Articolo a cura di Giulio Carbone
La funzione culturale dei festival – Un seminario è un’analisi delle attuali condizioni di sviluppo culturale – delle metamorfosi, di progresso o deriva – del fenomeno festival, volta a valutarne il ruolo a partire dall’ormai già inadeguata definizione corrente.
Il primo atto presenta una lezione panoramica della storia dei festival, dalle origini ottocentesche ai rilanci più moderni, nella quale Roberta Ferraresi evidenzia lo speciale rapporto tra la conformazione del moderno modello di festival e la temperie rivoluzionaria sessantottina:
L’elemento di interesse in questa “coincidenza storica” si rintraccia nel fatto che l’elaborazione di tale modello di festival viene messa a punto in un momento in cui il concetto e le pratiche della festa dimostrano una diffusione sostanziale […] perché il teatro tradizionale starebbe a rappresentare la società che si intende rovesciare; al contrario, si esprimerebbero qui una serie di pratiche performative altre, fra cui appunto quelle di carattere festivo.
Ed ecco che i festival rappresentano dunque l’unità dei valori spirituali e materiali, come sociale pratica di festa (fèstival dall’lat. mediev. festivalis, «festivo») nonché parte civile, manifestazione delle istanze giovanili, e dei precari tutti, contro la classe dirigente.
A riprova del principio material-sociale dei festival, un documento dove, nel periodo dell’esilio – nota bene –, Richard Wagner esprime il desiderio di rappresentazione del suo Sigfrido al punto tale d’inscenarlo, tant’è la voglia, su “un rozzo teatro di legno” a una sottospecie di festival in pubblica piazza. Segue la genesi del Festival di Bayreuth(dedicato esclusivamente all’opera di Wagner), con una breve nota ideologica sul compositore tedesco connotativa del carattere del festival. Difatti Bayreuth si conforma totalmente alla matrice del capriccioso maestro, rappresentando (onorevole alfiere contro la volgare produzione industriale) il gusto delle belle arti ma non già la poetica dell’ideale, (contro la superficialità di pensiero) i romantici sentimenti ma non già l’amore o la misericordia, facendo dei festival in genere (come dello spettacolo e delle arti tutte) un passaggio tra i principi sociali per l’individuo partecipe e la determinazione civile per la collettività.
Con Wagner si incontra il rivoluzionario Marx, il rivoltoso Bakunin, nonché il giovane Hitler; e infatti è un passaggio, quello tra il sociale e il civile, che l’arco del Novecento non riesce ancora a conseguire. Ma proseguendo con la storia è importante notare (e Roberta Ferraresi aiuta), come alcune tra le forze conservatrici non siano invero anti-progressive, ma che anzi s’interessino di questioni pur tuttavia ancora irrisolte; e in questo senso i festival sono, ammesso di rispettarne – come presto si comprende – ambo le parti, un esempio di moltitudine, assumendosi il doppio compito di innovazione e aggregazione.
Definiti un esempio d’innovazione – artistici perché performativi – ma con appunto una vaghezza particolarmente sociale che: […] ha influito in modo evidente e duraturo sulle trasformazioni […] del secondo Novecento; ma il “Festival Internazionale della Mortadella” di Castelnuovo può arrogarsi il titolo d’esempio e definirsi un modello da seguire? A differenza degli anni sessanta e settanta, quando i moti di rivolta, seppur fallendo, hanno comunque significato sempre qualcosa, oggi l’underground giovanile non riesce a costituire una controcultura adeguata a sostituirli o farne le veci, rimanendo soltanto relegato a sottoprodotto del sistema. Se però certe realtà vivono per lo più in qualità del principio sociale dei festival, forse l’approfondimento delle sue caratteristiche anche civili gli renderebbe insieme maggior pienezza d’essere. E allora (ove le forze individuali si dimostrino insufficienti) è la disposizione al dialogo – e all’ascolto, che lo premette – che ha il potere di costituire la suddetta controcultura e avvalorare l’aggregazione sociale d’ulteriore senso; una sensibilità che si acquisisce a condizione però del distacco dalle soddisfazioni più immediate (per le quali brigando l’ebbrezza festiva ha finito invece per sovraintendere luoghi deputati all’istruzione).
Così Dino Sommadossi: […] questo è il ruolo, credo, che dovremmo rivendicare [date le circostanze] con maggior determinazione facendo un po’ di chiarezza sul concetto stesso di festival, soprattutto nei rapporti con il Ministero e con le valutazioni di merito che il Mibac esprime […].
Quale sia il margine d’equilibrio tra libertà sociali e impegno civile sta alla maturità degli organi votarlo opportunamente, siano questi festival, teatri o qualunque altra forma di spettacolo dal vivo e non, d’arte, di cultura e via via discorrendo. Certamente le peculiarità originali d’ognuno rappresentano uffici fondamentali (da comprendere) che tuttavia, a ben guardare, pur mirano essenzialmente, più che a inequivocabili partiti, a una sinergica azione tra svariate cariche reggenti: un giudizio che va quindi amministrato in rapporto alle società di riferimento – in termini comunali o provinciali, internazionali o non, economici, ideologici, di appoggio e coinvolgimento, di spettacolo e intrattenimento, ricerca e formazione, estetica e sperimentazione… Responsabili, in definitiva, d’ogni possibilità di sorta.
Una parte qui emblematica sarebbe quella del “direttore”, il quale può forse dimostrare praticamente l’entità di quel tessuto connettivo tanto responsabile. Infatti, un direttore mette in relazione, come una cerniera, l’intera filiera e – cogliendone l’interesse comune, il potenziale – si cura della ragione di tutti: negozia quindi i finanziamenti coi produttori, la distribuzione, s’interessa dello sviluppo artistico, ne comprende, solleva o risolve le questioni, prende lui le decisioni, comprende i territori, i risvolti politici, si preoccupa di spese e guadagni, ha diritti, si assume i rischi, coordina tutti i processi di organizzazione e talvolta di realizzazione, punta a incrementare, assume i lavoratori, professionisti del settore e non, maestranze, trasporti, pensa alle opportunità per i più giovani, se ne avvale, spinge la qualità di laboratori o tirocini, guarda (o non guarda) al pubblico fruitore.
Ma il suo non è che un esempio perché, in verità, ogni parte s’intreccia coll’altra e non è poi più così facile distinguerle: così per artista s’intende chi esercita una o più tra le discipline artistiche e cioè possiede la tecnica che compete alla propria professione, a prescindere da un’ipotetica ispirazione ideale, e in questo caso è responsabilità del direttore indicare all’artista un discorso, un senso per l’opera commissionatagli; diversamente invece accade quando l’artista è pure un poeta e cioè è lui stesso il responsabile d’una poetica, un discorso, e allora il direttore non ha solamente che da favorirlo: uno scambio di ruoli tra parti che dunque non sono affatto dei generi distinti ma piuttosto trans-disciplinari.
Anche i festival, nello specifico, non soltanto hanno partecipato a quell’esubero di valori material-sociali ma, d’altra parte “negli ultimi decenni sempre più […] si sono [di rimando] accollati una serie di compiti – che non gli erano propri – e quindi hanno agito in una sorta di supplenza rispetto alle mancanze [civili] del sistema”.
Votare, però, arbitrariamente tra i valori, insensibili (in questo groviglio) ai riferimenti necessari, è un decorso insidioso, che non conduce a molto e, in verità, nulla di ciò che se ne ricava può compensare il perso, quello di cui poter invece andare orgogliosi e fieri. I festival hanno influito sul modello delle stagioni teatrali, sostituito al repertorio spettacoli d’eccezione, sperimentali e liberi, in un’atmosfera magari capace di attrarre un pubblico più giovane e veicolare contenuti – anche importanti – in maniera più facile, certo, ma forse pure più superficiale di quanto invece possano fare certi classici:
Per uscire dal ghetto abbiamo speso la carta dell’accessibilità culturale, individuando nella presunta difficoltà delle proposte la causa della non partecipazione […] individua dunque una mancanza tutta dalla parte degli orizzonti cognitivi del pubblico […] se l’accessibilità culturale ha significato abbattere le barriere, abbassare la complessità e favorire l’ingresso mi pare che abbiamo ottenuto poco.
Le parole di Lorenzo Donati danno un’idea di come i festival si siano (talvolta) mal posti verso il teatro e la cultura in generale, sviando artisti, pubblico, critici. Viceversa, negli ultimi anni si stanno affermando festival di approfondimento culturale, di letteratura, filosofia, matematica, benché, “[…] con tutta la buona volontà che è stata messa in campo e tutte le competenze anche molto generosamente spese […]”, nessuna supplenza delle parti può da sola ovviare all’assenza di un apparato istituzionale integro. Scelte sbagliate se ne fanno – ogni ruolo è una responsabilità che, in un verso o nell’altro, si soffre – e pur gli errori servono, tuttavia (nel migliore dei casi), per sensibilizzarsi all’ordito – e organizzare un sistema più complesso.
Un capitolo fondamentale per il presente è senz’altro l’ottavo I festival nel sistema teatro: interazione con gli altri soggetti e reti, in cui si mette addirittura in dubbio, e a ragione veduta, l’esistenza stessa di un sistema istituzionale dello spettacolo.
[…] la normativa, per come è articolata e concepita, provoca irrigidimenti, limita le interazioni tra i diversi soggetti dello spettacolo […] generano marginalità, frustrazioni, antagonismo. Nel nostro paese sono gli apparati amministrativi a forgiare il sistema […]
In realtà quindi, come si legge, un sistema c’è ma, se non lo si può dire classista e capitalista – anche in considerazione della forza che per somma i maggiorenti ottengono –, resta comunque un sistema davvero poco repubblicano. La comune necessità di un sistema, ovvero di un sistema distinto, sta ad ogni modo generando affinità culturali e interdipendenze tra soggetti, in una rete che finalmente possa (più che sostenere “artisti” singoli e produrre spettacoli o eventi canonici) anzitutto “[…] far pressione sulle istituzioni per ottenere risposte che servano a tutti”. Urge, per un simile apparato, instaurare relazioni pur aldilà delle preesistenti categorie amministrative, e pure tra soggetti per cultura molto differenti (per posizione geografica, organizzazione, attività, entità, storia); significherebbe diffusione nonché moltiplicazione degli strumenti di ciascuno.
Tuttavia, fare rete è un mezzo di servizio, e intessere relazioni non significa solamente tendere le mani; per un sistema distinto ci vuole una qualità d’impegno capace di questioni e spirituali e materiali: produttori e distributori differenti, che si assumano rischi, e professionisti edotti.
Purché una tale epica di sistema non si distacchi però dalla realtà (dai veri orizzonti politici, ad esempio, italiani, europei o magari sovrannazionali), in retoriche elucubrazioni autoreferenziali che non hanno alcuna attinenza col presente – e tantomeno col futuro. È importante (a perfezione del discorso) riferirsi allo stato della società (o società territoriali, considerando “la società” come una macrocategoria, una scatola cinese, comprensiva delle altre), accorti alle condizioni sociali per capire in che verso operare: se provinciali, per il sociale e il benestare, oppure se già comunali, per il civile e il benessere.
Dice a proposito Graziano Graziani:
Io non sono assolutamente per i progetti sempiterni, o per le persone [e i valori che rappresentano] che stanno quarant’anni in un luogo […] magari semplicemente basta cambiare città [o nazione/i] e portare il proprio progetto da un’altra parte. Il tema del ricambio […] è un altro di quelli che ci dimentichiamo, ma è sempre presente”. Esempi che esortano ce ne sono: Platform A35, […] idea di ricercare nel territorio nazionale, e non solo, giovani coreografi, la cui ricerca mostra nuovi processi creativi, ma anche la società in mutamento che in essi necessariamente si rispecchia […], Crossing the Sea, […] è un progetto d’internazionalizzazione dello spettacolo dal vivo con lo scopo di creare e consolidare collaborazioni di lungo termine tra Italia e paesi asiatici e del Medio Oriente […], finanche […] l’esperienza di FineEstate Festival, oggi denominato In Italia-International Network, che rappresenta una rete di nove soggetti italiani che operano ormai da sette anni. L’esperienza si è sviluppata, prima di tutto, sulla base di una condivisione progettuale; i direttori si riuniscono, partecipano assieme a festival e focus internazionali, seguono e condividono le produzioni di artisti con determinate caratteristiche. Il Network ha stabilito delle relazioni solide con tutti gli istituti di cultura europei, in particolare con quello francese, con il quale è stato costruito un rapporto di confronto e di scambio in tutti questi anni. Tutto ciò ha ottenuto anche un risultato virtuoso dal punto di vista economico.
E tutto questo succede quando l’atteggiamento mentale, progressivamente, cambia: la sintesi tra i valori non è facoltativa, è necessaria, e che non si ritenga mai un’offesa ma un valore aggiunto.
Tema e argomenti stimolati da un seminario che maieuticamente interroga, attraverso tutti i suoi atti, come pratica propedeutica.
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