Ultimamente, si ha l’impressione che la stand up comedy sia come la granella di pistacchio: ovunque. Open mic, comedy club, corsi di scrittura comica. È come una passepartout per garantire che “questo show fa ridere”.
Ma cosa è, veramente, la stand up comedy? Se un attore o un’attrice si ritrova su un palco con un microfono e un testo brillante è automaticamente stand up comedy?
La risposta è semplice: no. Forse è più utile partire da cosa non sia la stand up comedy per provare a darne una definizione di massimo: non è cabaret, non è stand up poetry, non sono monologhi comici teatrali. Non è certamente Pio e Amedeo.
La stand up comedy prende le sue file da una tradizione prettamente anglofona, che dai sottani dei locali arriva fino alle tv nazionali, alle tournée mondiali. Si parla di nomi come Carlin , Hicks, Chappelle, Wong, Burr, Gervais. Come spesso accade, da noi in Italia è arrivata ben più tardi e spesso in modo controverso (il caso Lutazzi fece abbastanza scalpore). E, come ancor più spesso accade, c’è ancora qualche difficoltà, soprattutto nel mondo teatrale, a distinguere uno spettacolo di stand up pura da altre declinazioni.
E qui urge una precisazione: il caso di Phoebe Waller-Bridge, spesso citata come exemplum magnum, non è in verità un fortunato caso di stand up comedian che fa il suo pezzo e bum! scrive una serie ispirata al suo spettacolo: la straordinaria Phoebe Waller-Bridge definisce infatti Fleabag come un’opera teatrale e al Fringe Festival di Edimburgo del 2013 era stato presentato come tale. Per gli inglesi e gli americani, sempre molto analitici, la differenza tra uno spettacolo come quello di Waller-Bridge e uno di stand up è molto chiara. Per noi un po’ meno.
Il ciclo di ricerche si propone di dare o provare a dare uno sguardo ad ampio spettro sul fenomeno stand up in Italia, con dei ritratti d’autore/autrice, con riflessioni su determinati eventi e temi ricorrenti, per cercare di avere una polaroid a colori di quello che rappresenta questa “nuova” forma d’arte nel nostro Paese. In un confronto con il resto del mondo, per lo meno europeo e americano, e nel tentativo di studiare anche quei casi di ibridazione tra stand up e monologo teatrale che uniscono all’epifenomeno culturale anche esigenze contingenti: attore-regista-autore/attrice-regista-autrice in una sola persona.
Gli stand up comedian possono essere o diventare anche autori teatrali, registi, attori, ma la loro forma primordiale è quella che li vede soli, su un palco, con un microfono e l’incertezza assoluta che le loro battute siano migliori di quelle dell’ultimo pezzo.
Perché l’elemento fondante per cui la stand up può definirsi tale è uno: la presenza del pubblico.
Ma perché parlarne? Al di là della pura testimonianza di un evidente fenomeno culturale, perché ragionarci? Quale merito ha di fatto questa stand up comedy?
Quello di riportare la gente a teatro. Le famose serate di stand up di cui si legge ovunque in Italia sono quasi sempre sold out. Perché si fanno in spazi piccoli? Non solo, perché ormai il Teatro dei Servi, il Brancaccio, l’Arcimboldi, il Parenti, il Trianon Viviani, Stradanuova a Genova e altri hanno rassegne dedicate alla stand up e la garanzia di platee e balconate piene. Non a metà. Non con le autorità in prima fila. Non grazie agli abbonati. Piene di pubblico vero. Di un’età che oscilla dai 20 ai 50 anni. Persone anche che, di norma, a teatro non ci vanno.
Con la stand up il pubblico riacquista un ruolo che gli viene negato da tempo: quello di determinare o no la qualità dell’esibizione. La risata del pubblico può segnare la vita o la morte di quello spettacolo, di quella battuta: ha un reale potere sull’artista in scena. Il brivido di avere un peso, l’ebbrezza di poter concretamente dichiarare se qualcosa a cui assistiamo hic et nunc valga il prezzo del nostro tempo e del biglietto, ha del catartico.
In un’epoca in cui dimostrare apertamente cosa si pensa di uno spettacolo sembra ormai un privilegio di pochi, in un mondo del teatro (e del cinema) italiano sempre più borghese, borghesissimo, in cui il dissenso è bandito e il “comunque bellissima la scenografia” sembra d’obbligo, la stand up ridà dignità e valore al pubblico. Un pubblico incorruttibile. Onesto.
Perché fingere una risata è difficile. Fingerla ogni 20 secondi, ovvero la cadenza media per cui un pezzo di stand up può dirsi efficace, sarebbe un’impresa titanica.
Ci si propone di analizzare questa risata dalla funzione liberatrice e apotropaica. In un Paese in cui il permesso di soggiorno sembra un miraggio, il congedo di maternità una concessione, un Paese in cui il mondo l’arte si arrocca su torri d’avorio con selezione all’ingresso, la libertà di risata e i motivi per cui questa viene scatenata possono essere rivelatori. Possono descriverci davvero i tempi che stiamo vivendo. Senza filtri, senza censure. Ed è per questo che, forse, ha senso scriverci su.
Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.