Non son solo marionette: Alberto Jona racconta il Festival Incanti

Non son solo marionette: Alberto Jona racconta il Festival Incanti

Che si tratti di burattini, marionette, pupazzi o ombre, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, la narrazione di storie attraverso questi strumenti antichissimi ha trovato una denominazione che li racchiude tutti in un’unica macrocategoria, quella del cosiddetto Teatro di figura. Eppure, a dispetto del riconoscimento formale e della forte tradizione, qui in Italia non si rintracciano percorsi accademici di formazione, affidata altrimenti a corsi e laboratori all’interno dei festival (che per fortuna non mancano), e a singole compagnie e centri di produzione teatrale. 
La realtà, però, è animata e tutt’altro che stantia, grazie soprattutto agli scambi internazionali con quei Paesi in cui il teatro di figura si apre a suggestioni di ricerca, arrivando fin qui come una ventata d’aria fresca e rigenerante. 

Seguendo questa doppia direttrice – con un occhio alla formazione in Italia e un altro all’estero – si muove il Festival Incanti di Torino, giunto nel 2021 alla ventottesima edizione: il direttore artistico Alberto Jona – nonché musicista tra i fondatori della compagnia Controluce – Teatro d’Ombre che lo ha ideato – ha approfondito alcuni aspetti della rassegna: a partire dalle origini, passando per una pandemia, e arrivando fino a oggi.                                 

Quali sono gli elementi caratterizzanti del festival e che evoluzione ha seguito col succedersi delle edizioni?

Quello che è cambiato negli anni ha sicuramente a che fare con l’impostazione del festival, che all’inizio era molto più “tradizionale”, in quanto vetrina delle nuove istanze di teatro di figura. Innovativa e abbastanza rara per quei tempi, era invece la sua caratteristica principale: quella di essere, fin dagli albori, nel ’94, uno dei primi festival di teatro di figura dedicato sostanzialmente a un pubblico adulto, come avveniva di fatto all’estero, dove quest’arte era maggiormente orientata alla sperimentazione. Si evince, dunque, il secondo elemento caratterizzante che è stato, e continua a essere, la forte attenzione verso il mondo internazionale, da cui la novità di presentare sul palco di Incanti compagnie estere in prima assoluta, spesso, o in prima italiana.

L’evoluzione è avvenuta anche grazie all’appoggio della Regione Piemonte che ha sponsorizzato molto il festival e ci ha spinti alla creazione di percorsi formativi. Dal 2008, ha preso infatti avvio il Progetto Incanti Produce (PIP) che, arrivato fino alle soglie della pandemia, ha ospitato artisti di fama internazionale – tra cui Frank Soehnle, Neville Tranter, Duda Paiva –  nei luoghi messi a disposizione dal comune di Grugliasco. 

Per anni siamo dunque andati avanti con questo progetto che si è poi ampliato con una serie di workshop collaterali al festival e dedicati in modo particolare al teatro d’ombre, essendo questo il focus artistico della nostra compagnia; dieci anni fa ha così preso forma il Progetto Cantiere, che ancora resiste nel tempo. Nato dapprima come uno spazio di visibilità per giovani compagnie, è divenuto negli anni un più esteso percorso di formazione: si è creata infatti una rete di sette festival che, agendo sinergicamente, conducono al debutto e alla circuitazione degli artisti emergenti del panorama italiano. 

Un ulteriore step, purtroppo interrottosi con l’arrivo della pandemia, è il Progetto Accademia, grazie al quale abbiamo ospitato i lavori conclusivi degli allievi di importanti accademie europee – le quali prevedono una sezione specifica relativa al teatro di figura – così da sensibilizzare e stimolare l’attenzione di pubblico e istituzioni anche qui in Italia. 
Da non dimenticare, infine, i rapporti continuativi che si sono stabiliti, ad esempio, con Animateria, corso di formazione di teatro di figura guidato da Teatro Gioco Vita di Piacenza, per sopperire più efficacemente al vuoto presente in ambito accademico.

È abbastanza evidente che oltre al vuoto di cui mi parli, un altro elemento di disturbo sia stato l’arrivo della pandemia che ha rallentato l’evolversi del festival. Come avete reagito a questa esperienza?

Incanti 2020 è stato un festival principalmente italiano, non potendo ospitare compagnie dall’estero per ovvi motivi. Abbiamo reagito dunque creando spazi virtuali, non tanto per fare spettacolo – dato che il teatro ha bisogno della fisicità nonché, eventualmente, dei mezzi tecnici per lo streaming che nel nostro piccolo abbiamo comunque attivato – quanto per favorire un incontro proficuo con gli spettatori. L’edizione 2020 è nata infatti a partire da un dialogo col pubblico che abbiamo interpellato per capire come declinare la nuova versione del festival sfruttando l’elemento tecnologico; ne è scaturita l’apertura di un sipario virtuale per mostrare ciò che accade dietro le quinte nella costruzione di una tipologia di spettacolo in cui è insita una forte componente di magia, e di un dialogo con maestri e compagnie del settore. Questa e altre iniziative sinergiche di successo, come quella con la Scuola Holden relativa a un progetto di scrittura per il teatro, hanno contribuito alla fidelizzazione del pubblico.

Il focus tematico delle scorse edizioni è stato principalmente sul viaggio, accompagnato, in quest’ultima, al tema della natura violata. Come avete trattato questi argomenti in relazione alla contemporaneità?

L’intento di Incanti è sempre stato quello di agganciarsi a temi quotidiani e contemporanei. Lo stimolo ha preso avvio dal fenomeno delle migrazioni e, dunque, il viaggio ha assunto, da un lato, la dimensione reale e fisica (come nel caso del meraviglioso spettacolo dello Stuffed Puppet Theater di Neville Tranter, Babylon, presentato in prima nazionale nel 2018); dall’altro, in particolare in quest’ultima edizione, il senso metaforico di un viaggio dentro di sé e, in un momento di emergenza in cui non era facile spostarsi all’estero, anche verso la conoscenza. Il tema, che è rimasto una costante e lo sarà ancora per un triennio, prevede di spaziare oltre i confini fisici, di genere, biologici, per trovare un aggancio con le questioni attuali più dibattute che il teatro di figura può affrontare; esso presenta inoltre anche un elemento di ambiguità che non ne costituisce una limitazione, quanto piuttosto un’amplificazione del senso, dove ognuno trova, tra le molteplici, la sua chiave di lettura.

Il problema stringente dell’ultimo periodo è poi quello della natura violata, e la pandemia, in tal senso, è stata la risposta inaspettata dell’ambiente all’uomo; il tema dell’ecologia è anch’esso altrettanto importante, e qui voglio ricordare, in particolare, Kumuluninbu della Compagnia Ortiga, uno spettacolo forte e poetico sul tema dell’acqua, andato in scena nell’edizione del 2019. 
È interessante notare come la sensibilità verso queste tematiche si riscontri anche tra le giovani compagnie italiane, che sono attente al problema e stanno lavorando in una direzione che mi convince molto.

Ph Yair Meyuhas

Hai accennato allo spettacolo spagnolo della Compagnia Ortiga e, in generale, ho notato che nella scorsa edizione di Incanti vi siete concentrati molto sulla Spagna. C’è una precisa ragione dietro questa scelta?

Da qualche anno, Incanti prevede, per ogni edizione, un focus su una nazione, ed è una scelta resa possibile anche dalla vittoria di bandi internazionali. Per quest’ultima, ci siamo concentrati sulla Spagna essenzialmente per due motivi: oltre al riconoscimento da parte del Ministero della Cultura spagnolo verso la nostra attività, nel 2019 si è venuta a creare una bella sinergia tra il Progetto Cantiere di Incanti e la Plataforma de Lanzamiento, un’iniziativa analoga nell’ambito del festival madrileno Pendientes de un hilo; inoltre, il teatro spagnolo, insieme a quello francese a cui abbiamo già riservato un’edizione, risulta davvero molto interessante sul fronte della sperimentazione. Nel 2021, per esempio, Incanti ha portato per la prima volta in Italia la compagnia emergente Zero en Conducta, che qui non è ancora conosciuta, ma in Spagna sta spopolando e, in generale, il teatro spagnolo presenta un sincretismo linguistico e un connubio molto forte tra la danza, il circo e l’uso dei puppet che ci è sembrato stimolante in un’ottica di ricerca.

Perché in Italia, sebbene ci sia una grande tradizione, il teatro di figura sembra aver preso una strada diversa e sia in generale più indietro rispetto all’innovazione di linguaggi che si riscontra oltre confine? Immagino non sia solo un problema legato alla formazione, ma abbia a che fare con una questione culturale a monte…

Anni fa, c’è stato un dibattito a tal proposito tra Incanti e organizzatori teatrali provenienti da vari Stati, ed è emerso che una delle cause può rintracciarsi proprio nel forte radicamento alla tradizione; mentre in Paesi come la Francia questa si è un po’ perduta e il teatro di figura ha preso altre strade di ricerca, in Italia abbiamo alle spalle un grande patrimonio in tal senso e una grande sicurezza, che è meraviglioso ci sia, ma al contempo rappresenta, più che un limite, un ancorarsi a qualcosa di certo. Per fare un esempio di teatro di figura tradizionale che si è aperto nel tempo a nuovi influssi, potrei citarti quello turco del Karagöz, un teatro d’ombre che ha ritrovato linfa vitale agganciandosi a temi contemporanei. 

Anche qui in Italia, comunque, ci sono esempi che pur inserendosi nella tradizione si sono spinti oltre: basti pensare al cunto di Mimmo Cuticchio, al patrimonio dei Pupi, e allo spettacolo con Virgilio Sieni, dove la danza contemporanea dialoga con l’arte della marionetta dando origine a una commistione di linguaggi che è assolutamente di ricerca; ma anche altre giovani compagnie stanno portando avanti un significativo lavoro di ricerca, penso alle Unterwasser e agli Zaches, per fare due nomi.

Esiste poi un’altra causa, ovvero un problema relativo alla fruizione, dato che soprattutto alla fine del ‘900 le marionette e i burattini sono stati associati a un teatro prettamente per l’infanzia, mentre una volta avevano una funzione totalmente diversa… basti ricordare che la prima edizione dell’Aida di Verdi al Teatro Regio di Torino andò in scena in un teatro di marionette!

L’elemento di meraviglia, già insito nel nome del festival, penso sia il vero punto di forza di questo teatro, ma mi chiedevo se non risieda anche lì il diffuso pregiudizio di considerarlo un tipo di spettacolo più per bambini che per adulti. Pensi ci sia una sorta di timore nel meravigliarsi attraverso questo linguaggio? 

L’elemento dello stupore è indubbiamente il punto di forza di questo teatro in cui tutto è possibile senza effetti speciali, ma con un lavoro artigianale; anche la qualità di movimento di quelli che definirei dei piccoli golem lascia esterrefatti, così vicina a quella di un essere umano. Ma tale meraviglia non appartiene solo al mondo dell’infanzia, ed è stata proprio questa la nostra scommessa di ventotto anni fa, quando abbiamo deciso di rivolgere Incanti esplicitamente a un pubblico adulto; volevamo infatti dare dimostrazione che con questo linguaggio potevamo affrontare qualsiasi argomento, anche complesso e in maniera ancor più incisiva proprio grazie a quello stupore che amplifica la lettura e che forse da adulti abbiamo un po’ paura di recuperare. Cito, per esempio, uno spettacolo dello Stuffed Puppet Theater sugli ultimi giorni di Hitler che molte persone ancora ricordano per l’effetto sconvolgente che ha generato. 

E si tratta di un pubblico assolutamente trasversale, con una media anagrafica piuttosto alta che va dai 35 ai 38 anni, quello di Incanti, che affascina un po’ tutte le generazioni, le quali riconoscono la grande capacità immaginifica e narrativa del teatro di figura, e che noi proviamo a raggiungere nei luoghi più desueti, grazie anche alla collaborazione con realtà come l’Università o il Museo del Cinema di Torino.

Abbiamo già accennato alla commistione tra diverse espressioni artistiche, come la danza e il teatro di figura, data la capacità di quest’ultimo di amalgamarsi magicamente con linguaggi differenti. Cosa mi dici, dunque, del rapporto col cinema?

La Compagnia Controluce nasce, in un certo senso, proprio grazie al Museo Nazionale del Cinema di Torino, quando l’allora direttore Paolo Bertetto si innamorò del nostro primo spettacolo definendoci “i nonni del cinema”; in effetti, non è poi così azzardato affermare che il teatro d’ombre sia stato il primo tentativo di immagini in movimento. Si tratta dunque, da parte nostra, di un rapporto quasi trentennale (a cui negli anni si è affiancata l’ASIFA, l’associazione dedicata al teatro di animazione), che dal 2000 si è più strutturato anche rispetto a Incanti; il festival, infatti, dedica sempre una serata alla relazione tra cinema di animazione e teatro di figura, e sono stati inoltre organizzati dei workshop sulla stop-motion per sottolineare la stretta parentela tra queste due forme artistiche e la sperimentazione che le accomuna. 

Tra esse, esiste dunque una grande possibilità dialogica, favorita dal concetto allargato di teatro di figura, nel quale rientra ormai qualsiasi genere che operi sull’immagine animandola, come nel caso delle lanterne magiche giapponesi utilizzate nel teatro spagnolo e olandese; il segreto credo stia allora nel mantenere il delicato equilibrio di questo interscambio, tra l’affascinante macchina “barocca” del teatro di figura e l’altrettanto affascinante e sperimentale mondo del cinema.