Il Teatro Biondo di Palermo con Sicilia di scena porta avanti un progetto rivolto ai giovani drammaturghi di tutta l’isola. È un bando aperto sia a singoli che a collettivi che possono presentare opere appartenenti a qualsiasi genere e linguaggio scenico. Una volta nominato, il vincitore viene prodotto e distribuito nelle sale del teatro per un minimo di dieci repliche.. Il teatro si impegna a coprodurre e/o ospitare altri quattro progetti particolarmente rilevanti e: L’arte della resistenza di Barbe à Papa Teatro; The Yalta Game della compagnia Saveria Project; Felicia della compagnia Quintoequilibrio; Butchers di Gloria Dorliguzzo.
In questa seconda edizione 2023/2024, Astolfo 13 di Giulio Musso e Federico Pipia è andato in scena al Teatro Nuovo Montevergini di Palermo dal 21 al 23 dicembre e poi dal 27 al 30 dicembre 2023. Interprete del suo stesso testo è Giulio Musso, che attraverso l’intenso lavoro con l’attrice Francesca Melluso, viene preparato al palcoscenico per vestire i panni, ideati da Dora Argento, ora di Rodomonte ora del mago Atlante e di altri mitici personaggi dell’Orlando furioso.
Alla sua destra Michele Piccione suona numerosi strumenti, alla sua sinistra Federico Pipia si esibisce in live electronics, dopo aver firmato la regia, le musiche, il sound design e le video scenografie, proiettate alle spalle di Musso e su un piccolo schermo di computer in proscenio sulla destra (tutto curato in scena da Andrea Trona). Si raccontano tante storie dentro una storia: vengono evocate immagini del poema ariostesco la cui epicità sposa bene frasi dialettali del cunto e movimenti spezzati da pupo siciliano, con basi ritmiche contemporanee.
Astolfo 13 è un’immersione sensoriale in un ambiente già di per sé pittoresco (quello del Teatro Nuovo Montevergini, una chiesa seicentesca ormai sconsacrata), premiato per uno sguardo registico maturo. Ne abbiamo parlato con Musso e Pipia.
Qual è la genesi dell’opera?
Federico Pipia: Il progetto è nato nel 2016 come lavoro musicale, con l’idea abbastanza “semplice” ma al tempo stesso inedita, nel senso che non mi risulta che siano stati fatti lavori del genere datati fino al 2016 nè dopo. È una riscrittura di alcuni episodi dell’Orlando furioso su musica elettronica. All’inizio lo intendevamo come lavoro discografico, non per fare una pubblicazione discografica importante ma un lavoro personale da portare in giro in forma di lettura su musica. Abbiamo fatto un piccolo EP che raccoglieva i primi episodi su cui avevamo lavorato, ovvero Orlando che entra nel castello incantato del mago Atlante, Astolfo che viaggia nello spazio, la furia di Orlando e un proemio. Tre su quattro episodi direi sono rimasti e sia le musiche che parti del testo compongono quest’ultima edizione. Negli anni si sono aggiunti degli episodi, ne abbiamo modificati altri e gradualmente abbiamo cambiato idee oppure quella che poteva essere la visione.
Giulio Musso: Sia la scrittura che la composizione che l’evoluzione di tutto il progetto è cresciuta insieme a noi, parallelamente alle nostre esperienze comuni e diverse e nella nostra testa cominciavamo ad immaginarlo sempre più in una dimensione spettacolare, teatrale, con una veste sempre più performativa. Tant’è che nel 2019 abbiamo anche vinto il premio letterario Alberto Dubito, sempre proponendo uno studio di due, tre episodi singoli sotto forma di lettura performativa: hanno premiato l’originalità del progetto e questo è stato un momento abbastanza importante perché abbiamo capito che esisteva un riscontro anche transregionale, nonostante magari l’apparente ostacolo del dialetto in alcuni punti o della specificità della materia trattata, che è quella dei paladini di Francia, che appartiene sì all’Orlando furioso, però che chiaramente fa capo alla nostra formazione culturale, a partire da quello che succede a Palermo con il cunto, con il teatro dei pupi. È stata un’evoluzione graduale che ci ha permesso con delle diverse risorse di trasformare questo progetto in grande scala, più o meno come ce lo immaginavamo.
FP: Rimane lo spirito modulare di questo lavoro. Ogni giorno è sempre uno studio diverso su quello che stiamo facendo e ogni mese, ogni settimana cambiano delle parti. Adesso si sono aggiunti anche dei livelli in più con il discorso fisico dei costumi, del movimento, dello spazio, della scena, del rapporto con il pubblico, delle luci, dei video, quindi a maggior ragione ci sono tante cose che possono cambiare costantemente, in una ricerca infinita di quello che potrebbe essere.
GM: Non è una specie di ricerca della perfezione, della rotondità ma un processo continuo in cui cerchiamo di spremere sempre più quello che siamo in grado di fare con il linguaggio musicale, verbale, scenico.

Come avete lavorato alla stesura del testo?
FP: Inizialmente forse i primissimi passi li abbiamo mossi separatamente, però comunque abbiamo entrambi responsabilità che vanno anche al di là delle nostre firme. C’è sempre stato un dialogo drammaturgico per cui prima di scrivere sia musica che testo c’è stato uno sforzo immaginativo di entrambi, sempre un dialogo sulle idee, su quello che può succedere. Ci sono tante cose inedite sempre nel rispetto di quello che sono i personaggi, i rapporti all’interno del testo originale perché comunque specialmente Giulio si rifà filologicamente a tutto l’apparato mitologico e letterario dell’Orlando furioso, però c’è una reinvenzione costante e in questo c’è molto confronto. Nell’atto di scrivere singolarmente musica e parole c’è un momento di solitudine, ma poi nel confronto tagliamo parti di testo, cambiamo parti di musiche: c’è un legame molto forte su questo aspetto.
GM: Il rispetto filologico, la filigrana dell’Ariosto è sempre presente. In realtà quello che, ritornando alla genesi del lavoro, ci ha spinto a farlo è l’ammirazione, la sorpresa, lo stupore costante che ci provoca leggere questo testo. Per me l’Ariosto è sempre stato geniale nella sua leggerezza, nella sua ironia, nella sua capacità di costruire immagini, creature, incantesimi, personaggi straordinari. È sempre stato lì, un luogo familiare. Per me la scrittura in versi dell’Ariosto e di tante altre opere letterarie che si studiano a scuola risultavano già di per se affascinanti. Se io mettevo una base sotto, andando a tempo, le leggevo e ne veniva automaticamente una lettura performativa, poetica, con una base di musica elettronica o hip hop. I testi così acquisivano per me sempre molto più senso e le capivo meglio in qualche modo, prendevano vita e diventavano comprensibili e questo ovviamente immagino che abbia un ruolo nella nascita dello spettacolo.
Ogni personaggio ha il proprio “costume” sonoro. In che modo ha avuto inizio il dialogo tra parola e musica?
FP: Gli episodi che sono rimasti dal progetto originario sono forse tra i più affascinanti, ovvero l’allucinazione di Orlando nel castello del mago Atlante e tutta la scrittura elettroacustica del viaggio di Astolfo nello spazio; sono anche i primi a cui abbiamo lavorato. Sono tutti temi, suoni che sono venuti semplicemente da un atto di immaginazione, anche sonora e armonica, che ha prodotto queste miscele di elettronica tra il dance e lo sperimentale, la musica tradizionale popolare da un lato e echi di musica medievale. Alcune cose sono andate perdute col tempo e poi ritrovate. All’inizio è stata veramente una sorta di magia, scavare in un’immaginazione inconscia.
Invece negli anni successivi c’è stata un’idea sempre più precisa della direzione da prendere. L’imprevisto musicale, in senso positivo, viene sempre fuori, la divergenza, lo straniamento rispetto a quello che è l’orizzonte d’ascolto c’è sempre però è stato fatto in maniera più consapevole, più mirata. Ad esempio un episodio come quello di Rodomonte o come quello del mago Atlante sono ideati in maniera più consapevole come qualcosa che deve dare un’idea sonora e musicale lasciando comunque spazio alla parola, mentre invece i primi episodi, quelli che ho citato prima, sono molto più avvolgenti, invasivi ed è una cosa che abbiamo voluto mantenere. Poi l’arrangiamento dal vivo era la cosa che mi interessava di più, perché è bella la relazione che si può creare tra due musicisti sul palco.
Mi piaceva mantenerla quindi ho preso i brani e li ho riarrangiati in modo che si potessero eseguire tutti dal vivo. L’elettronica rimane pura in alcuni momenti però poi per il resto è una continua relazione tra strumenti. È un arrangiamento che accompagna le parole ma che crea anche un contrasto, un dialogo soprattutto con il testo, con il personaggio. In quest’ora si sentono cose diverse, si mettono in relazione sullo stesso livello, ma anche su piani diversi, suoni che normalmente stanno in contesti differenti come appunto la musica di ricerca, elettroacustica, l’improvvisazione, la techno, la trap. Tutti questi non sono solo generi ma proprio mondi anche sociali, perché sono paradigmi di fruizione che vengono associati a certi contesti e ascoltati da certe persone in certe situazioni.
C’è molta differenza di solito tra queste cose, anche se l’operazione di portare la musica contemporanea “pop” all’interno del teatro ovviamente viene fatta spesso. Eppure questa fluidità nel passare tra una cosa e l’altra come se fosse un unico evento, discorso sonoro e musicale è più rara con questo grado di approfondimento all’interno di uno spettacolo, dal punto di vista dell’esecuzione musicale. Di solito si tende a trovare uno stile o comunque un tipo di musica e mantenerlo per dare coerenza.

Qual è il vostro rapporto con il teatro? E cosa vorreste vedere?
FP: Il mio rapporto con il teatro è partito dalla primissima infanzia. Mia madre è costumista quindi dagli zero ai dieci anni ero sempre in teatro a vedere prove su prove tra Catania, Roma e Palermo e questa cosa mi ha formato. Ho visto un certo tipo di teatro, anche quello più tradizionale, che mi ha aiutato a riconoscere le cose che funzionavano meglio e quelle che funzionavano di meno. Poi con il tempo in adolescenza è nato soprattutto l’amore per la musica e negli ultimi anni si è trasferito in una visione teatrale di quello che è la musica: un’idea di teatro che è al confine con tutto ciò che è il senso del suono, della musica, della ricezione fenomenica, di quello che avviene, un’idea musicale del teatro, anche in “assenza di musica”. Durante gli anni al conservatorio di Bologna mi sono avvicinato al teatro contemporaneo, soprattutto dopo aver studiato musica elettroacustica.
Uno degli ultimi maestri che ho avuto è stato Luigi De Angelis che è regista, light designer, compositore, sound designer di Fanny & Alexander e il rapporto con lui è stato abbastanza importante per permettermi di accedere all’idea di fare del teatro, di varcare quella soglia che va oltre il concerto performativo e superarla. Per quanto riguarda cosa voglio vedere: tutto quello che posso, non ho pretese su quello che fanno gli altri. Sono abbastanza aperto a esperienze diverse da quello che faccio io.
In teatro, più che certe opere, mi piace una certa visione del teatro e la difficoltà maggiore con Astolfo 13 è stata ed è tutt’ora riportare un equilibrio tra quella che è una visione artistica più profonda e invece la necessità e la volontà anche di divertirsi, di avere una comunicazione diversa anche più divertente. Non di intrattenimento ma comunque di una relazione a più livelli con il pubblico e questa forse era una delle cose più stimolanti, più interessanti di questo lavoro, di applicare un’idea di sperimentazione sia letteraria che musicale e performativa su un progetto che comunque non riesce a non essere in qualche modo trasversale.
GM: A me a teatro interessa ovviamente divertirmi, emozionarmi, essere interrogato da quello che vedo ma soprattutto mi interessa entrare a contatto con dei testi che conosco o che non conosco e quindi studiare e imparare. Il teatro è un posto sacro, il palcoscenico diventa una piattaforma, un luogo sempre altro che assume un’aura. A me non frega niente di questa cosa però proprio perché non me ne frega niente rispetto moltissimo le convenzioni che esistono, il perimetro e la grammatica di questo posto che sto iniziando a conoscere adesso che lo sto guardando dal di dentro. Questo forse mi dà un po’ di incoscienza, la spinta per fare bene, per essere energico.
Mi piace stare a contatto con il pubblico perché per me non è una trasmissione unidirezionale ma è come quando sei in classe. Per qualche tempo ho fatto l’insegnante e ho maturato quest’idea: è un rapporto di educazione paritaria ed orizzontale, io ti racconto qualcosa, tu mi rispondi, mi fai cambiare idea, ti diverti, io mi diverto. Mentre quello che desidero vedere è proprio Astolfo 13, non lo posso vedere perché lo faccio io. Vorrei vederlo e siccome non l’ho mai visto abbiamo detto: «Facciamolo noi, allora!».
FP: Bisognerebbe saper educare sia il pubblico sia le persone che il teatro lo fanno. Ho avuto la fortuna di instaurare un gran rapporto con i miei maestri al conservatorio di Bologna, è stato veramente molto stimolante. Ero immerso in un contesto vario e molto interessante di approfondimento di ciò che è il suono in senso lato, poi quando mi sono approcciato al teatro ho riportato lì tutte queste conoscenze. Giulio ha un’altra esperienza di approfondimento sulla letteratura che non è assolutamente di tutti, un approccio letterario che poi è diventato drammaturgico: Se si vive, si cresce, si studia in un contesto meno ricco e che tende ad approcciare il teatro in maniera esclusivamente tradizionale o semplicistica, non si riesce a recuperare ciò che di ottimo c’è nella tradizione del passato, ma soprattutto è sempre più difficile guardare al contemporaneo ovvero a guardare al futuro. Tantissime persone a noi sconosciute che sono venute a vederci sono tornate due o tre volte: ciò ci fa molto piacere, ma poi, al di là di noi, è un segno che anche persone che non vanno spesso a teatro vogliono rivedere un prodotto che ha una sua complessità.

Nasce a Palermo nel 1998; lì si laurea al Dams, curriculum spettacolo, scoprendo diverse realtà teatrali e cinematografiche locali, più o meno indipendenti, e collaborando con queste. Tutt’ora continua i suoi studi a Bologna, specializzandosi in discipline del teatro.