L’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” in sinergia con il Romaeuropa Festival ha istituito il premio «Silvio d’Amico alla regia», giunto quest’anno alla sua seconda edizione. Ad aggiudicarsi il premio, lo spettacolo Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle, in scena presso gli spazi del Mattatoio dal 31 ottobre al 03 novembre. Per l’occasione abbiamo intervistato Marco Corsucci (autore, regista) e Matilde Bernardi (autrice, performer).
Lo spettacolo prende le mosse dall’omonimo romanzo di Frank Wedekind, pubblicato nel 1903. Nel romanzo, all’interno di una struttura senza legami con il mondo esterno, vengono cresciute delle bambine cui sono impartiti insegnamenti che hanno a che fare unicamente con l’uso fisico del corpo. In questo senso il vostro lavoro si presenta come un’indagine del processo di formazione di un corpo. Da un punto di vista scenico, come avete affrontato questo processo?
Marco Corsucci: Il lavoro scenico nasce da un’intuizione di Matilde di fare del suo corpo l’oggetto di indagine. I primi dieci minuti a cui sto per fare riferimento, che risalgono a quando abbiamo portato il lavoro alla Biennale College del 2022, sono stati un po’ i germi da cui è nato tutto. L’intuizione di Matilde consisteva appunto nel rendere il proprio corpo l’oggetto di indagine attraverso la cornice di una visita guidata. Di questa idea di visita guidata, che abbiamo in parte tradito, rimane oggi la dimensione anzitutto espositiva: abbiamo lavorato quindi sulla sovraesposizione di questa figura e di questo corpo. Il lavoro attualmente si divide in tre parti: la prima consiste in una una sintesi vocale che parla agli spettatori e percorre assieme a noi le tappe fondamentali di crescita di quella che, da un lato rimane la protagonista del romanzo, Helena Engel detta “Hidalla”, e dall’altro è Matilde. Abbiamo quindi cercato di indagare quelli che erano i punti di contatto tra la crescita di quel corpo, l’educazione di quella donna e l’educazione del corpo di Matilde. Questa sintesi ci conduce attraverso le tappe di questo percorso di crescita, tappe che in qualche modo sono segnate da tutti i momenti in cui quel corpo è stato guardato e in un certo senso è stato plasmato dallo sguardo. Abbiamo cercato di creare dei punti di frizione tra chi guarda e chi viene guardato in una narrazione che segue lo stesso percorso di crescita della protagonista del romanzo, cioè che va dai primi anni di infanzia alla prima adolescenza. Volevamo raccontare come la storia di un corpo abbia a che fare con tutti coloro che lo hanno guardato.
Di fatto portate in scena quella che è una necessità insita all’etimologia stessa della parola “teatro”, cioè, l’atto del guardare. In questo senso il processo di formazione è, sia nel romanzo che nella vita reale, un processo mai individuale ma sempre comunitario, pubblico. In questo contesto, che ruolo assume la dimensione dell’altro e quali tipologie di rapporti si instaurano tra l’identità del singolo e lo sguardo altrui?
Matilde Bernardi: La questione che Marco ha portato in evidenza e che tu sottolinei è ciò che ci ha spinto a voler lavorare sul romanzo Mine-Haha. Narrativamente e stilisticamente è molto particolare il modo di procedere del testo perché si articola per immagini e impressioni della protagonista e quindi prevalentemente attraverso descrizioni. Descrizioni dei corpi delle altre compagne, dei corpi delle insegnanti, di ciò che accade dentro di lei nell’intuire il tipo di violenza a cui è sottoposta da un lato, in senso metaletterario, nell’essere costantemente sotto la lente del lettore, e dall’altro, in senso interno al testo, del sistema che finanzia la struttura in cui cresce.
Questo strettissimo legame tra sguardo e formazione di un’identità è ciò che ci ha mosso verso il testo e di questo connubio accettiamo il mistero. Tutto è educazione durante il processo di crescita, in particolar modo per quanto concerne un corpo femminile o un corpo che si identifica come tale, e quindi la comunità e lo sguardo di una comunità (in quanto sistema di individui) è tutto ciò che definisce la formazione di un’identità. Nel caso del processo di formazione del femminile, la questione dello sguardo esterno si inserisce nella percezione che si ha del proprio corpo che di fatto modifica fino a plasmarlo. L’obiettivo è che il dispositivo teatrale, in un rapporto di uno sguardo (la performer) contro cento (il pubblico), riesca a parlare di come ogni sguardo di quei cento finisca per determinare quello che poi va ad accadere a quel corpo, alla crescita di quel corpo.
Roberto Calasso, in riferimento al corpo delle protagoniste del racconto, parla di un principio di sostituibilità, di intercambiabilità dei corpi. Nel romanzo queste bambine sono cresciute all’interno della struttura ma, arrivata all’età della pubertà, la più adulta del gruppo viene allontanata e al suo posto subentra una nuova presenza in età infantile. C’è quindi un principio di somma delle parti che prevale sul singolo. Avete trovato delle similarità tra questo modello estremo e il processo di formazione di un corpo nella vita reale?
M.B: Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo materiale non ero da sola ma con me c’erano anche Chiara Ferrara e Carolina Ellero. Marco ci ha chiesto di portare una restituzione scenica che raccontasse cosa avevamo provato leggendo quel romanzo. Di fatto ciò che poi abbiamo portato era profondamente diverso, sia esteticamente che come gusto, ma c’era qualcosa che ritornava sempre relativamente a come il nostro corpo si è adattato nel tempo all’impressione che l’esterno ha lasciato su di esso. Questa costante, enfatizzata nei corpi femminili o che si identificano come tali, è ciò che ha sorpreso anche me nella lettura del testo. Lo dico sorridendo perché il testo è datato in un certo senso, è scritto da un uomo all’inizio del Novecento, eppure ci sono dei frammenti che, alla seconda o terza lettura, mi hanno profondamente impressionato, perché ho pensato che li avrei potuto scrivere io rispetto a piccoli momenti che hanno segnato la mia crescita. In questo divario temporale, la lettura marxista che ne fa Calasso – dal punto di vista della mercificazione e reificazione dei corpi delle protagoniste – forse si è addirittura radicata.
M.C: A tal proposito aggiungo che nel testo le bambine sono letteralmente state educate e cresciute ad essere una, un blocco unico, e in un passaggio la protagonista Hidalla afferma di distinguere le compagne solamente per le differenze fisiche: di ognuna ricorda solamente come camminava, di nessuno invece ricorda ad esempio come parlava o che voce avesse. In questo caso forse più che partire da un corpo per raccontarne cento, attraverso il prisma di una difformità (il corpo di Matilde) abbiamo finito per notare tante equivalenze. E questo è molto interessante, cioè il fatto che non pretendiamo di raccontare attraverso un’esperienza tutte le altre esperienze ma, attraverso un’esperienza, proviamo a far vedere che ci sono queste famose costanti di cui parlava prima Matilde.
Nel romanzo, nel momento in cui le bambine negli anni della pubertà escono da questa bolla, da questa dimensione chiusa della struttura, si interrompe la narrazione. Nello spettacolo affrontate la questione del dopo o mantenete l’intenzione del romanzo di lasciare sfumato ciò che avviene a queste ragazze fuori dalla struttura?
M.C: Nello spettacolo anzitutto c’è una cornice che tiene il testo del romanzo molto presente in scena, nel senso che noi iniziamo con alcune battute del prologo, così come anche alla fine chiudiamo con la stessa postilla con cui si chiude il testo. Per cui abbiamo accettato il mistero di questa chiusura-non chiusura. In qualche modo anche il procedere del lavoro segue l’andamento del testo, nel senso che anche noi ci siamo costruiti un nostro parco, c’è poi una zona che corrisponde al teatro così come viene descritto nel testo. A questo proposito, piccola parentesi, proprio lo spazio del teatro è stato anche un po’ il nostro punto di partenza rispetto allo sguardo. Le fanciulle nel teatro possono essere viste ma non possono vedere a loro volta, per cui anche nel percorso dello spettacolo, abbiamo un ribaltamento di questa visione perché avremo invece un corpo nudo e un volto completamente coperto – chiusa parentesi.
Tornando alla domanda, non abbiamo voluto neanche immaginare come proseguire, ciò che per noi prosegue al di fuori del testo è Matilde. Lo spettacolo ha una sorta di struttura circolare perché, nella parte finale dello spettacolo, c’è una sintesi vocale che riprende un segmento iniziale in cui è Hidalla il personaggio che vediamo in scena. Il suo personaggio compie un percorso che termina con un nuovo “benvenute e benvenuti” (lo stesso che sentiamo all’inizio dello spettacolo), ma stavolta il personaggio in scena è Matilde stessa. Quindi in un certo senso il dopo a cui facevi riferimento per noi corrisponde con il punto di partenza: abbiamo usato Hidalla per vedere Matilde e Matilde per vedere Hidalla.
M.B: Aggiungo solo che Wedekind compie un atto di cattiveria nei confronti della sua protagonista perché ci abbandona proprio nel momento in cui lei esce dalla struttura, ma nella prefazione ci fa intuire che questa donna ha avuto una vita straordinaria rispetto a ciò che le è accaduto nel corso della narrazione. Di fatto Wedekind ci fa vedere soltanto il risultato di quel corpo che si sottoponeva agli sguardi. Ma nella prefazione ci dice che ad un certo punto della sua vita fugge con un architetto, che le muoiono due figli, che cavalca in Brasile e che quello è stato il momento di maggior felicità: ecco in realtà questo fuori che hai intuito è un grande motore rispetto all’azione in scena. Di fronte a tutto quel congelamento dato dal ruolo di questo sguardo, c’è qualcosa che però pulsa costantemente e che sfuggirà sempre. Quella piccola fiamma, secondo me, rimane quel fuori, quel dopo che Wedekind non ci regala ma che contraddistingue comunque quel corpo.

Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.