Al Teatro Vascello, nella suggestiva estate teatrale di Roma, arriva la danza contemporanea nazionale e internazionale, sotto la cura organizzativa di Valentina Marini. Dal 2016 il festival Fuori Programma propone una programmazione curata di spettacoli, e da quest’anno la stessa Marini ha preso in toto la direzione artistica del festival: impresa sicuramente rischiosa, in una città dove le risorse e la promozione vengono quasi interamente indirizzate ad eventi all’aperto.
Abbiamo voluto farle solo un paio di domande a proposito di come si inserisce il suo lavoro di programmatrice in questa missione, all’interno della sua attività con il DAF e della compagnia Spellbound. In una piacevole conversazione, è emersa quella che è stata la firma che ha contraddistinto questa edizione del festival: in primo luogo l’idea che la danza, nel suo significato più compiuto, si debba esprimere pienamente come opera del corpo per un pubblico che la cerca, la desidera, senza doversi immergere in panorami performativi altri per trovare giustificazione. In seconda istanza, questo festival si divide fra spettacoli di rilievo in ambito internazionale (Vertigo Dance Company, Hillel Kogan, Dunja Jocic) e produzioni italiane sia provenienti da diverse zone della penisola (Abbondanza/Bertoni, Spellbound Contemporary Ballet, Compagnia Zappalà Danza).
Valentina Marini racconta come il suo obiettivo, trasversale nelle attività di direzione come in quelle di organizzazione e distribuzione, sia quello di creare una comunità di professionisti che si identifichi in un luogo e in uno spazio e sia rappresentativa di un territorio. Il compito della programmazione è un percorso pieno di imprevisti e ostacoli, per questioni legate alle economie e al difficile dialogo con gli enti del territorio, e deve scontrarsi con lo spettro della presenza del pubblico. Nel caso di Fuori Programma, gli spettatori hanno riempito la platea e accolto le proposte con grande entusiasmo. Nel sostenere questa iniziativa, si può facilmente intuire come possa diventare un’ottima vetrina non solo di spettacoli già affermati, ma anche di nuove proposte capaci di avvicinare un pubblico più vasto dell’usuale sparuto gruppo di operatori e addetti al settore.
Il percorso che va dalla creazione, messa in scena fino alla distribuzione della danza contempla, soprattutto per alcune eccellenze autoriali, che gli operatori siano disponibili a costruire un dialogo comunitario e critico con gli artisti. L’importanza di valorizzare i prodotti artistici basandosi non sul rapporto fra giovane età anagrafica e innovazione creativa o su semplici reti di circuitazione, va ad incidere sulle reali capacità creative e innovative dell’artista, stimolandolo a migliorare la creazione e a dare una continuità al processo creativo negli anni. Marini, coadiuvata da un potente staff, sperimenta da diversi anni la formula giusta per coniugare la necessità di gestire compagnia, festival e spazi in un’ottica aziendale e prettamente funzionale, alla volontà di stare dentro la sala di danza e di conoscere il materiale umano e creativo.
In queste giornate romane, ho potuto assistere allo spettacolo di Spellbound Contemporary Ballet, in prima nazionale con Full Moon. Nella vasta produzione di Mauro Astolfi per la compagnia, questo lavoro si inserisce in un filone maggiormente ispirato all’astrazione tematica e alla sospensione dell’intento narrativo. Iniziato lo scorso anno con un cast diverso (sono stati inseriti nuovi danzatori nell’organico della compagnia), il materiale sperimentale è diventato ben presto una creazione integrale. Astolfi si ispira alle fasi lunari – una curiosa coincidenza, proprio nella settimana dell’Eclissi – e ai richiami atmosferici che queste fasi hanno nell’immaginario fisico e psicologico dell’uomo, facendo muovere i nove danzatori come se fossero animati da un deus ex machina superiore, una sorta di moto sovrannaturale che spinge i corpi, fuori dal controllo del giudizio. L’atmosfera rarefatta viene sostenuta dalle luci di taglio e da controluce molto verticali, che richiamano agli ultimi lavori di Wayne McGregor.
Un fascio luminoso, come se filtrasse da una persiana, sceglie cosa mostrare allo stesso attore in scena e rafforza – forse in maniera un po’ didascalica – le continue entrate e uscite dei danzatori. Gli stessi mostrano una tecnica molto forte nel lavoro di Mauro Astolfi, il quale conferma la sua vivacità nella costruzione dei numerosi duetti che si succedono: questa energia, da un punto di vista drammaturgico, va spesso a perdersi in una continua voracità cinetica, “bruciando” alcuni momenti che potevano essere portati a un climax maggiore. Il lavoro mantiene la sua efficacia nei passaggi interattivi fra quello che avviene in scena e ciò che risulta nella penombra, illuminato dietro il fondale, in momenti di trasformazione fisica, quasi epidermica. La musica non è mai interrotta, raggiunge alcuni apici sonori che però non trovano corrispondenza in una visione d’insieme del lavoro, facendo emergere talvolta la necessità di momenti di silenzio e di creazione di atmosfere differenziate: riferendosi al paesaggio lunare, la memoria va a Vollmond di Pina Bausch, punto imprescindibile di riferimento per la creazione dei paesaggi del corpo.
Full Moon è una creazione che affida alla bellezza e instancabilità dei corpi l’ambientazione fisica, il racconto delle relazioni, la nascita di nuove “creature” nell’oscurità della notte attraverso danzatori che rimangono ben ancorati alla propria umanità e alla propria capacità di interazion