da Redazione Theatron 2.0 | 20 Mar 2018 | AccaddeOggi
Henrik Ibsen, nato a Skien, in Norvegia, il 20 marzo 1828 e morto ad Oslo il 23 maggio 1906, è stato un drammaturgo, poeta e regista teatrale norvegese. È considerato il padre della drammaturgia moderna, per aver portato nel teatro la dimensione più intima della borghesia ottocentesca, mettendone a nudo le contraddizioni e il profondo maschilismo.
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Il drammaturgo norvegese, mise in scena personaggi in preda alla contraddizione tra le loro capacità e le loro ambizioni. Gli uomini e le donne creati da Ibsen, pronti a sacrificare tutto per perseguire il proprio ideale e ad esprimere con impeto la propria personalità, restano sorprendentemente vivi a più di un secolo di distanza, poiché traducono con forza le grandi angosce del nostro tempo. Il teatro di Ibsen è stato definito di volta in volta naturalista, simbolista, anarchico… In verità la sua opera, basata su realtà vissute, difendono teorie spesso audaci, calate in personaggi di una verità intensa. La norma di quest’arte è il rigore. Ibsen era convinto che il mondo intero fosse alla ricerca di una fede, di una vocazione. Era convinto che qualsiasi uomo avesse una “passione vitale” che necessitava di tradurre in atti. Tale è la verità degli uomini e delle donne che mette in scena, i quali cercano di essere liberi fino in fondo, fino alla radice del proprio essere. Henrik Ibsen valorizza una tecnica drammaturgica che si rifà alla tragedia greca, dove il passato riaffiora progressivamente di fronte ai personaggi e al pubblico, e così trasforma il teatro borghese in una scena perturbante sulla quale vengono discussi i problemi sociali ed esistenziali all’insegna dell’assoluta necessità di emancipare l’individuo da un radicale “disagio della civiltà” che lo serra con le sue convenzioni.
Ciò che determina la tonalità principale dell’opera di Ibsen, e che sembra essere la chiave della sua concezione del tragico, è il dubbio vitale che distrugge lentamente nel personaggio la vocazione, la felicità, la volontà, l’amore ideale, la realtà vissuta.
Nessuno può sottrarsi al proprio destino, ai propri atti inconsapevoli, alle tare delle generazioni precedenti.
Ogni nuova opera, per me, ha avuto lo scopo di liberarmi e purificarmi lo spirito.
Henrik Ibsen
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Redazione Theatron 2.0 | 17 Mar 2018 | AccaddeOggi
Rudolf Chametovič Nuriev è stato un ballerino e coreografo russo naturalizzato austriaco, conosciuto da tutti come Rudolf Nureyev, ritenuto da numerosi critici uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nižinskij e Baryšnikov.
Nato a Irkutsk in Russia il 17 marzo 1938 e morto a Parigi il 6 gennaio 1993 all’età di 54 anni, da tempo malato di Aids.
A 19 anni, Nureyev è già considerato uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi. Artista di straordinaria personalità che influenzò in modo imprescindibile la danza, valorizzando l’importanza dei ruoli maschili fino ad allora legato a semplice porteur, sviluppandone con cura le parti coreografiche.
Fu precursore della versatilità della danza abbattendo il confine tra il balletto classico e quello moderno danzando entrambi gli stili.
Nel corso della sua vita, Nureyev ha interpretato decine di ruoli, sia classici che moderni, sempre con enormi potenzialità tecniche e di immedesimazione. Come i cantanti lirici che per essere tali a tutti gli effetti non devono limitarsi a saper cantare, così l’essere ballerino per Nureyev significava essere anche attore, capace di coinvolgere il pubblico e trascinarlo nel vortice delle storie raccontate in musica dai grandi compositori.
Inoltre, non bisogna dimenticare che crearono per lui tutti i massimi geni della coreografia, fra i quali vanno annoverati Ashton, Roland Petit, Mac Millian, Bejart e Taylor.
Rudolf Nureyev, non è stato soltanto il più grande ballerino del novecento, ma anche l’artefice di una profonda trasformazione della danza classica e al di fuori della scena l’icona di un modo di vivere ribelle, libero e anticonformista.
Riportiamo un estratto della Lettera alla Danza che lo stesso Rudolf Nureyev scrisse quando la sua vita stava per volgere al termine, una “lettera al mondo”, un testamento spirituale:
“[…]Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore.
Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita […]”
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da Redazione Theatron 2.0 | 20 Feb 2018 | AccaddeOggi
Il 20 febbraio 1968 al teatro di Torre Argentina va in scena la prima de “Il barbiere di Siviglia” (intitolato originariamente Almaviva, o sia l’inutile precauzione in deferenza al barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello). È un’opera buffa di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini, tratto dalla commedia omonimadi Beaumarchais.
La prima fu un fiasco, riscattato immediatamente dal successo delle repliche. L’opera di Rossini finì ben presto per oscurare quella di Paisiello, divenendo una delle più rappresentate e probabilmente la più famosa del compositore pesarese. Ad esempio, nel 1905, il celebre tenore Angelo Masini decise di chiudere la propria carriera proprio con la rappresentazione de Il barbiere di Siviglia. L’opera, come tutte quelle scritte da Rossini, divenne subito celebre all’epoca ed ancor oggi è tra le maggiormente eseguite.
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da Redazione Theatron 2.0 | 17 Feb 2018 | AccaddeOggi
Il vero nome di Molière è Jean-Baptiste Poquelin. Nato a Parigi il 15 gennaio 1622 assumerà lo pseudonimo all’età di ventidue anni. Nel 1641 porta a termine gli studi di diritto, e diviene avvocato. Comincia a frequentare gli ambienti teatrali, dove intrattiene una relazione con la ventiduenne Madeleine Béjart, Con l’aiuto di tale donna colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari, leale e devota, organizza una compagnia teatrale che servirà a Molière per capire la propria vocazione di attore. La piccola compagnia prende in affitto il ‘Jeu de Paume des Métayers’ di Parigi, inscenando spettacoli di ogni tipo, dalle tragedie alle farse. Il primo giorno di gennaio del 1644 l”Illustre Théatre’ debutta a Parigi: il pubblico non apprezza il gruppo di artisti e in breve iniziano ad accumularsi debiti, fino ad arrivare all’arresto di Molière per insolvenza. Nel 1645 la compagnia si scioglie. Una volta tornato in libertà, Molière assieme ad alcuni membri della compagnia abbandonano la capitale francese per iniziare la carriera di attori ambulanti. Molière capisce che la sua vera aspirazione è la commedia: in questo genere eccelle già con la sua prima opera ‘Le preziose ridicole’ (Les précieuses ridicules).
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Nel 1660 arriva il grande successo di ‘Sganarello o il cornuto immaginario’. Nel mese di giugno arriva la prima presentazione de ‘La scuola dei mariti’ (École des maris). In onore di una festa offerta a Luigi XIV, in quindici giorni Molière scrive e mette in scena la commedia ‘Gli importuni’ (Fâcheux). Ispirandosi ad ‘Aulularia’, commedia in prosa di Tito Maccio Plauto, e prendendo spunti anche da altre commedie (‘I suppositi’ dell’Ariosto; ‘L’Avare dupé’ di Chappuzeau, del 1663; ‘La Belle plaideuse’ di Boisrobert, del 1654; ‘La Mère coquette’ di Donneau de Vizé, del 1666), Molière tra il 1667 e 1668 scrive ‘L’avaro’ (L’Avare ou l’École du mensonge). L’opera viene rappresentata per la prima volta a Parigi, al Palais-Royal, il 9 settembre 1668 dalla ‘Troupe de Monsieur, frère unique du Roi’ che è la compagnia di Molière stesso. Molière muore di tubercolosi il 17 febbraio 1673 mentre recita ‘Il malato immaginario’; prima di morire aveva recitato a fatica, coprendosi la tosse – si dice – con una risata forzata. Molière può essere considerato a tutti gli effetti il precursore di quel rinnovamento teatrale che comincerà ad esprimersi compiutamente solo un secolo dopo, con Carlo Goldoni, fino a raggiungere la piena maturità nel teatro di Anton Cechov. Anche l’italiano Dario Fo indicherà Molère tra i suoi maestri e modelli.
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da Redazione Theatron 2.0 | 2 Feb 2018 | AccaddeOggi
Silvio D’Amico fu educato dai gesuiti all’Istituto Massimo di Roma. Dopo la laurea in giurisprudenza, nel 1911 vinse il concorso del Ministero della Pubblica Istruzione per la Direzione generale antichità e belle arti, mentre nel 1923 ottenne la cattedra di storia del teatronella Regia Scuola di Recitazione “Eleonora Duse”.
A venticinque anni intraprese l’attività di giornalista, al quotidiano L’Idea Nazionale, diretto da Domenico Oliva, come vice dello stesso Oliva nella rubrica teatrale, e in seguito, alla morte del direttore, nel 1917, divenendone titolare. Diresse la rubrica di critica drammatica su La Tribuna (con cui l’Idea Nazionale si era fuso) dal 1925 al 1940.
Fondò, e dal 1932 al 1936 diresse, la rivista Scenario, insieme a Nicola De Pirro.
Nel 1935 venne nominato Commissario straordinario per la riforma della scuola di recitazione di Roma, trasformando la Regia Scuola di Recitazione (intitolata a Eleonora Duse) in Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Negli anni del primo dopoguerra dedicò gran parte del suo tempo all’Accademia; nel 1944 favorì l’ingresso di Orazio Costa alla cattedra di Regia inaugurando così una lunga e gloriosa stagione dell’Accademia stessa. Oggi l’Accademia porta il suo nome.
Dal 1937 al 1943 diresse la Rivista italiana del Dramma (poi Rivista italiana del teatro), edita dalla Società degli Autori. Scrisse su Il Giornale d’Italia dal 1941 al 1943. Interruppe le collaborazioni in seguito all’occupazione tedesca della capitale.
Dopo la Liberazione riprese a collaborare coi quotidiani: dal 1945 al 1955 è il critico de Il Tempo. Sempre dal 1945 diresse la rubrica Chi è di scena? della Rai.
Curò la collana Il Teatro del Novecento, per le edizioni Treves (5 volumi) e la collana di testi teatrali Repertorio (21 volumi). Rimasta nella storia la raccolta di più testi sulla Storia del Teatro Drammatico, oggi in edizione riveduta e aggiornata. Diresse e curò una imponente Enciclopedia dello Spettacolo in 11 volumi (1954-75).
Scomparve a Roma nell’aprile 1955; alla notizia della sua morte, i teatri della capitale restarono chiusi per lutto. È sepolto nella tomba di famiglia al Quadriportico del Verano. Il fondo Silvio D’Amico è conservato nel civico Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.
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