Sull’isola dell’inganno. S 62° 58’, W 60° 39’ dei Peeping Tom

Mar 24, 2025

Trovarsi davanti il titolo di uno spettacolo che rimanda a coordinate geografiche può scoraggiare la curiosità anche dello spettatore più navigato. Ma nel caso dei Peeping Tom questa mancanza di attenzione può costare caro e S 62° 58’, W 60° 39’ rappresenta più di un semplice titolo. Si dà il caso che si tratti di un’indicazione precisa: rimanda alla posizione di Deception Island (Isola dell’inganno), un atollo di terra sperduto tra i ghiacci dell’Antartico. E proprio tra i ghiacci dell’Antartico è rimasta incagliata l’imbarcazione che offre incerto riparo ai personaggi di questa storia.

Alla scenografia imponente, che ricopre l’intero palco del Teatro Bellini di Napoli, fa da contrasto la miseria di un uomo, di un padre, che tra le acque gelide vede scivolare il corpo senza vita del figlio. L’intera sala percepisce la delicatezza del momento e il dramma sale. Ma l’inganno teatrale – di cui eravamo ancora una volta stati avvisati dal titolo – si rompe in fretta, e l’uomo smette di vestire la maschera del personaggio-padre per tornare ad essere attore. Si rivolge al regista, la scena non funziona, ripete, abbandonando temporaneamente il palco.

Poco per volta si disvela il meccanismo e il pubblico apprende che quel bambino perduto tra le acque a causa dell’incuria del padre, altro non è che una metafora. È il regista stesso (Franck Chartier)che vuole parlare di sé, raccontare un frammento insoluto di infanzia, di un abbandono genitoriale inflitto e subito che non smette di agitarlo.
Ma l’azione è tutta interiore, mentale, cervellotica, aggrovigliata in una matassa che fatica a districarsi e a trovare la via dello sfogo artistico. Lo sa lui, lo sanno gli attori della compagnia (Marie Gyselbrecht, Chey Jurado, Lauren Langlois, Yi-Chun Liu, Sam Louwyck, Romeu Runa, Dirk Boelens) che, strappati a loro volta dalla finzione teatrale, lamentano le scelte del regista, di cui ora sentiamo la voce dalla cabina di regia.

Probabilmente estenuati da settimane di prove inconcludenti, entrano ed escono dai personaggi, non risparmiando commenti sprezzanti alle «idee di merda del Castellucci di Molenbeek». Provano a superare l’impasse creativo, propongono variazioni ai cliché che sentono di interpretare, performano con grandissima padronanza coreutica e recitativa estratti di personaggi nuovi che non vedranno mai la luce.

Perché niente sembra essere più pericoloso di un regista senza idee né fiducia nei suoi compagni, arroccato nella ricerca cieca di un gesto puro che non sarebbe nemmeno in grado di vedere arrivare. Ecco che la barca incagliata torna a parlarci diversamente, simbolo di una stasi creativa senza rimedio. Ma se l’artista non crea, finisce per smarrire la propria identità e non riconoscersi.

Lasciamo sempre di più il freddo gelido dei ghiacci antartici per ritrovarci a tu per tu con gli slanci e le fragilità di chi ha deciso di intraprendere questa sconsiderata professione dell’attore. Una denuncia? Un’indagine? La messa a nudo di un’esperienza di vita? Forse tutte e tre le cose. Certo, a chi frequenta il teatro capita di soffermarsi sulla natura dell’attore, ma chi ne conosce davvero le rinunce, i sacrifici, la stanchezza? I Peeping Tom, forse in maniera autoreferenziale, forse coraggiosamente, aprono gli occhi dello spettatore sull’altra metà del successo, del personalissimo successo di una delle compagnie più acclamate del nostro tempo.

In balia della stasi e dei tormenti degli artisti, finisce per arenarsi anche il pubblico. Ma all’immobilismo assordante, in un palco ormai deserto, non può che reagire lo straordinario vitalismo dell’eccesso. Rompe ogni indugio creativo il talento purissimo di Romeu Runa che, facendo uso unicamente di corpo nudo e voce, mette in scena il dramma dell’attore dilaniato tra il suo polo borghese e ammaestrato, e quello provocatorio e distruttivo. In un andirivieni tra i due estremi, che ricorda quello tra Smeagol e Gollum di Tolkien, Runa ricompone con il suo monologo tormentato uno spettacolo irrisolvibile: si agita, si scuote, si rattrappisce per poi dispiegare i muscoli magri da danzatore, scende in platea mimando non una rottura ma una sorta di ingresso nella quarta parete, come se fosse la dimensione altra rispetto alla sua da attore.

Qualcosa ci aspetta fuori da teatro, lo sa l’attore e lo sa il pubblico, e nel meno convenzionale dei modi, ad un certo punto l’opera semplicemente si conclude. C’è turbamento e ci sono risate in sala, c’è tanto teatro.

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