Nel definire gli spazi della cultura Homi K. Bhabha parla di spazi inter-medi che costruiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé, che danno il via a nuovi segni di identità. Che ruolo ha la drammaturgia nella creazione di questi nuovi segni di identità? Quali sono i ruoli che contribuiscono all’operazione? Ne abbiamo parlato con Margherita Laera, autrice di La drammaturgia contemporanea in Europa – Una mappatura degli ecosistemi e delle pratiche (Franco Angeli, 2023) traduttrice teatrale e docente all’università del Kent.
Da cosa nasce questa necessità di parlare di drammaturgia contemporanea in Europa?
Dunque, la necessità nasce da un progetto sviluppato da Fabulamundi – Playwriting Europe: creare una mappatura dei vari contesti nazionali e regionali, approfondendo come gestiscono la drammaturgia contemporanea come la raccontano, come la fanno, quali risorse, quali sistemi ci sono alla base di queste pratiche e culturalmente, quali sono le attitudini. Tempo fa, come scrivo nel libro, mi sono presentata a Claudia Di Giacomo (responsabile del progetto Fabulamundi – Playwriting Europe ndr.) che mi ha parlato della ricerca che è alla base di questo libro, il mio tentativo è stato quello di implementare questo progetto e di renderlo un po’ mio, interpretarlo dal mio punto di vista, secondo quelle che sono le mie ricerche e i miei interessi di ricerca, di certo già molto allineati con la proposta di Fabulamundi.
Il punto di partenza è stato riscrivere le domande attraverso cui far scaturire il lavoro, successivamente abbiamo organizzato insieme come diffonderle, come ottenere i dati necessari. Il processo ha portato alla compilazione di un questionario, che è stato poi diffuso nei paesi europei coinvolti. Il passaggio successivo è stato rendere il questionario rappresentativo, tenendo presente la grande quantità di risposte provenienti dalle diverse realtà prese in esame.
Quindi, dopo un’attenta analisi dei dati per determinare la loro esattezza, ho sviluppato un metodo per garantire l’obiettività dei risultati del questionario. In molti casi, ho scoperto che i dati erano parziali, quindi ho coinvolto una rete di esperti sia dal mio network che da altri paesi. Attraverso interviste mirate, abbiamo ottenuto commenti e revisioni sui dati preliminari, simili a una peer review su un articolo scientifico. Questo processo ha arricchito e affinato ulteriormente il report, grazie alle conversazioni approfondite con gli esperti. Alla fine abbiamo ottenuto una comprensione più completa dei contesti coinvolti e abbiamo riscritto i report di conseguenza, raggiungendo così il risultato desiderato.
La distinzione tra ‘dramaturgy’ e ‘playwright’ che viene menzionata nell’introduzione al libro, può essere applicata anche ad altri contesti teatrali al di fuori dell’Inghilterra? E in che modo questa differenza influenza il ruolo e il lavoro del drammaturgo?
Sì, c’è una differenza sostanziale tra queste due pratiche, anche se vengono talvolta indicate con lo stesso nome. La scrittura drammatica, o playwriting, e la drammaturgia sono due ambiti distinti. La varietà delle lingue e dei loro termini è utile, in quanto consente di attingere a diverse sfumature concettuali da contesti differenti.
In molti paesi, come Germania e Repubblica Ceca, esiste una percezione ben definita di queste due figure e dei rispettivi ruoli. In Italia, ad esempio, non sono così codificate. Dipende da come si vuole organizzare il processo creativo e suddividere i compiti. Se quindi si fa spazio per queste due figure distinte, una si occupa di scrivere da zero, a grandi linee, l’altra si occupa di pensare il mondo, il viaggio dello spettatore rispetto al testo.
Il ruolo del dramaturg è culturalmente specifico e varia notevolmente da contesto a contesto. Ho recentemente partecipato al lancio di un libro che trattava il ruolo del dramaturg negli anni ’80 in Germania. Si trattava di una figura presente durante le prove teatrali, che stava lì e guardava e diceva a tutti quando sbagliavano, simile a un critico integrato nel processo creativo.
Questo tipo di figura non è molto diffusa nel Regno Unito, ma alcune compagnie teatrali utilizzano ciò che chiamano “embedded critic” o “friendly critic”, il ruolo viene chiamato così, ma viene anche chiamato drammaturgo e può essere inteso in tanti modi, ci sono tante opportunità. In Italia manca spesso una figura di drammaturgo che possa assistere la direzione artistica nelle scelte di programmazione e sviluppo dei progetti. La mancanza di tempo per leggere, commissionare e sviluppare le idee è spesso evidente e limita la crescita e la diversità del panorama teatrale italiano.
Perché il ruolo del dramaturg fatica ad essere delineato e a trovare spazio in Italia ma anche in altri paesi?
Penso sia una questione culturale, perché tutte le cose esterne faticano ad essere integrate in un contesto nuovo, ogni cultura funziona all’interno dei suoi codici e delle sue tradizioni e le tradizioni italiane non prevedono questo ruolo fino adesso. Ovviamente i tempi si evolvono, non ha però senso trapiantare o paracadutare una cosa che non è radicata in un contesto, pian piano se alcune realtà riescono a e vogliono fare avanguardia in questo senso, creando il cambiamento, magari potranno creare in questo senso una tendenza che verrà seguita, ma il sistema teatrale italiano non è tradizionalmente predisposto alla presenza di questo ruolo al momento.
l’Italia per una certa parte è molto esterofila, la figura del dramaturg non funziona però se non c’è un sistema a cui si può attaccare, ci può essere un dramma in un teatro in cui la direzione artistica decide che c’è, questo però non rappresenta una scelta sistematica.Questa è la mia versione di fatti, non è una cosa italiana al momento, in Italia ci sono diversi tipi di tradizioni. Oltre ad una resistenza culturale, c’è da considerare anche l’aspetto economico non essendo il dramaturg un ruolo assolutamente estremamente necessario, nel senso che il tipo di lavoro che fa viene spesso svolto da altri tipi di figure, diventa un lusso in qualche modo. La Germania ha moltissimi investimenti per la cultura e ha una tradizione, ovviamente in queste condizioni non si pone il problema, mentre in Italia bisogna crearla una tradizione, se si vuole coltivare la drammaturgia contemporanea.
In Inghilterra, questa tradizione è già presente poiché c’è un’attaccamento al testo molto più forte. Anche se, in termini di finanziamenti culturali, ci sono meno investimenti rispetto a Germania e Francia, dve ad esempio esiste un’organizzazione commerciale molto forte e un vasto pubblico, che promuovono scambi culturali. La selezione di testi e il supporto agli autori hanno un ruolo chiave nell’attività culturale di paesi, motivo per il quale il Regno Unito sostiene fruitori della cultura come quei posti come literary managers che non sono scrittori, ma spesso traduttori o editori. Questo sistema, quindi, pari i lavori retributivi e promozionali in modo relativamente equo.
Il sistema britannico sostiene la drammaturgia perchè c’è tutta una tradizione di commissionare testi e a quel punto molti autori si ritrovano sotto commissione e possono continuare a fare il lavoro che vogliono. C’è una grandissima attenzione di pubblico una grandissima attenzione di tutti i teatri alla nuova drammaturgia, questo da sempre. Anche lì si tratta di una tradizione. In Italia invece c’è una tradizione che non privilegia tanto il testo necessariamente, ma la presenza di un attore-autore che dirige le sue cose, un artista completo, c’è questa tradizione, che va bene, che però semplicemente non crea un’ecologia attorno alla drammaturgia.
Nel corso della tua ricerca sei riuscita ad evidenziare delle tematiche comuni, dei fili rossi che uniscono le drammaturgie europee?
Le tematiche a livello europeo sono tante, non ti saprei dire così su due piedi quali sono i trend anche perché variano tantissimo come variano le culture e i discorsi in ogni paese per esempio in Inghilterra si parla molto del cambiamento climatico, in Italia ho faticato a trovarne, però a livello europeo sicuramente ce ne sono tanti sul tema. Molti testi approfondiscono la questione dei migranti, della migrazione in generale, tema che viene abbastanza trattato anche in Italia e anche altrove. Ciò che cambia è la voce di chi ne parla, spesso l’accesso alla posizione di drammaturgo e di scrittore teatrale è limitata ai privilegiati quindi le tipologie di discorso sulla questione dei migranti variano molto rispetto da paese a paese. In Inghilterra ad esempio cambiano tantissimo le prospettive perché si parla di scrittori di background migratorio ma anche di global majority come, dico nel libro. In generale credo sia molto presente il tema degli incontri culturali e interculturali e la vita ai tempi del capitalismo. Altra questione è quella del ruolo della donna, questo è un tema che viene fuori molto.
Le grandi differenze però dell’Europa rispetto all’America e devo dire che parlo dell’Europa continentale sono stilistiche, non tematiche: come vengono affrontati certi temi questa è la vera differenza c’è una più ampia libertà e più varietà a livello europeo dal punto di vista stilistico di quella che troviamo nel mondo inglese o in America. La mia percezione è che gli scrittori teatrali negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito sono più legati alla storia vera e propria, a uno sviluppo drammatico, mentre dal punto di vista dell’Europa continentale c’è molto più grande apertura verso il post drammatico e quindi un uso del teatro molto più simbolico molto meno psicologico e, consequenzialmente, una più grande distanza tra il teatro, il cinema e la televisione. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un allineamento molto più ampio tra quello che si vede in tv e nel cinema e quello che si vede a teatro tant’è vero che gli scrittori cambiano media e continuano a fare un po’ di uno e un po’ dell’altro, ed è per questo che riescono anche a sopravvivere, questa è un’ecologia che funziona.
Come il tuo lavoro di traduttrice ha influenzato la ricerca?
La cosa più importante su cui mi fa riflettere la traduzione è la traduzione culturale, per me la parte più interessante è proprio quella. non mi limito a pensare che parola usare in un determinato contesto, ma penso come tradurre una frase in una maniera che renda, che abbia un effetto non equivalente a quello che aveva nell’originale. Come posso comunicare il senso dell’originale a un pubblico nuovo? E come posso reinventare, riposizionare la proposta dell’originale per un pubblico nuovo? E che senso ha? Sono tutte domande registiche, mi metto nei panni della traduttrice come se facessi una drammaturgia per un regista.
E ovvio che poi dopo sono molto rare le occasioni in cui io poi ho la vera opportunità di parlare con un regista che metterà in scena i testi che traduco,mi chiedo però quale sia il valore di ogni battuta in un nuovo contesto. Il centro per me quindi è parlare di contesti culturali, di trasformazione e dialogo culturale.
Nel libro, menzioni il ruolo del gatekeeper nel contesto teatrale. Durante un recente incontro del progetto Omissis, incentrato sulla drammaturgia, è stato discusso il potenziale di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto considerando che la drammaturgia è spesso la parte meno conosciuta dello spettacolo teatrale. Quali sono i modelli esemplari o azioni specifiche che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ruolo del gatekeeper nell’approccio al pubblico?”
Se intendiamo il gatekeeper come direttore artistico, in questo caso, anche lì si tratta tutto di una questione culturale, nel senso che in Italia si tende a privilegiare e a dare visibilità al regista, agli attori, ma agli scrittori no. Questa però è una tendenza europea, a livello europeo, per la maggior parte delle persone con cui ho dialogato, in Europa continentale, escludendo l’Inghilterra, la figura che ha più potere è il regista. Da una parte quindi si potrebbe parlare du regista come gatekeeper. Ci sono varie azioni che si possono compiere in questo senso. Bisogna prendere la questione da varie posizioni perché non c’è un singolo tipo di gatekeeper che può cambiare la situazione. Molte azioni, come i premi di drammaturgia, aiutano. Ovviamente non sono cose nuove, però creano più opportunità, più, a quel punto c’è più discorso rispetto alla drammaturgia. Altri gatekeeper da tenere conto sono i giornali e i critici.
Per cambiare le cose non basta solo cambiare i discorsi dei teatranti dall’interno, bisogna cambiare la percezione del pubblico. Quindi c’è necessità di pensare non solo alle webzine e agli approfondimenti critici di settore, ma alla grande istituzione, alla stampa, ai giornali. Cosa vede una persona qualsiasi aprendo il giornale? Cosa scrive il critico? Cosa mette in evidenza il regista, la scrittura? Per esempio in Inghilterra la visione del ruolo del drammaturgo per chi non fa parte del mondo teatrale è molto più sviluppata, perché se ne parla in genere, non perché se ne parla all’interno dei discorsi dei teatranti. Credo sia importante cercare di evidenziare per il pubblico chi è il drammaturgo. C’è necessità di più premi, più articoli, più discussioni, più insegnamento nelle scuole, su vari livelli bisogna moltiplicare i discorsi, con tutti, con il pubblico, con i bambini, con i critici, con la televisione, con i giornali, con le comunità più marginalizzate, con tutti quelli che possono avere benefici dalla scrittura teatrale.
È essenziale approfondire questa discussione, ma ci sono molte domande importanti da esplorare e non sempre abbiamo risposte definitive. Ad esempio, dobbiamo considerare quale tipo di collaborazione vogliamo instaurare con i registi: desideriamo un modello in cui lo scrittore ha un ruolo predominante, o preferiamo un approccio più equilibrato in cui entrambi sono considerati alla pari?
Non esiste una risposta universale a questa domanda, e non possiamo semplicemente adottare modelli stranieri senza valutarne attentamente le implicazioni. Prendiamo ad esempio il modello del Royal Court, in cui lo scrittore ha un ruolo centrale durante le prove e ha il potere di influenzare ogni singola parola fino all’ultimo momento. Questo approccio potrebbe non essere adatto a tutti i contesti e a tutte le opere.
È importante riflettere su quale direzione vogliamo prendere per lo sviluppo della drammaturgia, sia a livello sistemico che culturale. Al momento, credo che manchi un adeguato dibattito su questi temi e sulla loro rilevanza per il nostro futuro artistico.

Conducendo questo studio, mi sono imbattuta in diversi modi di intendere la pratica teatrale, e semplificati dalle diverse modalità in cui le varie culture linguistiche denominano l’arte di scrivere testi teatrali e concepiscono il ruolo del drammaturgo prima, durante e dopo le prove. L’inglese tra “playwriting” si traduce in “dramaturgie” in tedesco; “dramaturgie” in olandese, cieco e francese; “drammaturgia” in italiano; “dramaturgia” in spagnolo catalano, portoghese, polacco, rumeno, finlandese; e, naturalmente “δραματουργία” in greco. Per confondere ancora di più la situazione, la lingua inglese, presenta anche un altro termine, derivato dalla stessa radice greca, ovvero “dramaturgy”, riferito a un concetto che differisce ampiamente da ciò che la maggior parte dei madrelingua inglesi ora intende con “playwriting“, ma che tuttavia vi si avvicina abbastanza da generare confusione. Nel gergo teatrale inglese odierno i due termini non sono sinonimi, sebbene questa differenza non sia nota a un comune anglofono, a meno che non abbia legami con il teatro. Nel mondo anglofono “playwriting” indica l’arte di scrivere testi teatrali originali, sia che si basano su una vicenda nuova sia che siano adattati a partire da una fonte preesistente, mentre “dramaturgy” è l’arte di organizzare e comporre storie destinata una performance, partendo da testi già esistenti ma anche senza basarsi in alcun modo su un testo. Come sostiene Theresa Lang “dramaturgy” consiste nel “curare un’esperienza destinata un pubblico” (Lang 2017:7) mentre un “dramatist” fa lo stesso lavoro di un “playwright“, un “dramaturg” (parola presa in prestito dalla lingua e della cultura teatrale tedesche” lavora con i testi per il palcoscenico o con la struttura della narrazione nel corso dello spettacolo, spesso dando consigli un regista, ma non è necessariamente l’autore “originale” del testo messo in scena. Tuttavia ,nella maggior parte delle lingue europee, entrambe le pratiche playwriting e dramaturgy sono coperte dal termine derivato dalla radice composta greca -drama che significa “dramma” e ourgìa “fare/creare/plasmare”.

Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.