Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), il cantiere performativo di Claudio Larena

Ott 3, 2024

Ad arricchire la programmazione del Romaeuropa Festival torna anche quest’anno la rassegna dedicata alla scena teatrale emergente Anni Luce, sotto la direzione di Maura Teofili. Per l’occasione abbiamo intervistato Claudio Larena, autore e performer dello spettacolo Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) in cartellone il 3 e il 4 ottobre presso gli spazi del Mattatoio.

Lo spettacolo prende le mosse dalla visione abituale del cantiere stradale come ingombro, cercando di rileggerlo come luogo quotidiano del nostro spazio urbano: da cosa è scaturita l’esigenza di decostruirlo dalla sua funzione originaria e, anche attraverso lo spazio del teatro, volerlo raccontare in una maniera differente?

L’esigenza che sta alla base di questo testo è nata quasi per caso, da un pensiero che è nato ormai forse due o tre anni fa. Avevo montato questa struttura abusiva, clandestinamente, nella piazza d’ingresso del Mattatoio, che è questo enorme spazio a Roma dove ci sono diverse istituzioni culturali. La cosa che mi aveva più colpito è il fatto che questa struttura, che era una teca in legno con delle sculture all’interno, non era stata vandalizzata. Eppure era una scultura che non aveva nessuna motivazione, nessuna giustificazione per stare lì, non c’era nulla che dicesse che cosa o di chi fosse. Spesso incontravo delle persone che la commentavano dicendo “chissà da chi ha ricevuto i permessi questa struttura per essere qua”, e credo che pensassero che fosse della Facoltà di Architettura o del Mattatoio, o ancora del MACRO. La cosa in realtà più eclatante è stata quando un’amica che lavorava al MACRO, e quindi partecipava alle riunioni organizzative, mi ha raccontato che durante una riunione del MACRO il direttore diceva di voler togliere la struttura per organizzare un evento nella piazza ma pur avendo chiamato la Polizia Municipale, il Comune, nessuno paradossalmente poteva rimuovere la struttura dato che “era a norma”.

Questa situazione è stata un po’ per me l’inizio del pensiero di Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) che nasce proprio come pensiero sull’occupazione legittima di suolo pubblico, e l’occupazione legittima di suolo pubblico la ottieni se ti appropri di un’estetica legale, che in questo caso è quella della cantieristica, un’estetica che è istituzionalizzata, nel senso che è riconosciuta. Se tu ti appropri di quell’estetica e la vai ad applicare in uno spazio pubblico probabilmente non succederà niente, tant’è che infatti tutti i primi esperimenti sono stati esperimenti di occupazione di suolo pubblico, occupazione che era l’occupazione preventiva di un cantiere. 

All’interno del cantiere accadevano delle cose che andavano a creare in qualche modo un cortocircuito, perché non era effettivamente un cantiere ma accadeva dell’altro, eppure non veniva notato, quel luogo poteva stare là, noi eravamo legittimati ad occupare una porzione di spazio pubblico, illegalmente, però consentita dato che ci stavamo appropriando di un’estetica legale e normalizzata. Da lì è nato anche un discorso sull’osservazione, sull’osservazione del circostante, su ciò che notiamo, ciò che non notiamo, e il cantiere di base è sempre un potenziale spazio immaginifico dove non sappiamo quello che sta succedendo. È sempre lì e lo diamo per scontato perché diamo per ovvia la funzione di contenitore, cioè ciò che contiene i lavori in corso e finiamo per basarci solo su quello.

Quindi partendo da questo avete provato a trasformare la funzione standard del cantiere come fucina, come luogo di creazione anche di altro. Lo spettacolo poi presenta due differenti versioni, è stato concepito in un primo momento per lo spazio pubblico e solo dopo all’interno di un teatro. Com’è avvenuto questo passaggio?

Sì esatto, il progetto è nato nel e per lo spazio pubblico, e chiaramente ci siamo accorti che alcune cose, che lì funzionavano, nello spazio teatrale avevano un risultato diverso. In un teatro la finzione la diamo per assodata, quindi nella scrittura della versione teatrale ci siamo soffermati sulla superficialità, intesa non come essere superficiali ma come ciò che sta in superficie. Un cantiere, anche se non accade nulla all’interno, è effettivamente un luogo esposto, quindi ciò che avviene per forza di cose non può nascondersi perché è in superficie; la versione teatrale è andata un po’ verso questa direzione ed è diventata quasi un manifesto della superficialità. Ovviamente il messaggio che vogliamo lanciare non ha niente a che fare con lo stare in superficie e non agire, non fare nulla, ma al contrario rendersi conto di quanta complessità ci sia già in superficie, e soprattutto di quanto già la superficie porti con sé la profondità. La profondità non è un pensiero che apre una ricerca che bisogna fare su ciò che necessariamente non conosciamo, ma su ciò che è già qui: il cantiere nella scrittura teatrale è diventato metafora di questo pensiero.

Nella performance questo discorso è portato avanti giocando anche sulla questione dello sguardo: il cantiere è un luogo da cui ciascuno passando cerca di rubare con lo sguardo qualcosa di nascosto, infatti, sono luoghi un po’ proibiti anche se pubblici, e nella vita reale come nello spettacolo arriva il solito anziano con le mani raccolte dietro la schiena a cercare di scoprire qualcosa.

Sì, diciamo che è come se il cantiere rappresentasse un luogo di lancio di una serie di possibilità, di pensieri che sono però immediatamente rivolti ad un ipotetico pubblico che è un pubblico di passanti, un pubblico di persone che incontrano il cantiere. I cantieri li incontriamo sempre, quindi è un po’ come se anche volendo idealizzare al massimo questo pensiero volessimo proporre il cantiere come luogo di dibattito, come luogo di confronto e come luogo di esposizione di una serie di pensieri e di proposte che magari a volte rimangono chiuse. In questo modo invece ci siamo sforzati di pensare ad un luogo in cui qualsiasi cosa fai puoi essere vista, perché sei in superficie. Poi ovviamente nel lavoro cerchiamo anche di contraddire questa cosa e quindi di fare in modo tale che il cantiere (proprio dal punto di vista fisico nello spettacolo) si apra oppure si chiuda, permettendo ad alcuni discorsi di essere trasparenti al pubblico e ad altri di rimanere nascosti.

Questo aprire e chiudere è ben rappresentato nel vostro lavoro grazie al gioco continuo delle quattro pareti, in questo caso delle grate che vengono continuamente riassemblate per creare immaginari coinvolgenti o esclusivi per il pubblico. Questo effetto è amplificato dal ruolo della parola: che spazio ha avuto nella costruzione dello spettacolo?

Una cosa che è emersa e su cui poi abbiamo avuto modo di lavorare stando in sala, durante una fase di ricerca, va in parallelo con il pensiero del cantiere come luogo che viene dispercepito, dato per scontato; questo discorso ci ha un po’ permesso di associare la figura del cantiere alla figura della persona. Da lì la questione del come veniamo percepiti: il cantiere viene percepito come luogo di cui non ci chiediamo che cos’altro potrebbe essere, noi sappiamo che un cantiere è un cantiere, che lì ci sono dei lavori in corso, sappiamo che un cantiere di base si apre e si chiude e che quando si chiude teoricamente dovrebbe portarci soddisfazione. Allo stesso tempo alimentiamo tutta una serie di desideri o di aspettative, chiedendoci come migliorerà la città, oppure al contrario di lamentele perché dovrebbe essere un luogo all’interno del quale si trasforma il contesto urbano e quindi se poi quel contesto urbano non si trasforma in meglio io mi lamento. Tutte queste riflessioni che si fanno attorno a un cantiere, che sono le stesse riflessioni che poi si pongono effettivamente gli umarelli, che sono gli anziani che guardano il cantiere, sono riflessioni che abbiamo trasposto su una sfera più personale, individuale.

Io che costruisco la mia vita ogni volta che compio un gesto, mi chiedo, quel gesto rimane nella percezione dell’altro? Come faccio ad essere costantemente novità, come faccio, dicendo oggi voglio essere questa persona, voglio cambiare questi comportamenti, questi caratteri, a non essere intrappolato nella percezione che gli altri hanno di me? La questione è come io mi comporto o come l’altro mi percepisce? Dov’è che si crea l’impasse per il quale effettivamente la novità poi non la vediamo, non la percepiamo, non ci sembra che ci sia tanto nel cambiamento della persona quanto nelle cose che ci stanno intorno? È per una questione di percezione personale oppure è perché effettivamente quella cosa non sta cambiando e sta rimanendo tale? Quindi il lavoro in fase di scrittura ha un po’ attraversato queste riflessioni e in questo modo è stato anche possibile spostarsi su una sfera che era più individuale e personale.

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