Celebriamo il 25 novembre: Lo stupro, il monologo di Franca Rame
Celebriamo la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne pubblicando il testo integrale de Lo stupro, monologo scritto da Franca Rame nel 1975.
In un primo momento, Franca Rame disse di essersi ispirata a una testimonianza letta su un quotidiano. In realtà aveva subito uno stupro in prima persona: la sera del sera del 9 marzo del 1973, a Milano, fu caricata su un furgone, torturata e violentata a turno da cinque uomini. Fu uno stupro punitivo: i violentatori erano neofascisti, volevano farla pagare per le sue idee politiche, ma scelsero di punirla in quanto donna. Non furono mai arrestati, poiché il reato cadde in prescrizione.
Theatron 2.0 esprime solidarietà nei confronti di tutte le vittime di violenza.
Lo stupro
C’è una radio che suona ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo, stelle, cuore, amore…amore…
Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena, come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.
Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.
Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce, la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza…Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?
Non lo so.
È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare…è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.
Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena…s’è seduto comodo…e mi tiene tra le sue gambe, fortemente, dal di dietro, come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.
L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.
Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce, né gran spazio, forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.
Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?
Sta per succedere qualche cosa, lo sento…respiro a fondo…due, tre volte. Non, non mi snebbio. Ho solo paura.
Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.
Sono vicinissimi.
Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.
Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli…li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.
Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!
Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo…un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.
Una punta di bruciore. Le sigarette…sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.
Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere…Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.
Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.
Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo, mi tagliano anche il reggiseno, mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature.
Ora mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.
Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.
Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.
Devo stare calma, calma.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola, non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.
“Muoviti puttana fammi godere”.
Sono di pietra.
Ora è il turno del secondo, i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.
“Muoviti puttana fammi godere”.
La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”.
Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.
È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.
“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
Ci credono, non ci credono, si litigano.
“Facciamola scendere. No, sì.” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.
Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore…pardon…l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere e se ne va.
Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male, nel senso che mi sento svenire non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo, per l’umiliazione, per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello, per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero, mi fanno male anche i capelli, me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia.. è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.
Cammino, cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. I poliziotti, gente ce entra, che esce. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora. Sento le loro domande. Vedo le loro facce, i loro mezzi sorrisi. Penso e ci ripenso. Poi mi decido.
Torno a casa…torno a casa…li denuncerò domani.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.