contemporanea, atteggiamento che forse si era un po’ perduto e che si mantiene solo con il grandissimo sforzo di mettersi insieme.
La rassegna #OVER – Emergenze teatrali sembra essere un momento di collegamento fra la stagione artistica del Teatro Argot Studio e la prossima edizione di Dominio Pubblico che si terrà a Giugno: c’è un filo rosso che attraversa queste esperienze?
Ho sottolineato la forza di questa congiunzione fin dall’inizio. Posso solo aggiungere che, in merito a quanto appena detto, Dominio Pubblico vorrebbe diventare sempre di più un connettore di esperienze di scouting e di programmazione per giovani generazioni, ma per crescere, diventare adulti e poter vivere del proprio lavoro ci devono essere realtà come Argot Produzioni, attente e sensibili al rinnovamento e pronte a prendere in custodia progetti che hanno bisogno di cura per riuscire a circuitare e diventare progetti sostenibili.
Ci sarà una futura collaborazione che permetta in futuro l’inserimento delle compagnie all’interno della programmazione stagionale di Teatro Argot Studio?
OVER è uno dei progetti che Argot Produzioni ha inserito quest’anno nelle sue sfide per il futuro e sicuramente avrà una seconda edizione che è già in via di sviluppo. Quest’anno con i nuovi bandi SIAE abbiamo partecipato nella categoria per le residenze pensando a una fase due del progetto. Immaginiamo le prossime stagioni di Argot Studio sempre meno focalizzate sulla programmazione e l’ospitalità di compagnie e sempre più incentrate su un’idea di spazio produttivo dove si scelgono progetti da testare e far crescere. Ci auguriamo anche di riuscire a rafforzare la dimensione distributiva di questi lavori perché al momento è il vero anello debole di tutta la produzione italiana, quindi deve necessariamente essere adeguata all’enorme capacità creativa degli artisti nostrani, altrimenti destinati a non avere uno sbocco.
Nato dall’esigenza di raccontare attraverso lo spettacolo dal vivo la città di Matera e le trasformazioni economiche e socio-culturali della nostra epoca, Nessuno Resti Fuori è un festival di teatro, che vuole andare oltre la dimensione puramente artistica e coinvolgere la città, i suoi abitanti e quanti si interrogano sul suo divenire, in una riflessione collettiva che metta in relazione la dimensione artistica con i luoghi di vita quotidiana. Un ponte immateriale che sappia creare connessioni tra diverse dimensioni della città, fatto di narrazioni raccolte e narrazioni costruite, favorendo l’accesso alla cultura attraverso pratiche di coinvolgimento della comunità, soprattutto quelle culturalmente e socialmente più carenti.
Il festival si struttura temporalmente in più giornate, e in diversi luoghi della città. Ogni anno un quartiere diverso diventa il campo dell’azione performativa, cucendo relazioni tra le persone che hanno sempre abitato la città e i nuovi abitanti. Nel 2020 IAC ha realizzato un processo di consultazione pubblica – “Chiamata alla città” – finalizzato a far emergere bisogni e desideri degli abitanti dei quartieri della città. I cittadini potevano candidare il proprio quartiere ad ospitare l’edizione successiva del festival.
A seguito di questa call è stato individuato il borgo La Martella per l’edizione del 2021, dove si è costituito un gruppo di lavoro informale di residenti con cui è stata co-progettata l’edizione di quest’anno del festival. Nasce così Il borgo si fa teatro, un laboratorio di narrazione teatrale che coinvolge, attraverso fasi di ricerca e di co-creazione scenica, un gruppo di cittadini nella costruzione di un racconto condiviso.
Per la 6° edizionedel festival, che va dal 17 al 25 luglio, laprogrammazione vedrà alternarsi spettacoli dal vivo, laboratori formativi, incontri di approfondimento ed eventi Extra Festival, concerti di gruppi musicali emergenti di Matera e momenti di conoscenza del quartiere.
Gli/le artisti e le compagnie ospiti di Nessuno Resti Fuori saranno: Compagnia Factory conHubu Re, Claudio Morici con Fenomenologia dei rapporti di coppia considerati nel periodo storico degli ultimi 10 minuti in Italia, Compagnia Ateliersi con La mappa del cuore, Alessandro Blasioli con L’avvocato di Matteotti (spettacolo selezionato all’interno di Risonanze Network – rete di supporto agli artisti under 30), Giuseppe Comuniello con Tracce, Diana Anselmo con Autoritratto in 3 atti, #reteteatro41 con la rassegna per l’infanzia e la gioventù Faccio Storie.
All’interno della programmazione ci saranno anche momenti di condivisione di pratiche con esponenti di reti nazionali e internazionali, che raggruppano stakeholder coinvolti in settori della performing art e delle attività sociali. Tra queste Rete Europe Beyond Access, network finalizzato ad interrogare e discutere i temi di accessibilità ed inclusione nelle arti performative; Risonanze Network, la rete nazionale dei progetti dedicati al teatro generazione 20 30, per la promozione e il sostegno delle giovani compagnie, per il coinvolgimento degli spettatori under 30 nei processi di direzione artistica; #reteteatro41, un progetto nato dall’esigenza di quattro compagnie teatrali di produzione, fondate e operanti in Basilicata, per la costruzione di un percorso comune e condiviso teso al rafforzamento del pubblico teatrale lucano; Al.Di.Qua.Artists acronimo del più lungo ALternative DIsability QUAlity Artists, la prima associazione italiana di e per artist* e lavorat* dello spettacolo con disabilità; la rete della non-scuola progetto nato dall’esperienza decennale del Teatro delle Albe.
Inoltre il Festival prevede la realizzazione di quattro diversi laboratori che coinvolgeranno attivamente le comunità locali: Cittadin@ si RiNasce – condotto da Giorgio De Gasperi di Zeroteatro, la non-scuoladel Teatro delle Albeguidato da Alessandro Argnani e Lanfranco Vicari del Cisim, Laboratorio di scrittura e composizione di brani Rap e Urban condotto da Lanfranco “Moder” Vicari, Ovunque siamo è al di qua condotto da Al.Di.Qua.Artists.
Novità di questa edizione è la direzione artistica allargata e partecipatada ragazze e ragazzi che negli anni sono cresciuti con il festival, un percorso di formazione artistica e culturale che ha l’obiettivo di formare un gruppo di volontari del festival sui processi di direzione artistica partecipata, di organizzazione e di comunicazione legati alle attività del festival.
Theatron 2.0, mediapartner del festival, racconterà l’edizione 2021 di Nessuno Resti Fuori attraverso un’attività di Digital Storytelling di ampio respiro in grado di narrare il territorio e le comunità che lo attraversano.
Nessuno Resti Fuori è organizzato da IAC Centro Arti Integrate, con la direzione artistica di Andrea Santantonio e Nadia Casamassima, in partenariato con C-Fara, Il Sicomoro.
Con il patrocinio della Città di Matera, con il sostegno della Città di Matera e della Regione Basilicata, sponsorizzato da BCC Basilicata, Hotel del Campo, Dimora del Monaco, in collaborazione con l’associazione Volontari Open Culture 2019, Parrocchia di San Vincenzo de Paoli, Istituto Comprensivo Padre Giovanni Semeria, Be-Sound, QQ-Stampe. Comunicazione a cura di Theatron 2.0.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Nel biennio antecedente alle elezioni politiche del 2018, a Roma emersero gruppi criminali orbitanti nell’ambito dell’estrema destra romana che ri-diedero vita al “Bangla Tour”. Non parliamo di un festival colorato a base di spezie, ma di pestaggi e raid squadristi «per sconfiggere il nemico».
In questo “tetro-tour” Alessandro Blasioli, durante il progetto di teatro itinerante Notturni della città (a cura di Andrea Maurizi e con la supervisione artistica di Marco Baliani), avvertì nell’aria un odore di fascismo abbastanza eloquente. Analizzando la situazione e chiedendosi quali fossero le analogie tra il 2018 e il 1920/30, si scontrò con la figura più nascosta del ventennio fascista: il Re d’Italia Vittorio Emanuele III di Savoia chiamato, durante la prima guerra mondiale, “Sciaboletta” a causa della sua bassa statura – 153 cm appena– per la quale fu necessario forgiare una sciabola particolarmente corta, che evitasse di strisciare in terra – così come ci racconta Alessandro Blasioli in una breve intervista.
Sciaboletta scritto, diretto e interpretato da Alessandro Blasioli, giovane ma già affermato talento della scena under 35 italiana, è Il sesto appuntamento della stagione ARGOtNAUTICHE – Cronache dal mondo sommerso, in scena dal 13 al 15 dicembre al Teatro Argot Studio di Roma.
Durante l’ascesa del fascismo il Re sparisce dai documenti ufficiali del periodo: non è piú prevista la sua firma, basta semplicemente quella del Duce. Questa forma di subordinarietà evidenzia una realtà ossimora che non è stata mai affrontata nel dettaglio.Immaginate un vecchietto di 74 anni che si ritrova improvvisamente spodestato dal suo regno. Partendo dalla fuga del Re Vittorio Emanuele III del 9 settembre ’43, Sciaboletta racconta di un Re fortemente antifascista immaginando un’invettiva in cui si rinnega il fascismo rigettando una situazione ormai intollerabile.
Da qui prende avvio la costruzione scenica proposta da Alessandro Blasioli. La necessità, l’urgenza e l’emergenza sollevate dalla cronaca odierna in merito all’operato neofascista hanno ispirato il racconto di questo personaggio. Siamo una società con la memoria corta, continuamente bombardata di informazioni e fake-news. Oggi più che mai, bisogna ricordare che cosa è stato e cos’è il fascismo.
La produzione dei monologhi di Alessandro Blasioli è totalmente figlia del contesto culturale e politico in cui ci troviamo. Già al suo terzo spettacolo, autoprodotto e autodiretto, dopo il pluripremiatoQuesta è casa mia e DPR_Web_Sommerso – nonostante un tragico sistema teatrale, un CCNL raramente stipulato e bandi sempre piú scarni– è riuscito a reinventarsi con monologhi realistici e dirompenti.
Compagnie formate da dieci persone? Chimera. Da cinque persone? Fantasia. Alessandro Blasioli, da solo a casa sua, implacabilmente scrive, dirige e recita i suoi monologhi. La produzione dei suoi spettacoli è fast, smart, multitasking. Nella prima fase di creazione, drammaturgia e regia si fondono: si parte da una canovaccio, si prosegue con la scrittura, fino ad arrivare a un lavoro di scrematura in cui impara superficialmente il testo per ottenere il linguaggio più diretto possibile.
Se vi sono blocchi a chi rivolgersi? Ci si confronta con Alessandro il drammaturgo o con Blasioli l’attore-regista? Bisogna lasciare che tutto si sedimenti per riprendere il lavoro successivamente e comprenderne la reale potenza. Avere il contributo di uno sguardo esterno aiuta il processo creativo: lo spettacolo Questa è casa mia, ad esempio, ebbe la supervisione artistica del regista Giancarlo Fares. Altre volte, come nel caso di DPR e Sciaboletta entrambi proposti per un concorso e sottoposti a tempistiche da bando, può risultare complesso ritagliarsi del tempo per avere un riscontro. Di conseguenza, indicando l’idea del progetto, una volta vinto il bando,Blasioli si è buttato a capofitto nella scrittura e nella messa in scena. Ottenuti premi e riconoscimenti, con la programmazione di diversi spettacoli nelle stagioni teatrali, ha potuto dedicarsi a un singolo progetto per volta.
Finché la situazione rimarrà invariata, Alessandro Blasioli continuerà a scrivere. Il prossimo lavoro sarà incentrato sulla figura diGiacomo Matteotti. Proprio a Chieti – patria dell’artista – ci fu il processo-farsa agli assassini di Matteotti per l’omicidio che segnò l’incipit della dittatura fascista. Alessandro Blasioli prosegue dunque la propria ricerca artistica, scavando nella memoria del primo trentennio dell’Italia del ‘900, rintracciando aneddoti, prove, esempi, rimandi e ammonimenti per scongiurare il rischio che vengano scritte nuove pagine buie della storia dell’umanità.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Esistono dei luoghi reali fuori da tutti i luoghi: cimiteri, manicomi, periferie abbandonate, cinema, case chiuse, quartieri a luci rosse, micronazioni, tra le altre. Essi, al contrario delle utopie, cioè dei non-luoghi, sono controspazi o meglio luoghi dell’alterità. «Luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli»: le eterotopie, così definite da Michel Foucault in due conferenze radiofoniche del 1966, rappresentano tutte quelle espressioni localizzate della cultura di ogni epoca sempre in grado perfettamente di riassorbirle facendole scomparire o organizzarne altre che non esistono ancora. Più in generale, l’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente dovrebbero, sarebbero incompatibili fra di loro.
Effetto di una molteplicità di fattori interdipendenti che si influenzano reciprocamente in un’ottica di sistema, questi spazi altri, vengono identificati come una soluzione “di crisi” o di deviazione all’interno della società reale con cui stabiliscono una relazione di differenza, piuttosto che di identità, definendo così una ri-semantizzazione nell’immaginario collettivo degli ambienti e delle relazioni sociali. Le eterotopie sono zone di frontiera, vale a dire quei territori di confine in cui i fatti dell’ambiente sono tradotti in eventi dotati di senso e di importanza per la vita psichica e sociale dell’individuo, entrando così a far parte del suo spazio vitale. Esistono anche eterotopie “croniche”, cioè legate al tempo della festa, alla celebrazione di un rito comune, come nel caso del teatro, uno spazio mistico attraversato da una serie di luoghi e di soggetti estranei; così altre eterotopie legate all’avvento di un passaggio ciclico, alla fatica di una trasformazione, alla rigenerazione degli individui. Ci sono eterotopie che durano secoli, altre pochi giorni, una settimana per la precisione.
The Sunset Sails – Rob Gonsalves
In un’epoca come quella contemporanea, in cui la proliferazione di diverse forme ed esperienze spaziali appare sempre più come un tentativo di dare respiro a nuove trame dell’esistenza, l’eterotopia costituita da Castellinaria – Festival di Teatro Pop è il felice coronamento del desiderio di delocalizzare i processi creativi e culturali dai grandi centri nazionali. L’impulso, nato dalla voglia di animare e valorizzare il territorio della Valle di Comino, ha ingenerato una rete socio-culturale di convivenza fra gruppi sociali eterogenei attraverso la valorizzazione della nuova drammaturgia e dello spettacolo dal vivo, con l’obiettivo principale di creare una comunità nuova che potesse modificare un luogo storico in una eterotopia di condivisione, di scambio e di confronto. Una frattura spazio-temporale del vivere quotidiano e una ricostruzione del contesto sociale esercitate, creando uno spazio reale altro, tanto perfetto meticoloso e ordinato quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico.
Sette giorni di festa fra spettacoli, incontri e laboratori, all’insegna delle arti e della coesistenza nel Castello di Alvito, splendido gioiello incastonato in cima alla Valle di Comino, per una manifestazione ideata e promossa dalla compagnia Habitas – composta da Niccolò Matcovich, Livia Antonelli e Chiara Aquaro – in collaborazione con Ivano Capocciama, sotto la direzione organizzativa di Anna Ida Cortese.
«Per fare un teatro popolare. Perché all’aria aperta, immersi nel buio, possiamo vedere le stelle grandi e stare con la testa tra le nuvole. Perché vogliamo osare, costruire un castello in aria e far sì che le fondamenta siano solide.»
Gli spettacoli
A dare il via a Castellinaria è stato lo spettacolo E quindi uscimmo a riveder le stelle, tratto dalla Divina Commedia, con il celebre Giorgio Colangeli accompagnato da brani musicali scelti, composti ed eseguiti alla chitarra da Tommaso Cuneo a cui è seguito Teatro d’Arte dei Burattini del maestro burattinaio della Valle di Comino Fulvio Cocuzzo. Rappresentazioni che non abbiamo avuto la possibilità di vedere e di conseguenza non possiamo raccontarvi.
L’imbroglietto – Variazioni sul tema della Compagnia Habitas
Scritto e diretto da Niccolò Matcovich, il divertissement della Compagnia Habitas porta in scena Livia Antonelli e Valerio Puppo nelle vesti sgargianti di due mimi parlanti, intenti ad escogitare un piano per entrare in teatro forse per vedere il complesso teatrale, per attraversarlo oppure perfino per cibarsene.
Una composizione scenica surreale, tagliata e ricomposta secondo un’ironia clownesca, che si impernia sul lavoro accurato di rigorosa aderenza dei due attori rispetto alla forte caratterizzazione dei personaggi, dotati di un vocabolario coniato ad hoc di grande portata caricaturale. Fra loro e l’ingresso a teatro si presenta lo spettro di un Macbook Pro, automa meccanico di sbarramento burocratico, l’emittente vocale di una signorina virtuale alla biglietteria che deve pur richiedere un prezzo da pagare perché si possa entrare. Da lì comincia la corsa folle sulla scena dei due attraverso il tempo. Utilizzando ambientazioni stranianti e codici estetici sempre più esilaranti viene ripercorsa l’evoluzione della specie umana, dalle forme primordiali alle scimmie con dei chiari riferimenti alle scena cult di 2001: Odissea nello Spazio, fino ad arrivare in un futuro da Guerre Stellari combattuto con le spade laser.
Infine, i nostri, dopo tanto vagare, sono disposti a mettere in gioco sé stessi e tutto ciò che hanno, perdere ogni cosa per avere quel poco che in realtà è il loro tutto: il teatro. Una denuncia satirica verso la situazione paradossale del teatro entro cui molti sono costretti a sottostare; un monito e al contempo un impulso esilarante a porsi delle domande sulle condizioni di sfruttamento e di isolamento in cui molti lavoratori sono costretti a sopravvivere.
L’imbroglietto – Variazioni sul tema della Compagnia Habitas
APLOD di Fartagnan Teatro
Concepito nel 2016, lo spettacolo APLOD rappresenta il primo tentativo di Fartagnan Teatro di coniugare la pratica teatrale all’interesse verso altre forme artistiche audiovisive digitali mantenendo alta l’attenzione sul tema della precarietà giovanile. La loro ricerca, infatti, prevede un’ibridazione fra la componente attoriale e quella drammaturgica finalizzate alla creazione collettiva e originale dei prodotti artistici, a cominciare dal dato autobiografico presente nella costruzione collettiva dell’opera.
Il modello drammaturgico utilizzato dall’autore Rodolfo Ciulla è quello di una puntata tipo da serie tv americana, giustificato dall’ambientazione distopica in un futuro non troppo lontano che, rappresentando un dispositivo estraneo alla forma propriamente teatrale, richiama a una dimensione cinematografica citazionista in cui sono facilmente ravvisabili i riferimenti a Pulp Fiction,Wolf of Wall Street, Il grande Lebowski, Fahrenheit 451, Breaking Bad e Black Mirror – come ci raccontano i componenti della compagnia. In questo senso, APLOD, rappresenta un’operazione da parte di Fartagnan Teatro di coinvolgere anche quel pubblico popolare maggiormente attratto da altre forme di intrattenimento, più accessibili e più facilmente fruibili rispetto allo spettacolo dal vivo.
Fartagnan Teatro, per trattare l’incertezza lavorativa dell’oggi, adotta la prospettiva di una società futura in cui la forte strumentalizzazione mediale diviene l’unica possibilità remunerativa, sebbene l’accesso e l’utilizzo dei più importanti siti di condivisione sia stato reso illegale dal governo. Una soluzione disperata che dà vita a una condizione paradossale declinata sulla scena tramite le figure iper-digitalizzate dei protagonisti – Michele Fedele, Matteo Giacotto, Ivo Randaccio, Federico Antonello – ossessionati dalla ripresa e dalla condivisione di video virali sulla piattaforma pirata APLOD, che li porterà, attraverso una escalation di situazioni tragicomiche, al culmine di un processo di disumanizzazione e di alienazione da cui è impossibile fuggire.
APLOD di Fartagnan Teatro
Questa è casa mia di Alessandro Blasioli
In Questa è casa mia, monologo scritto, diretto e interpretato dall’artista chietino Alessandro Blasioli, vengono ripercorse le vicende dell’infausto terremoto del 2009 a L’Aquila, attraverso la storia – dalle tinte fortemente autobiografiche – del protagonista, il giovane Paolo Solfanelli e della sua famiglia. A partire dal ricordo di quella notte maledetta in cui morirono 309 persone ha origine il racconto: la ricostruzione della città iniziata e mai conclusa, i cantieri, le tendopoli prigioni, il progetto C.A.S.E. e le New Town fanno da tetro scenario alla pièce.
Nonostante le tematiche tragiche trattate, lo spettacolo mantiene lungo tutto la sua durata quella carica satirica e dissacrante connaturata nella scrittura drammaturgica di Blasioli, abile nell’entrare e uscire dai diversi personaggi interpretati. In questa narrazione fra il serio e il faceto si alternano musiche popolari abruzzesi e conversazioni dialettali che con ironia si prendono beffa di certe usanze locali strappando quel sorriso intriso di amarezza.
Le notevoli capacità attoriali del performer abruzzese rendono quello di Alessandro Blasioli un teatro di impegno civile che non esitiamo a definire necessario, nella misura in cui all’intrattenimento, tipico di un certo teatro di narrazione più mainstream, abbina uno spiccato spirito di denuncia politica che ci porta a conoscere la realtà delle cose, a riflettere e sbatterci contro duramente fino a domandarci se «un giorno questo dolore ti/ci sarà utile».
Questa è casa mia di Alessandro Blasioli
SEMI di Vulie Teatro
Della discordia e dell’amore, dell’insoddisfazione e dell’incomunicabilità, del tradimento e della fedeltà: questi sono i semi piantati in scena da Ugo e Claudia. Dicotomiche frapposizioni che germogliano in un intricato labirinto relazionale raccontato dai Vulìe Teatro intorno a un tavolo da pranzo, luogo simbolo del confronto familiare. Una coppia satura, ormai in frantumi, che con il tradimento cerca di fuggire i soprusi di un amore al capolinea. Dialoghi serrati, dai ritmi frenetici, che Claudia conduce trascinando con sé il compagno Ugo in un vortice di amara comicità.
I Vulìe Teatro nascono dalla necessità di Marina Cioppo e Michele Brasilio – rispettivamente drammaturga e regista della compagnia ed entrambi attori di SEMI – di trovare un libero spazio d’espressione e di creazione entro cui mettere a frutto le proprie velleità drammaturgiche, attoriali e registiche. SEMI è uno spettacolo che parla di forti interazioni tra le persone, tutto giocato sull’esagerazione, sulla sopraffazione, sul superamento dei limiti, sulla scarnificazione dell’altro. Mettere in scena l’amore, tema ampiamente indagato in teatro, è un rischio che i Vulìe Teatro si assumono utilizzando la comicità per raccontare, con un’iperbole emotiva, il drammatico epilogo di una relazione amorosa.
Forte è il taglio cinematografico della regia con rimandi alla commedia francese, alla tradizione napoletana di Eduardo De Filippo e di Massimo Troisi echeggiante nel biascicato di Ugo, all’”unica situazione” da serie TV americana. Nell’assetto drammaturgico è lasciato ampio spazio all’improvvisazione, sostenuta dal dispositivo comico/spalla e dalla complicità dei due attori, che fa dello spettacolo un prodotto in continuo divenire. La giovane compagnia casertana, lavorando su testi originali e su regie visionarie, ha l’obiettivo di produrre due spettacoli all’anno continuando a fare un teatro che svisceri i rapporti umani, in cui la suddivisione dei ruoli e delle competenze consenta uno spazio creativo indipendente, seppur all’interno di un progetto artistico comune.
SEMI di Vulie Teatro – Foto di Simone Galli
Abu sotto il mare di Pietro Piva
Come un moderno Ulisse, nel maggio del 2015 il piccolo Abou, ivoriano di soli otto anni, viene trovato alla frontiera tra l’enclave spagnola di Ceuta e il Marocco nella valigia di una giovane donna che stava tentando di introdurlo in terra spagnola sotto compenso del padre. L’odissea di Abou finisce sul nastro dei macchinari a raggi x della frontiera, destando lo scalpore e l’indignazione dell’opinione pubblica rispetto alla ferocia delle condizioni di vita degli immigrati, disposti a sacrificare la propria dignità umana nel tentativo di realizzare il sogno di un futuro migliore.
In Abu sotto il mare, trasposizione teatrale della drammatica storia di Abou, portata in scena da Pietro Piva, la dimensione fiabesca fa da cornice al racconto del crudele viaggio che Abu affronta, immaginando ciò che il mondo gli riserverà dall’interno della valigia che lo trasporta. Piva, cerone bianco in volto, richiamandosi all’arte del mimo, indossa le vesti del piccolo migrante che dal buio della sua valigia emerge, illuminando il mare dell’immaginario in un gioco riflessi prodotti dalla rifrazione della luce sulla coperta termica che lo avvolge. La scrittura scenica si avvale di una struttura mobile che il performer abita sul palcoscenico per creare una stratificazione narrativa sospesa tra il racconto dell’esperienza del viaggio di Abou e la creazione di un fondale immaginario dove prendono vita le fantasie del bambino, fra sirene e pesci. Le possibilità della voce, importante supporto tecnico per la prova attoriale di Piva, sono ricamate su un tessuto drammaturgico che, insieme alla dedizione per l’impianto visivo dell’opera, crea un contrappunto emotivo di parole, luci, suoni e visioni di grande suggestività.
Rispetto alla costruzione visiva dell’immagine e alle soluzioni scenotecniche adottate da Piva, sono ravvisabili i riferimenti alle poetiche di grandi maestri come Claudio Morganti, Eimuntas Nekrosius, Roberto Latini – come lo stesso perfomer bolognese ci conferma nel dialogo post-spettacolo. Il teatro nella concezione di Piva è inteso come rituale catartico di matrice sacrale che sottende alla morte nella relazione fra l’attore e lo spettatore in uno spazio dove regna il silenzio puro veicolato da quel linguaggio che Beckett definisce “bucato” costruito su una partitura di pausazioni.
Abu sotto il mare di Pietro Piva – Foto di Simone Galli
Laboratori
B-CLOWN Laboratorio a cura di Andrea Cosentino
Gioco, maschera e sguardo sono le tre tappe del percorso laboratoriale tracciato da Andrea Cosentino: una ricerca che fa dell’esibizionismo del clown e della fragilità della sua identità spettacolare, il punto di partenza per l’indagine del grado zero dell’esperienza performativa. Celarsi dietro la maschera significa alterare la direzione dello sguardo, dunque la ricezione spettatoriale, ma anche avere la libertà di inventare delle azioni sceniche che, nell’improvvisazione, si fanno occasione drammaturgica per la scrittura teatrale. Giocare significa allora spogliarsi degli automatismi della tecnica, per riscoprire l’infantile emozione di un protagonismo che la primordiale stoltezza della performance nutre e rinvigorisce.
Bagaglio comune per i partecipanti al laboratorio è uno spunto narrativo che, senza volontà artistiche, stimoli una creazione scenica cosciente su base improvvisativa, articolata in brevi sketches. Che si tratti di esibizioni singole o comuni, ciò che Cosentino suggerisce è una attenzione all’interrogazione personale sulle modalità di sperimentazione, di lavoro e di realizzazione. Nella cornice del teatro comunale di Alvito, con un dialogo e un confronto costanti, Cosentino e i suoi, indossati i nasi rossi, producono dei numeri clowneschi la cui struttura, incerta per via dell’improvvisazione, è sostenuta dagli sguardi che gli attori si rivolgono in un contrappunto di contatto e scambio.
Com’è tipico del numero di clownerie, alla presentazione succede un momento di costruzione della scena in cui la creazione è fortemente enfatizzata per dar vita a qualcosa di inaspettatamente semplice. Guardare il pubblico con amore, affetto e ammirazione, vuol dire chiedere una partecipazione che non solo attiva il dialogo con lo spettatore ma che offre un’opportunità di potenziamento della gag, soprattutto se lo sguardo esibito è messo in contrasto con l’intenzione dell’azione. “B-CLOWN”, essere i clown di Cosentino, indica dunque la possibilità di tornare all’ingenua proposizione di sé stessi, liberi da finzioni e sovrastrutture tecniche ed esperienziali.
C’ERA QUELLA VOLTA CHE Laboratorio a cura di bologninicosta
Pubblico e privato si fondono nella rievocazione storica, in una ricerca archetipa da cui si origina una collazione di immagini e ricordi che danno forma al presente. Lo slancio creativo è il frammento mnemonico, il souvenir di un momento di vita che fa breccia nell’oggi, ora rileggendolo, ora rimodellandolo. La compagnia bologninicosta ha accompagnato i partecipanti al proprio laboratorio in quelli che gli abitanti di Alvito considerano i luoghi della memoria del borgo della Valle di Comino. Qui, la scoperta di eventi storici segnanti per la collettività indigena. La mistura di questi nuclei storico-narrativi e del ricordo personale dei partecipanti, ha fatto emergere la necessità di creare dei brevi racconti itineranti, imbevuti di sapere popolare, che sembrano in grado di dare una forma visiva e concreta alla tradizione orale.
Il rapporto con l’ambiente è forza motrice di un’azione scenica compiuta in site-specific e accresciuta dalla fisionomia dei luoghi, ottenuta mediante il totale coinvolgimento del corpo e dell’individualità degli attori. Ciò comporta una partecipazione volontaria quanto involontaria del tessuto cittadino, invaso dalle incursioni teatrali degli attori e delle attrici partecipanti al laboratorio. I violenti cambi di registro non destabilizzano l’attenzione dell’osservatore che, nella restituzione dei manufatti artistici del laboratorio, può trovarsi ad assistere al doloroso racconto di un conflitto a fuoco tra partigiani e tedeschi o al tragicomico sforzo di tre donne ciociare che, all’indomani della prima notte di nozze di una, tentano di provare agli occhi della comunità la verginità della sposa.
Nell’assoluta libertà di scegliere a quale personale ricordo attingere, gli attori e le attrici ottengono un risultato performativo la cui documentazione autentica e il cui processo immaginifico di creazione artistica disegna una dimensione soggettiva a partire dall’oggettività della realtà storica e comunitaria. Una ricerca, quella proposta da Sofia Bolognini e Dario Costa, teatrale e sociologica insieme mirante alla rielaborazione politica di antiche tracce di vita nella società moderna.
#Eteropiainaria
Sulle note di Mario Insenga e dei suoi Blue Stuff, cento lanterne cinesi sono volate in aria nella serata conclusiva del Festival. Ad accenderle il folto gruppo dello Staff e un gran numero di spettatori, autoctoni e forestieri, accorsi a sostenere una manifestazione capace di rinvigorire le possibilità aggregative delle arti performative nonché di rivitalizzare la proposta d’intrattenimento culturale della città di Alvito. Il successo di questa prima edizione, figlio dell’impegno, della passione e della professionalità della compagnia Habitas e di Ivano Capocciama per la direzione artistica e di Anna Ida Cortese per il comparto organizzativo, fa ben sperare circa la possibilità che questa eterotopia in aria possa divenire un appuntamento annuale in cui potersi sentire come i sognatori di Flaiano: uomini con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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