Sulla rappresentazione della violenza al Teatro Greco di Siracusa

Mar 20, 2025

Di Lorenzo De Benedictis
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Dagli orrori della guerra ai delitti di sangue tra familiari, passando per i crimini degli dèi e per le mani del fato, la tragedia greca ha esplorato i confini della violenza e della sua immagine in lungo e in largo, cercando di rintracciarne un senso o quantomeno dei modi per arginarla. Quali sono le sfide della rappresentazione della violenza e della sua ricezione nella cornice del Teatro Greco di Siracusa?
Ne parliamo con il regista, attore e direttore artistico della Fondazione TRG – Teatro Ragazzi e Giovani, Emiliano Bronzino.

Per parlare di rappresentazione della violenza nell’ambito della tragedia attica occorre partire da una considerazione ovvia ma centrale, cioè il fatto che nel teatro greco la violenza in termini di atto fisico violento non è mai messa in scena ma sempre raccontata, spesso tramite la figura del messaggero. Oltre che per ragioni di facilità di messa in scena, perché i poeti tragici hanno scelto sempre di raccontare la violenza per bocca di qualcuno e mai di mostrarla?  

Entriamo da subito in uno degli aspetti per cui ancora ci affascina la tragedia greca. Da una parte analizzando le tragedie che ci sono arrivate – che poi ovviamente non sono l’opera omnia perché moltissime sono andate a perse, anche se di molte altre sappiamo la trama – la violenza è spesso l’oggetto del racconto, che sia violenza divina, che sia violenza umana, che sia violenza tra umani, che sia la guerra: spesso è il centro del racconto dei poeti tragici. Dall’altra parte la ragione per cui la violenza non è messa in scena insiste su due aspetti: il primo aspetto è collegato alla sacralità della rappresentazione tragica e quindi in quanto tale ha dei limiti dettati proprio dal fatto che il sacrificio violento era un atto sacro e quindi il confine tra ciò che era vero e ciò che non lo era nella messa in scena tragica è abbastanza labile. C’erano quindi delle cose irrappresentabili, tra cui la violenza, proprio perché non è chiaro quale sarebbe potuto essere il confine nella percezione di quelli che erano presenti tra violenza vera e propria durante il rito e rappresentazione della stessa a teatro.

Questo strano rapporto tra essere l’oggetto centrale di molte delle narrazioni e dall’altra parte essere irrappresentabile sulla scena può essere così spiegato. Facendo un parallelismo con la nostra contemporaneità pensiamo al flusso di informazioni quotidiane, al bombardamento di contenuti e di come finiamo per percepire quelle immagini in modo banale. Pensiamo alle immagini che ci arrivano dalle zone di guerra, ad esempio, che è uno degli oggetti spesso raccontati all’interno della produzione tragica, e all’assuefazione che quel tipo di bombardamento mediatico produce. Quelle immagini che raccontano tragedie incomprensibili, immense, sembrano perdere statuto di realtà nella nostra percezione, cioè non ci suscitano più empatia diretta. I teatri di guerra che in questo momento vengono mostrati diventano quasi come una cosa oggettiva che dopo un po’ non suscita nessun tipo di emozione a livello soggettivo. 

Tenendo anche a mente che la società greca, che ha prodotto la tragedia classica, è una società profondamente violenta nelle sue manifestazioni e viveva uno stato di guerra praticamente continuo, fa però la scelta di raccontare quell’aspetto dell’esistenza senza mostrarlo perché probabilmente suscita maggiore impatto empatico da parte dello spettatore, proprio per quel meccanismo per cui irrompe un senso di irrealtà. Ad esempio, mostrare Penteo che viene dilaniato e ucciso dalla madre e dalle zie significherebbe farlo vedere con quel fondo di finzione inevitabile, perché noi sappiamo che l’attore in quel momento non è dilaniato e ucciso, e ciò probabilmente ci avrebbe allontanato empaticamente. Raccontarlo, invece, può suscitare maggiormente una nostra risposta emotiva.

A questo proposito dal punto di vista di un regista, che tipo di sfida rappresenta la distanza che c’è tra racconto della violenza ed esibizione della stessa in una società come la nostra che, oggi più che mai, è abituata ad un certo livello di assuefazione e spettacolarizzazione dell’immagine violenta?

Il vantaggio che abbiamo e che difenderei sempre è il fatto che in questo caso, come artisti, si possa evitare il giudizio rispetto a ciò che stiamo rappresentando, e in ciò è contenuta la possibilità di capire le ragioni di tutti i soggetti che mettiamo in scena. Nella vita tendenzialmente, e giustamente, ci schieriamo sempre di più in questi ultimi anni da una parte o dall’altra perché nel momento in cui siamo calati nella storia non possiamo evitare di prendere posizione. Da un punto di vista artistico invece possiamo permetterci la possibilità di fare un passo di lato e analizzare maggiormente quelle che sono le dinamiche simboliche sotterranee presenti negli avvenimenti, proprio perché i cicli continui della storia ci ripresentano continuamente situazioni non uguali ma simili.

Questa possibilità di distanza, che non è quella di colui che subisce la violenza e che quindi in qualche maniera deve reagire immediatamente, ci offre l’opportunità di intuire delle leggi sotterranee, più profonde. Credo che quello sia il grosso insegnamento della mitologia greca e della tragedia greca, che sospende il giudizio e mostra spesso e volentieri una strana doppia faccia. Pensiamo a un’altra grande saga, quella di Edipo, dei figli di Edipo, ai Sette contro Tebe e al tema dell’uccisione tra fratelli – che è in qualche maniera, per assurdo, molto vicino a quello che si sta vivendo adesso tra Palestina e Israele.

Nel caso di Eteocle e Polinice ci si chiede chi dei due fratelli abbia ragione, dove stia la ragione. Sicuramente ci sono dei torti e delle ragioni che vengono mischiate: chi è dei due il portatore della violenza? È evidente che la violenza viene portata da tutte e due le parti e nel mettere in scena storie che hanno 2500 anni sospendendo il giudizio su chi ha ragione, possiamo anche comprendere pezzi della nostra contemporaneità.  Anche nel caso delle Baccanti, la madre di Penteo è colpevole, sbrana il figlio, Penteo stesso è apparentemente colpevole essendo colui che denigra Dioniso; però Dioniso quando decide di far andare fuori di testa Penteo e di portarlo sul Citerone, in realtà lo sta sacrificando facendogli quasi un dono immenso secondo quell’universo di significati. Tutte queste doppie facce ci aiutano a capire che prendere una posizione senza mettere in discussione nessuno dei propri pensieri non è l’atteggiamento migliore. 

Naturalmente la nostra vita incontra inevitabilmente la violenza su diversi livelli. Credo che gli ultimi anni ci stiano facendo capire che ciò che abbiamo pensato vero, cioè di essere sostanzialmente una società fuori dal percorso della storia, e quindi di aver raggiunto un momento in cui la storia e di conseguenza i conflitti non facevano più parte della nostra contemporaneità, credo che questa illusione meravigliosa che abbiamo vissuto non sia più sostenibile. Abbiamo due guerre ai confini dell’Europa e quindi riflettere sul nostro essere dentro la storia è importante: significa, da cittadini, decidere da che parte della storia stare e da un punto di vista intellettuale-artistico invece cercare di afferrare le ragioni profonde alla base di un conflitto.

Nei Sette contro Tebe c’è un parallelismo, non diretto, ma comunque forte con la situazione che adesso si sta vivendo in Palestina e in Israele, nel senso che non si tratta di due storie completamente inavvicinabili dato che, anche se lo dimentichiamo spesso e volentieri, le tribù di Israele e i progenitori dei palestinesi a livello ancestrale sono in realtà fratelli, vivevano nella stessa terra. Nessuno giustamente fa valere queste ragioni perché sono passati quattromila anni però siamo ancora lì nello stesso conflitto di quattromila anni fa.

A proposito del prendere posizione davanti alla violenza, spostiamo il focus sulla ricezione a teatro della stessa. Quali difficoltà si incontrano, dal punto di vista del pubblico, in termini di comprensione del tipo di violenza portata in scena nella tragedia? Lo strumento del racconto, della costruzione di un immaginario riesce ad avere presa anche su un pubblico abituato a fruire il tema della violenza in tutt’altro modo? 

Per quella che è stata la mia esperienza, tra regia e assistenze, credo proprio di si, per tre ordini di ragioni. Il primo è che non si deve togliere valore alla chiave del racconto, cioè alla forza del racconto. Raccontare un atto a volte è più evocativo e coinvolge maggiormente lo spettatore che semplicemente presentarlo. La figura del messaggero ad esempio, ricorrente nella tragedia, è un ruolo che ha sempre un discreto successo nei cicli di rappresentazione perché quel monologo è un momento culminante a livello narrativo ed è coinvolgente, per cui nella nostra sensibilità la mediazione della parola ha ancora un ruolo cruciale. La seconda ragione è che determinate storie fanno parte della nostra cultura: citavo Antigone, anche solo il pronunciarne il nome richiama sempre qualcosa nell’orecchio anche dello spettatore più disattento, perché stiamo parlando di informazioni comuni della nostra società.

Naturalmente il livello di conoscenza è molto eterogeneo, ma anche se non si conoscono nel dettaglio le storie, questi nomi risuonano. Terza cosa, c’è comunque una spettacolarità implicita nell’essere in teatro greco che è al di là di qualsiasi cosa tu faccia in quel luogo. Quel luogo è di per sé un luogo di spettacolo. Succede sempre qualcosa: c’è il sole che tramonta, si percepisce la città lontana, va via il rumore della città, e lì qualcosa di teatrale avviene, a prescindere da quello che viene messo in scena. 

C’è dall’altra parte il fatto che in questi venti anni, ma anche da prima, c’è un continuo ammodernamento, un continuo mettersi in gioco rispetto a quelle che sono le tecniche di messa in scena all’interno del teatro greco di Siracusa, rimettere in gioco la sensibilità degli spettatori. Non è un luogo fermo nella sua modalità di messa in scena, è un luogo che evolve, ci sono artisti differenti che vengono, portano sensibilità differenti, tecniche, tecnologie differenti. 

Prima era stato sollevato il tema del sacrificio, argomento su cui una lunga tradizione di studiosi, da Walter Burkert a René Girard, si è confrontata. La violenza messa in scena nella tragedia è spesso descritta come sublimazione della violenza del rito sacrificale o dell’aggressività presente in qualunque gruppo associato umano, che nasconde un elemento di violenza latente che poi in qualche modo deve trovare un’espressione. Questo tipo di concezione dell’atto violento, dell’episodio violento come sublimazione di un percorso sociale quasi necessario, è un argomento che condiziona l’ideazione registica di uno spettacolo al teatro greco? 

Per essere più chiaro rispetto al discorso precedente, un motivo per cui originariamente gli atti violenti e i sacrifici non erano rappresentati è per il semplice fatto che episodi del genere erano ancora all’ordine del giorno. Ciò detto, sicuramente il capro è un qualche cosa che pervade ancora la nostra cultura pur essendo di difficile lettura da parte del pubblico: ne è un esempio quello che dicevo prima, cioè che a Penteo viene fatto un dono attraverso il sacrificio, viene cioè elevato dalla tragedia che vive, e ciò risulta di difficile comprensione perché sono diverse la nostra concezione dell’essere umano e la nostra idea di salvezza. Nella nostra cultura cristiana cattolica il sacrificio è quello di Gesù per salvare tutti e al tempo stesso porre fine alla necessità del sacrificio; quindi, anche in questo la cultura cristiana è molto distante da quella greca. Credo che quello che possa essere comprensibile dal pubblico è l’idea dell’incomprensibilità del destino, cioè che le vie della giustizia superiore sono troppe complesse per essere capite appieno da noi, e che sia quasi sempre difficile riuscire a cogliere i nessi tra punizione divina e merito. Questa percezione è ancora presente nel sentire comune e quindi pur essendo una semplificazione può essere una via utile da percorrere.

L’altro aspetto che ci manca è che il destino avverso si manifesti con atti violenti e che quell’atto violento ha in sé degli aspetti sacrali legati al sacrificio. Perché noi non colleghiamo più sacro, sacrificio e violenza e, benché nella cultura cristiana l’atto fondante sia un sacrificio violento, cioè l’uccisione attraverso una tortura di un uomo che allo stesso tempo è Dio, è come se l’avessimo un po’ allontanato da noi. Comprendiamo invece ancora molto bene le dinamiche familiari o tra donne e uomini, più affini a noi. Citavo Antigone, il sacrificio di Antigone è molto sentito, perché c’è un senso di giustizia superiore rispetto a un altro tipo di giustizia, che è qualcosa che noi ancora sentiamo in maniera molto forte.

C’è una curiosità morbosa dietro la scoperta di Edipo e della sua colpa. Benché Baccanti invece sia un testo immenso che suscita grandissima curiosità, ci è più complesso riuscire a capire le dinamiche della violenza e della sacralità. Medea, per assurdo, la sentiamo molto vicina, però stiamo parlando di una madre che ammazza i figli.  L’infanticidio è chiaro che non sia l’argomento di Medea. Sta sacrificando i suoi figli per toglierli alla violenza del padre nei suoi confronti e nei confronti dei figli, sono livelli molto più complessi. 

In questo senso diventa anche una sfida capire qual è il panorama culturale del pubblico in termini di possibilità di ricezione, perché ci sono degli argomenti che ancora sentiamo e facciamo meno fatica a vivere, a comprendere rispetto ad altri. È necessario sempre costruire gli spettacoli con più livelli di comprensione. È chiaro che ci sono dei livelli più complessi che richiedono conoscenze maggiori per essere capiti appieno.

Esistono anche dei livelli che sono incomprensibili anche a chi li mette in scena. Sono oltre le cose che entrano nella zona dell’incomprensibile. Però costruire su più livelli e quindi poter dare più linee di interpretazione contemporaneamente al pubblico ti permette di arrivare a un maggior pubblico. È chiaro che uno studioso della tragedia greca ha degli strumenti di comprensione diversi rispetto alla persona che per la prima volta va a teatro. Ma la forza di quel luogo e di quelle parole è anche questa, riuscire ad arrivare su più livelli.

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