Nella cornice del Teatro Storchi di Modena va in scena Fedra di Jean Racine per la regia di Federico Tiezzi, con Martino D’Amico, Valentina Elia, Marina Occhionero, Elena Ghiaurov, Alberto Boubakar Malanchino, Bruna Rossi e Massimo Verdastro. Lo spettacolo ripropone fedelmente il testo in versi composto nel 1677 dal drammaturgo francese, nella traduzione di Giovanni Raboni.
Dopo le esperienze al Teatro Greco di Siracusa, con il dramma di Fedra, Federico Tiezzi torna a confrontarsi con la tragedia antica.
Ma la scelta stessa di misurarsi con il testo di Racine e non con l’originale euripideo, sottolinea l’esigenza di un distacco dal modello classico in favore di una reinterpretazione dell’opera in chiave ibseniana, quasi si trattasse del dramma borghese di Fedra.
La reggia di Trezene si copre così di un marmo nero e lucido, illuminato da sottili barre di led e da due imponenti lampadari a gocce di cristallo; sedie dalle gambe irregolari rendono scomoda la postura degli attori in scena.

Tra i costumi seicenteschi dei protagonisti, si alternano sullo sfondo Atalanta e Ippomene di Guido Reni, la statua di un lupo e un bonsai contenuto in una teca di vetro – elementi che confondono più che incuriosire, richiamando alla mente la massima di Mies van der Rohe “Less is more”.
Il lavoro di Tiezzi prende le mosse dal linguaggio: la scelta di affidarsi alla traduzione di un poeta del secondo Novecento come Raboni, d’altronde, non è casuale. Il linguaggio, e nello specifico la musicalità del verso di Racine, rappresentano la sfida con cui questa traduzione intende misurarsi, una sfida tutt’altro che banale data la difficoltà di restituire in un italiano efficace per il palcoscenico, la ricchezza di suoni e immagini dell’originale francese.
Il peso della lingua, in questo modo non può che ricadere sulle spalle degli attori; a questo proposito Elena Ghiaurov (Fedra) confessa il rischio, davanti alla musica del verso di Racine, di non riuscire a stare “dentro la battuta”, di lasciarla scivolare affidandosi alla bellezza del suono senza riuscire a mettere in scena l’intenzione del personaggio – rischio che, seppur con risultati eterogenei, risulta di certo concreto all’orecchio del pubblico.
La versione seicentesca del mito di Fedra non si limita però ad una questione di stile, in Racine trama e profilo dei personaggi vanno incontro ad una vera e propria riscrittura. Ciò che di straordinario porta con sé l’opera di Racine è la scelta, unica per un autore del Seicento, di porre al centro del dramma il desiderio femminile, in un equilibrio dinamico tra manifestazioni esplicite e sentieri dell’inconscio.
In scena il pubblico assiste ad una passione amorosa che divora sé stessa, una passione profondamente carnale di cui anche lo stesso Ippolito (Alberto Boubakar Malanchino) si fa qui portatore attivo. Nella Prefazione alla sua opera, il drammaturgo francese dichiara infatti di voler intervenire principalmente su due aspetti del dramma euripideo: rendere Fedra «meno odiosa» al pubblico e Ippolito dissimile da «un filosofo scevro d’ogni imperfezione».
Se dunque in Euripide è la stessa Fedra ad accusare Ippolito di stupro (tramite la lettera scritta poco prima di togliersi la vita), Racine rinuncia ad affidare ad una donna nobile, vittima dei capricci di Afrodite, un gesto così vile. Sarà infatti Enone (Bruna Rossi), vecchia nutrice di Fedra, ad incolpare Ippolito di una violenza solo tentata e mai compiuta. Dal canto suo, lo stesso Ippolito vede incrinato lo specchio della sua rinomata castità: l’amore per Aricia (Marina Occhionero) – figlia di Pallante, zio e contendente al trono di Atene di Teseo (Martino D’Amico) – rende il giovane principe difforme da quell’asceta senza macchia descritto da Euripide.
Rimodellando la materia scenica in questo modo, Racine ottiene un significativo stravolgimento nel modo in cui il pubblico segue i movimenti dei due protagonisti, ottenendo un maggiore coinvolgimento empatico nei confronti di entrambi.
Fedra, sebbene in balia del volere di Afrodite, tenta di opporsi con l’onore che le è proprio alla passione d’amore che la devasta; il suo personaggio pensa, si confronta con la nutrice, soffre in scena cercando disperatamente di discernere tra ciò che è giusto e ciò che è in suo potere fare; tocca allo spettatore assolverla, o condannarla.

Da un punto di vista psicanalitico, Fedra nel corso del dramma è scissa tra desiderio e legge, tra quel desiderio senza freni rappresentato dalla madre Pasifae (infiammata dalla volontà di unirsi al toro bianco, unione da cui nascerà il Minotauro) e dalla legge di Minosse (come in Dante, sovrano della misura e del giusto).
Tuttavia anche nei confronti di Ippolito il pubblico ha maggiore riguardo, per il semplice fatto di non rappresentare un personaggio fuori dal tempo e dalla tragedia: in lui eros si agita e gioca le carte del suo destino, al pari di tutti gli altri mortali; vive e conosce il dubbio d’amore, teme e bestemmia il padre, tentenna persino davanti al mostro che, togliendogli la vita, porrà un limite alle sue imprese.
Più di Ippolito, è però Teramene (Massimo Verdastro), suo mentore e più sincero amico, a restituire l’umanità del principe di Trezene. Nel monologo che ne racconta la tragica morte, Teseo, insieme al pubblico, assiste ad un vero e proprio canto funebre. Teramene, più simile ad un aedo omerico che ai messaggeri della tragedia, esibisce senza alcuna urgenza la sua sofferenza, la lacerazione della perdita.
Lo accompagnano una misura e una delicatezza rara, massimamente raccolte nel pudore del verso «perdonate, vi prego, il mio dolore». Si compie così, nella sympátheia (il “soffrire insieme”) tra il padre Teseo, l’amico Teramene e lo spettatore, la catarsi paideutica che Racine voleva a guida di quella che definiva la «migliore delle mie tragedie».

Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.