Un’anziana coppia calabrese ha deciso di trascorrere sulla spiaggia una giornata molto speciale. Sotto un ombrellone di paglia il silenzioso Ferdinando Lagonìa, interpretato da Giovanni Ludeno, e la ciarliera moglie Marisa, l’esilarante personaggio di Francesco Colella, vedono il mare lì dove si affollano le teste di spettatrici e spettatori dello Spazio Diamante e, con lo sguardo rivolto a quelle onde immaginarie, mettono in scena la comica agonia quotidiana di due vite sfortunate giunte quasi al termine.
Nomen omen, o almeno così sembrerebbe, l’esistenza che emerge dai discorsi sotto l’ombrellone di Marisa e Ferdinando appare da subito piuttosto misera. La donna ha perso l’uso delle gambe per il peso eccessivo che non è mai riuscita a perdere, nonostante gli sforzi, e il marito è costretto ad accudirla obbedendo in silenzio a questa moglie all’apparenza tirannica, mentre nella sua testa fantastica sulle ragazze che posano nei giornaletti porno che tiene nel mobile a casa. La loro appare all’occhio esterno del pubblico proprio come una di quelle relazioni che si tiene in piedi per consuetudine, uno di quei legami indeboliti da cui l’amore è scomparso ormai da tempo. Quando il signor Lagonìa accenna a strangolare sua moglie, addirittura, si è portati a pensare che la drammaturgia di Francesco Lagi abbia preparato con ironia cinica la sala alla rappresentazione di un caso di violenza domestica o comunque che l’intento dello spettacolo sia la denuncia della tossicità di certi ambienti familiari.
Ma lo spettacolo della compagnia teatrodilina non è niente di tutto questo. Fra un’imitazione di Gianni Morandi e qualche battuta che riemergono da un repertorio che la coppia condivide da cent’anni, fra le piccole gelosie del passato e i ricordi dolorosi che li uniscono, il ritratto psicologico dei personaggi diviene scena dopo scena meno macchiettistico, più umano, più reale nella sua assurdità. La ripetitività delle loro interazioni non è altro che abitudine alla cura reciproca, le urla nascondono il timore di guardare alla sofferenza estrema di chi si ama, la malinconia opprimente allude alla tragedia che i signori Lagonìa hanno programmato per quella sera, quando il sole calerà sul mare.
La tensione della sala raggiunge più volte il picco per poi distendersi qualche secondo dopo, ogni risata nasconde una tragedia e ogni tragedia una risata: è una montagna russa che non dà pace, che non lascia mai il tempo di riprendere fiato. La drammaturgia compone un quadro con le simpatiche sciocchezze della vita quotidiana in cui ciascuno per un motivo o per l’altro riconoscerà se stesso e la propria famiglia e, quando si ha l’impressione che la normale conclusione non possa essere che il nichilismo, l’inutilità del dolore che nessuno riesce a curare e che non ha riscatto nemmeno nella morte, è proprio allora che il vero significato dello spettacolo viene svelato: è il mistero dell’amore imperfetto che trova nei dubbi la sua forza e che permane, dell’affetto che restituisce luce e bellezza, cancellando ogni miseria anche quando tutto sembra perduto.
Se lo spettatore ha avuto il coraggio di ascoltare, di entrare nella vita di questi due anziani innamorati, di ridere con loro e non solo di loro, si ritroverà travolto dalla speranza e dalla potenza dei sentimenti che forse considerava sopita nella prima adolescenza e che ora crede di poter tornare a vivere un giorno nella vecchiaia.

Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.