Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III. Intervista a Gabriel Calderòn

Apr 1, 2025

Debutta al Piccolo Teatro di Milano Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, il nuovo spettacolo del regista uruguaiano di fama internazionale Gabriel Calderòn con Francesco Montanari, attore unico di un monologo potente. L’ambizione di Riccardo per il trono d’Inghilterra si mescola fino a fondersi del tutto con quella di un attore di mezza età cui si spalanca per la prima volta l’opportunità di un ruolo da protagonista. Calderòn e Montanari danno luogo ad un’indagine senza spazi di riflessione sulla natura umana posta a tu per tu con l’occasione di una vita, ne abbiamo parlato con il regista.

Nel titolo dello spettacolo dai le prime informazioni allo spettatore, si tratterà della storia di un cinghiale. Perché il riferimento a questo animale? Cosa rappresenta nella tua drammaturgia?

Il simbolo del cinghiale torna nel dramma di Riccardo III perché in primo luogo richiama lo stemma della famiglia York. Per di più si tratta di un cinghiale bianco, che è una singolarità in natura, e mi colpiva come mi potrebbe colpire un cigno nero. Ma se il cigno nero è qualcosa di non particolarmente raro in natura, non capita invece di incontrare un cinghiale bianco, anche se perfettamente naturale. Cosa intendo dire? Che è qualcosa di raro, ma di insito in ognuno di noi, qualcosa che cerchiamo di contenere, proprio come l’ambizione di Riccardo. Questa era l’immagine iniziale: l’ambizione di Riccardo, la deformità di Riccardo, non erano qualcosa di raro, ma tutto il contrario, erano comuni.

Il cinghiale non è un animale strano, o particolarmente interessante, né tantomeno gradevole da vedere, se ne possiedo uno non vado certo ad esibirlo. Allora mi sembrava che lì ci fosse l’anima dello spettacolo: una cosa rara ma naturale e che non siamo orgogliosi di avere. Il Riccardo su cui io volevo lavorare poteva essere quel tipo di attore, un attore che tutti sappiamo esistere, però che raramente si vede nelle foto, con cui non ci congratuliamo, di cui non parliamo. Inoltre, al di là di questo, il cinghiale è un animale selvaggio, brutale, disgustoso, forte, è anche molto pericoloso e le metafore animali sono sempre molto presenti in Shakespeare.

Il tuo Riccardo, che è interpretato da un attore con caratteristiche fisiche molto lontane da quelle del personaggio di Shakespeare, sembra avere un aspetto molto più umano, perché hai scelto di fare questa inversione e qual era l’obiettivo?

L’intenzione era inizialmente quella di allontanarci un po’ dai preconcetti, ossia, quando uno va a vedere Riccardo III si aspetta una deformità, si aspetta un cattivo, e diciamo, per me questo era già presente perché, se è nella mente dello spettatore, noi non abbiamo bisogno né di confermarlo, né di sottolinearlo. La cosa interessante è iniziare a lavorare sull’idea preconcetta dello spettatore con alcune altre immagini, con qualche altra possibilità; in questo caso l’idea di avere un attore molto più, tra virgolette, normale, più vicino a noi, in cui deformità e cattiveria vengono da ciò che pensa, non dalla figura. In Shakespeare anche questo è molto comune, il deforme è una metafora, sebbene Riccardo lo fosse, però la deformità è una metafora del dramma, non una deformità reale. Si rappresenta sempre un Riccardo deforme, infastidito, arrabbiato, però forse in questi tempi di politicamente corretto, uno dovrebbe iniziare ad avere molta più empatia con quel Riccardo, no? Con quella persona con scoliosi, dall’aspetto sgradevole, che tutti allontanano, non scelgono. Allora, sarebbe interessante una versione di Riccardo dove lui è la vittima e non il carnefice. E questo è ciò che abbiamo provato a mettere in scena. Di per sé non c’è niente di originale, ma l’originalità viene dalla lettura di un’epoca. E nella lettura che propongo si tratta più di normalizzare o naturalizzare la deformità di Riccardo, la sua cattiveria, e cercare di trovarla in un territorio che conosco molto bene, o che conosco molto più del territorio dei re, cioè il territorio degli attori e del teatro.

Nel tuo spettacolo la drammaturgia ha un andamento molto denso, rapido, senza esitazioni. Che funzione ha la parola in un monologo con un ritmo così serrato?

La prima ragione è molto semplice, ed è perché a me piace così. Cercando di capire perché mi piacesse, mi sono risposto che credo che nella velocità si comprendano le cose in modo diverso che nella lentezza. Non c’è una cosa peggiore dell’altra, non è meglio andare più veloce, sì tratta di capire cosa ti piace della velocità. Per esempio, quando l’attore sta creando il suo personaggio ha bisogno di andare lento per comprendere via via. Invece io dico sempre, no, andiamo veloce e prendi quello che puoi. Non importa prendere tutto, importa quello che tu riesci ad afferrare. Se io ti dico, esci veloce da casa tua, fai in fretta e prendi quello che puoi, dopo quando saremo lontani da casa possiamo metterci a pensare perché hai preso quelle due o tre cose, e questo dice qualcosa di te.

Dopo c’è un’altra cosa, il ruolo della parola, cioè in questo caso non lasciarle tempo per spiegarsi da sola. Se io chiedo di dire “ti odio”, un attore generalmente cerca di motivare quell’odio. E se io vado a dire, dopo il “ti odio”, “ti amo”, l’attore deve fare un grande lavoro perché deve sostenere prima un odio e dopo un amore. Allora, il lavoro dell’attore diventa molto faticoso perché deve capire logicamente perché pronuncia quelle parole. Ma quando il lavoro è in velocità non c’è tempo e così non serve sistemare il corpo, impostare una reazione prima. In un certo senso, questo succede anche allo spettatore. E a questa velocità la parola diventa fondatrice del dramma e non conseguenza del dramma. Allora, la parola diventa promotrice di azione.

In un certo senso lo spettatore sta ricevendo e ricevendo, ad un tratto finisce lo spettacolo, deve uscire e dice, beh, adesso devo andare a lavorare con tutto questo perché non mi hanno lasciato tempo per decidere. Questo tipo di spettacolo è quello che a me piace fare. A me piacciono gli spettacoli che mi sfidano nella capacità di immagazzinamento che ho nel mio occhio, nel mio cervello e nel mio cuore. Regista, attori, datemi qualcosa, io dopo decido, non dirmi come gestire questo, come deve cadere questo, quanto è importante questo. Lasciami uno spazio in cui io faccio il lavoro. Quando si allestisce uno spettacolo con questa intensità e a questa velocità è fastidioso molte volte per lo spettatore. Lo spettatore vorrebbe andare un pochino più lento, godersela, però beh, per quello c’è la vita. Per quello il tempo è di tutti, e per tutti diverso: ognuno lo decide.

C’è una frase di Heiner Müller in Tutti gli errori in cui si dice che bisogna caricare sullo spettatore la maggiore quantità di informazione possibile. Che sia lui a decidere cosa si porterà via e cosa lascerà. È un modo di dare potere alla parola. Se la parola è lì, come proiettile, allora posso usarla per affondare, ossia, per promuovere azione e non per confermarla.

C’è poi un’ulteriore ragione che ho notato osservando i miei figli. Molte volte io arrivo a casa e dico ai miei figli cosa stanno facendo, e loro spesso mi rispondono niente. E io li vedo che stanno disegnando con la tv accesa mentre guardano un tablet lì accanto. Allora, loro mi dicono niente, però stanno facendo tre o quattro cose alla volta. Questo lo vedo tutti i giorni con i miei figli ma succede in tutto il mondo. Tutto il mondo dice, sono annoiato e nel frattempo sono al cellulare a parlare con amici che sono in un altro paese mentre sto comprando un mobile online. Ossia, io credo che il cervello, l’occhio e l’attenzione si siano allenati a ritmi elevati e molte informazioni. Però a volte a teatro è come se entrassimo in un tempio in cui ci diciamo, no, adesso tranquilli, ritorniamo alla lentezza. E io credo che il tempo e la lentezza del processo siano una delle possibilità del teatro, ma non l’unica, e io devo giustificare un’altra velocità, cioè un’altra possibilità a teatro. Ed è un modo per caricare informazioni sul pubblico. Quando questo spettacolo finisce io sento che gli spettatori hanno bisogno di tempo, hanno bisogno del bar. Io poi chiaramente amo il teatro, mi piace moltissimo e mi piace andarci, però chiedo sempre quanto dura l’opera, e se dura più di un’ora e mezza, c’è qualcosa dentro di me che muore. Ora, a me piace il teatro, ma perché voglio starci poco? Mentre io risolvo questo dilemma, so che questo mio cervello è uno dei cervelli dello spettatore. Allora parlare velocemente è anche un modo di arrivare ad uno spettatore come me prima che vada via, prima che perda l’attenzione.

Riccardo III, come molte delle opere di Shakespeare, presenta decine di personaggi, laddove tu hai scelto di mettere in scena un solo attore. Quali sono le sfide di una riduzione così drastica?

Ogni volta che appare qualcosa che non è possibile fare, allora è interessante per il teatro. Se no è semplicemente una ricetta, mi annoia, è già fatto, che lo faccia chiunque. Allora, ogni volta che appare uno spazio di impossibilità, il teatro ha una possibilità. Ha una possibilità di fare teatro, non di essere una buona traduzione. Questo è il primo termine. Il secondo termine, il bello di lavorare con i classici, è che ci sono molte informazioni che sono già nella testa della gente. E se non sono nella testa della gente, è un lavoro, è un debito che loro portano. Venire a vedere un adattamento di un’opera di Shakespeare e non sapere niente, beh, significa che hai grandi possibilità di uscire confuso. L’altra cosa è avere molto da fare, è una buona possibilità per non fare. Sembra una libertà. Se tu hai una cosa da fare, devi farla. Ora, se ne hai 27, beh, andiamo a vedere cosa puoi fare. E questo è l’interessante di essere un attore: farai 39 personaggi, e poi si vedrà, va bene? Allora diciamo che per me vale la regola, quanto più impossibile è l’impresa, quanto più impossibile è il progetto, più possibilità c’è di successo a teatro. Questo sembra un controsenso, però l’obiettivo del teatro non è tradurre, non è spiegare. Il teatro deve, diciamo, teatrare, deve fare teatro.

E allora, fare teatro ha molto più a che vedere con l’impossibilità. Noi non andiamo a teatro a vedere Amleto. Non esiste Amleto. Quello che vogliamo vedere è un attore che ci prova, e vogliamo vedere se gli riesce bene o gli riesce male. E se gli riesce male, cosa molto probabile, abbiamo cose da commentare dopo al bar. Se gli riesce bene, usciamo tutti come sorpresi, non riusciamo a crederci. Questo perché sappiamo che il buon teatro è molto difficile. L’usuale è cattivo teatro. E beh, allora questa è un po’ la ragione che mi motiva a dire che un attore che fa tutti i personaggi è un’impresa impossibile. E allora dai, andiamo a fare questa battaglia, nello stile di Riccardo III. Nel teatro, per me, è molto più importante il tentativo di fare qualcosa che il successo di farlo. E la gente viene a vedere quel tentativo.

Ora, Lagarce ha scritto un’opera che si chiama Le regole del saper vivere nella società moderna. È un monologo prezioso in cui una dama dell’alta società dà le regole per saper vivere da quando si nasce a quando si muore. È impossibile. Dice come nascere, come fare i primi passi, come innamorarsi, come sposarsi. Tutto è regolato. La vita non è così. Però è interessante per il tentativo di Lagarce di regolare tutto: è meraviglioso. Non appena ci si pone un obiettivo così grande, l’impresa diventa interessante, difficile, magari anche fastidiosa. Ma c’è abbastanza soddisfazione pronta all’uso targata Netflix per poter essere anche fastidiosi. Il teatro ha altre emozioni che non hanno a che vedere con la soddisfazione.

A proposito della funzione del teatro, qual è lo stato attuale del teatro in Uruguay? Quali sono le differenze principali che hai notato lavorando in Italia con una realtà come il Piccolo Teatro di Milano?

In Uruguay ci sono molti teatri e siamo un paese con una grande tradizione teatrale, di teatro indipendente. Lo Stato non sovvenziona alla maniera europea. Non ci sono teatri pubblici che producono teatro, bensì programmano gruppi indipendenti e non li pagano. Vivere di teatro è qualcosa che in Uruguay non si può fare, salvo qualche eccezione. Tutti gli artisti che io amo, ammiro, i miei maestri che hanno dedicato la loro vita al teatro, fanno altri lavori, in banca, danno lezioni, in una scuola. Così è come si fa teatro in Uruguay, le prove sono alle 20:00/21:00 perché è quando tutti escono dal lavoro e possono incontrarsi. Questo fa sì che il teatro sia una cosa molto passionale, molto seria. Questo dà molti svantaggi, ma anche alcuni vantaggi. Il primo è che nessuno fa teatro per denaro. Ma questo è anche un grande limite perché in questo modo il teatro diventa qualcosa di molto duro, perché se lavori tutto il giorno, alle 20:00 ti piacerebbe andare dalla tua famiglia, o dal fidanzato, dagli amici. Invece noi andiamo in una sala teatrale e proviamo fino a mezzanotte. Allora il teatro inizia a diventare una cosa per cui se non sei molto convinto, lo abbandoni, perché non ha senso, nessuno ti paga e in più ti toglie le migliori ore del giorno. Quindi posso dire che in Uruguay, come si Argentina e in Cile, si incontrano realtà teatrali piccole, di grande qualità, però non sovvenzionato, né sostenuto, né economicamente redditizio.

L’Uruguay ha attrici e di attori di grande talento, e dato che il sistema è indipendente, un attore medio in Uruguay arriva ai trenta o quaranta anni avendo recitato in venti, trenta spettacoli professionali con pubblico. E questo ti dà una muscolatura molto forte, un attore, un’attrice che ha venti spettacoli professionali alle spalle all’età quarant’anni, si sente, si vede nell’allenamento. La mia situazione è di un certo privilegio, perché io sono riuscito a lavorare fuori. Però a parte questo, l’Uruguay è un paese stabile, è un paese politicamente tranquillo, non ci sono guerre, non ci sono disastri naturali, è lontano dal centro economico del mondo perché siamo a sud, però è un paese con una qualità della vita alta.  Per quanto riguarda la possibilità di lavorare al Piccolo, invece, per prima cosa senti la consapevolezza di entrare in uno spazio mitico, un grande teatro europeo. Ho trovato molte, molte persone impegnate a fare teatro, ed è stato un piacere per me stare lì, lavorare nei laboratori, nella sartoria, nella scenografia. Essere un artista dell’Uruguay con un’idea pazza di fare qualcosa e vedere che tutta la macchina si mette in moto per produrre quello spettacolo per me è stato davvero una grande fortuna.

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