Questo articolo è stato prodotto dai partecipanti di TheaterTelling – corso di formazione in Digital Storytelling & Audience Engagement per lo spettacolo dal vivo. Intervista a cura di Gabriele Fortuna.
Si può perdonare chi ha strappato la vita a un proprio familiare? Settanta volte sette parte da questo interrogativo per indagare il tema del perdono, che assume la forma di una protesta nei confronti della logica della vendetta che sta avvelenando la società odierna. Una possibilità concreta, laica, pienamente umana raccontata dal gruppo Controcanto collettivo, vincitore dei Teatri del Sacro 2019, in scena dal 5 all’8 dicembre presso il Teatro Argot di Roma, nell’ambito della stagione 2019/2020 ARGOtNAUTICHE – Cronache dal mondo sommerso.
I partecipanti di Theatertelling – corso in Digital Storytelling e Audience Engagement a cura di Theatron 2.0 – hanno avuto l’opportunità di rivolgere alcune domande a Clara Sancricca, regista e interprete dello spettacolo Settanta Volte Sette, ma anche co-fondatrice della compagnia.
Da dove nasce l’esigenza di trattare il tema del perdono?
È un’esigenza non di natura biografica ma che nasce da una riflessione che mi ha accompagnato per anni e che forse la maternità e la paura che qualcuno possa far male ai miei figli ha reso più concreta. Mi è parso di registrare un primato accordato alla vendetta come mezzo di risoluzione, come se non solo fosse ritenuta la cosa più facile e più istintiva per l’essere umano ma anche la migliore dal punto di vista etico, a discapito della possibilità di un incontro, di un’umanità diversa. Mi sembrava che nei secoli fosse chiaro e fossimo tutti d’accordo sulla bellezza, sull’opportunità e sul senso di percorrere la strada del perdono ma, a oggi, vedo una certa spietatezza coltivata dalla nostra società, che si muove di pari passo a un incattivimento generale, per cui si sono invertiti i parametri di giudizio. Da qui è nata una mitologia tutta al positivo legata alla vendetta, un lusso che si concede in virtù del proprio coraggio, della propria forza d’animo.
In che modo avete affrontato scenicamente il tema?
Partendo da una riflessione, all’inizio non avevamo ben chiaro che direzione prendere. Ci siamo quindi documentati sulla cronaca e, tra gli innumerevoli casi di vendetta in cui ci siamo imbattuti, un caso in particolare ci ha colpiti perché mostrava l’altra faccia della medaglia, una riconciliazione tra chi è vittima e chi è carnefice. Questa è stata la matrice d’ispirazione dello spettacolo, di cui i personaggi, le dinamiche, le scene sono frutto della nostra fantasia.
In Settanta volte sette sei attrice e regista. Come è stato dirigere un gruppo di attori di cui sei parte integrante?
Bello e faticoso. La regia è sempre stata nei miei progetti ma, prima di Settanta volte sette, sentivo che i tempi non fossero maturi per occuparmene. Ho cambiato idea quando ho compreso che la chiave di volta della storia erano due donne di cui era necessario restituire lo sguardo. Debbo dire che ho quasi procrastinato il lavoro interpretativo perché mi premeva soprattutto rendere intellegibile la vicenda.
Così come in Sempre domenica, il vostro precedente spettacolo, anche in Settanta volte sette recitate in romanesco. Da dove deriva la scelta linguistica del dialetto?
La scelta del romanesco non è stata una scelta quanto una conseguenza naturale del voler comunicare il quotidiano, raccontare una vicenda il più possibile aderente a una realtà di cui i personaggi sono voce. Noi cerchiamo di parlare a tutti, ma è obiettivo che una persona nata e cresciuta nei Castelli Romani risentirà dell’aria respirata in quel posto, della realtà che ha avuto modo di osservare, una realtà in cui però possono riconoscersi tutti se la si mette al microscopio.
La recitazione in vernacolo è mai stata motivo di distanza per il pubblico non romano che avete incontrato durante la vostra tournée nazionale?
Non nego il timore che la recitazione in dialetto potesse alienarci il favore del pubblico, dal momento che ci muoviamo molto nel Nord Italia, ma in realtà è una questione che non si è veramente mai posta, non è un appunto che ci è mai stato mosso da parte del pubblico.
In chiave laica, quali risvolti assume la trattazione del tema del perdono solitamente connotato da un’accezione fortemente religiosa?
Mi sono mossa dal tentativo di laicizzare il perdono, un tema dall’accezione molto connotata religiosamente che può essere limitante per chi, ad esempio, è atea come la sottoscritta. La scelta di un titolo evangelico risiede nella bellezza del versetto di riferimento, un bellissimo invito che io e il gruppo abbiamo cercato di offrire a tutti.
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