È sotto la superficie dell’acqua, tra «lunghi corridoi sottomarini», alghe e scogli, che si viene catapultati leggendo l’indimenticabile incipit di Ferito a morte, chiamati a inseguire quella «spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro» che per il protagonista Massimo diventerà l’immagine – la «Scena» eternamente rivissuta – de «La Grande Occasione Mancata».
Ed è alla medesima immersione che lo spettacolo di Roberto Andò – tratto dal romanzo che nel 1961 valse a La Capria il Premio Strega, adattato per la scena da Emanuele Trevi – invita il pubblico: attraverso un gioco di velari e videoproiezioni, il sogno di Massimo si dissolve gradualmente, per fare emergere dall’azzurro dei fondali marini i contorni di lampade e poltrone, delle stanze domestiche frequentate durante la giovinezza.
Condensandosi in immagini vivide sul palcoscenico, il dormiveglia del protagonista ormai adulto (Andrea Renzi) – che siede su un letto disposto in platea, in mezzo a pagine disordinate di libri – rievoca «il legame indissolubile fra il mare e l’amore», intuito durante le proprie estati di ragazzo, a contatto con il «lusso del mondo naturale», in «una città povera in mezzo alla bellezza», secondo le parole dello stesso La Capria. Quella Napoli in cui il fenomeno del “bradisismo”, le acque, il vento e la salsedine lentamente erodono le costruzioni umane – come il monumentale Palazzo Medina – Donn’Anna in cui La Capria viveva, la cui fotografia, totalmente inabissata, campeggia sulla scena al termine dello spettacolo –, a dimostrazione di un’unica e incontrovertibile verità, ovvero che la Natura è destinata a vincere sulla Storia.
Nella pièce di Andò è allora l’elemento liquido a inglobare l’intera narrazione nella dimensione della memoria: un grande specchio inclinato riverbera la figura fantasmatica dei personaggi che di volta in volta si alternano sulla balconata allestita sul palcoscenico, e a lambire i loro riflessi sfocati e capovolti, è la proiezione di una risacca perpetua. Sulla battigia dei ricordi immaginata dal regista si dispiega quindi l’intera polifonia di voci e accenti che rendono Ferito a morte un «romanzo musicale»: sulla terrazza fluttuano i profili di Carla Bousier (Laure Valentinelli) – il sentimento per la quale rimarrà per sempre ancorato all’incompiutezza di un incontro – e delle ragazze straniere con le quali ballare e fare l’amore sugli scogli, ondeggiano gli amici chiassosi del Circolo, e ancora lo scanzonato fratello Ninì (Giovanni Ludeno), e l’imperscrutabile e quasi “leggendario” Sasà (Paolo Mazzarelli).
Il tempo della nostalgia nel romanzo di La Capria è il tempo della bella giornata, dell’estate luminosa: è un tempo eternamente uguale a se stesso, immobile, senza progresso. In questo senso, il puzzle di tavoli cosparsi sulla scena – il cui assetto rimane immutato nonostante il continuo cambiare di postazione dei protagonisti –, ben rappresenta il sentimento di una domenica infinita, in cui i pranzi si prolungano con gioia e divertimento, tra il chiacchiericcio, gli scherzi, le piccole manie di parenti e conoscenti. È proprio nel pieno di questa scena corale che viene ribadito da ognuno degli astanti –dall’infervorato Gaetano (Paolo Cresta), così come dall’esile nonna (Aurora Quattrocchi) e dalla madre apprensiva (Gea Martire) – che quella in cui vivono «è una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme». Ed è così che anche il giovane Massimo (Sabatino Trombetta) decide di andarsene, di abbandonare «quel mare felice Eldorado popoloso di pesci», per raggiungere Roma: un luogo a sole due ore di distanza, eppure già regolato dal tempo «dell’orologio e dalla busta paga».
«Che cosa ancora ti trattiene? E potevo dirgli la cosa tanto assurda? – afferma il protagonista – Potevo dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto». Il Massimo adulto tenta allora più volte di fare irruzione sul palcoscenico, che si configura come materializzazione della propria memoria, scontrandosi con la realizzazione che il tempo al quale cerca di ricongiungersi non è soltanto un tempo immodificabile dalla volontà e dal desiderio, ma è soprattutto un tempo perduto.
Nello spettacolo di Andò il personaggio di Massimo è dunque concepito come doppio, incarnato da due differenti interpreti: distaccandosi da Napoli, invecchia e ricorda, rimpiange ciò a cui ha rinunciato, accarezza la ferita e la contraddizione legate a ciò che era necessario lasciare.
È soltanto nel finale che il tempo scenico si allinea a quello della veglia di Massimo adulto, e che può dunque dischiudersi lo spazio del ritorno. L’incontro con Sasà che, non a caso, si presenta dopo anni con sembianze identiche (interpretato dal solo Paolo Mazzarelli), ne rivela per la prima volta le sottili fragilità: eppure, è proprio attraverso le crepe del suo personaggio che l’incanto della giovinezza può continuare a esercitare il suo richiamo. Agganciato dal luogo mitico del proprio passato e della propria memoria, il protagonista ripercorre allora le strade a lui care, e «cerca lei, cerca Ninì…e gli pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sente ancora, vicini, i passi sopra queste pietre».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.