Sarte di Scena e tecnici teatrali, lavori indispensabili di lavoratori inesistenti

Gen 25, 2021

Sarte

Paola Landini, diplomatasi ragioniera, ha subito vissuto in controtendenza il nostro mondo e la nostra società. Non ha infatti preso in considerazione i consigli dei genitori di un “lavoro sicuro”, iscrivendosi al corso di Progettazione di Costumi per lo Spettacolo dell’Università di Firenze. Dal 2008 in poi ha cominciato a tessere la sua trama del suo lavoro, entrando nelle sartorie dei teatri italiani, accompagnando artisti in tournée e collaborando nei numerosi festival, che ormai sembrano solamente un timido e sbiadito ricordo.

In questa intervista Paola Landini racconta il collettivo Sarte di Scena, che fin dal primo lockdown si è distinto per attivismo e mutua assistenza all’interno della categoria dei tecnici teatrali, molto colpiti dalla pandemia e dalla crisi sociale in atto.

Come nasce il collettivo Sarte di Scena e quali sono le rivendicazioni che portate avanti?

Il movimento è nato come gruppo Whatsapp tra colleghe e colleghi per condividere informazioni, scambiarsi proposte e idee. Da marzo, con il blocco di tutte le attività incluse quelle teatrali, il nostro lavoro si è improvvisamente azzerato, per tutti noi, dato che siamo in percentuale altissima lavoratori a tempo determinato, a partita iva o con contratto di lavoro intermittente.

Da un momento all’altro ci siamo ritrovati senza aver nessun lavoro, con contratti scaduti e che non sono più stati rinnovati; da quel momento è partita la necessità di allargare il gruppo a sempre più persone e conoscenti o colleghi di lavoro di tutta Italia, per sostenerci e darci una mano a vicenda e destreggiarci tra sostegni al reddito, i pochi lavori disponibili, i sindacati, l’Inps e in generale tutta questa situazione. Da 15-20 persone ora siamo arrivati a essere quasi 80 tra sarte e sarti; in più grazie ai social riusciamo a comunicare e interagire anche con altri gruppi di categorie di lavoro.

Da gruppo di condivisioni di esperienze positive a una comunità e a un collettivo di mutua assistenza e di lotta

Abbiamo colleghe e colleghi sparsi in quasi in tutte le regioni, così riusciamo ad avere un quadro complessivo di quello che succede e di quello che è successo anche a livello nazionale, in teatro, cinema, televisione e pubblicità. Collaboriamo anche con altri gruppi con cui stiamo cercando di farci sentire e, ad esempio, il 10 dicembre siamo riusciti ad arrivare al tavolo del Mibact insieme ad altri 83 movimenti.

Continuiamo a collaborare con loro e, il 6 gennaio a Milano, abbiamo dato vita a una manifestazione, Cultural Mass, in cui abbiamo chiesto il supporto anche al mondo della cultura e della scuola, altri 2 settori molto sacrificati in questo periodo.

La tua categoria è stata molto colpita come tutte quelle dei lavoratori della cultura, quale pensi sia il vulnus, il vero punto debole da risolvere?

Il problema è che la maggior parte dei lavoratori della nostra categoria è precaria. Il problema però è sistemico; il mondo del lavoro negli ultimi anni è diventato sempre più precario, aleatorio e nel mondo della cultura e dello spettacolo, dove si lavora per allestimenti o progetti, è ancora più difficile dare una stabilità al lavoratore. Prima della pandemia, nel 2019 il Mibact si era attivato per allargare le piante organiche dei teatri, dopo che dal 2005 era tutto fermo. Da quell’anno raramente si era sostituito chi era andato in pensione. 

Quella era veramente una grande opportunità per il nostro settore, attraverso i bandi di concorsi pubblici per assumere personale a tempo indeterminato, ma poi è arrivata la pandemia e ha sotterrato tutto. Pochissime sono state le assunzioni nel 2019 con questo sistema. Ad oggi nessun teatro ha idea di prendere a tempo indeterminato qualcuno nel nostro settore, perché è molto più comodo e facile averci precari. A noi in parte la precarietà andava anche bene, perché questo ci dava l’opportunità di lavorare ovunque, in qualsiasi produzione, sempre con la valigia in mano, ma quando cominci a salire con l’età diventa difficile questa vita “nomade”. 

Stiamo lottando molto per far sì che vengano fatti almeno dei contratti stagionali, ma adesso, dopo la pandemia vorrebbero ricorrere ai contratti intermittenti, precarizzando ulteriormente questo mondo. Questa cosa è orribile e noi ci stiamo ribellando in tutti i modi, attraverso sindacati e avvocati privati, persino rifiutando quei pochi lavori che ci vengono offerti in questa modalità. 

E i sindacati?

In alcuni casi c’è collaborazione, mentre in altri c’è corporativismo, tutelando il lavoratore a tempo indeterminato e non il precario e questo è stato ammesso anche da alcuni livelli nazionali. Non voglio in alcun modo generalizzare, perché ci sono anche realtà sindacali che si battono per tutti i lavoratori, indistintamente dalla loro forma contrattuale, ma è innegabile che questo sia un grande problema, ci sentiamo abbandonati e a volte costretti a rivolgerci a privati anche quando non vorremmo.

Anche all’interno del teatro è difficile farsi aiutare; storicamente, nel campo del teatro lirico, ci sono delle categorie, come quelle del coro o dei musicisti, indubbiamente più forti che riescono a far valere le loro ragioni molto di più rispetto ai tecnici o ancor meno a noi sarti e costumisti. Alcune volte ci sentiamo trattati come niente, lasciati completamente da parte, quasi invisibili.

I lavoratori invisibili, il caso della Fondazione dell’Arena di Verona…

Come quando nel corso dell’anno appena terminato, la Fondazione dell’Arena di Verona ha fatto scoprire attraverso i giornali a 600 dipendenti stagionali, tra cui la sottoscritta che lavora lì da 10 anni e altri addirittura da 25, che quell’estate non avrebbero lavorato. Non c’è stata nessuna comunicazione scritta, neanche via email da parte della Fondazione, poiché essendo assunti ogni anno da aprile a settembre, formalmente noi non siamo loro dipendenti, per cui loro non avevano nessun obbligo di comunicazione nei nostri confronti. È stato veramente orrendo, nella sostanza ci hanno detto “voi non esistete”. 

In questo caso i sindacati hanno fatto la loro manifestazione nella mattinata, mentre i lavoratori autorganizzati ne hanno avuta un’altra nel pomeriggio. Ecco, quello che manca è una collaborazione tra queste due forze che vogliono la stessa cosa, così come per i sindacati di base. Noi sarte di scena ci siamo poste anche l’obiettivo di far collaborare i lavoratori teatrali, i sindacati confederati e quelli di base, per poter andare in un’unica direzione e trovare una soluzione, ma è molto difficile. Esistere, lavorare ed essere invisibili. 

Si parla molto di ItsArt, la Netflix della cultura proposta dal ministro Franceschini, cosa cambierebbe per il vostro settore, come vedete questa proposta?

ItsArt è ancora in costruzione, con un indirizzo email a cui puoi mandare la tua idea di spettacolo. Non c’è scritto chi può inviare cosa, non ci sono requisiti o criteri né tanto meno alcuna spiegazione. Dal mio punto di vista, se il Ministero fa una proposta simile dovrebbe avere un progetto forte, un’idea concreta e definita; ad ora invece sembra un contenitore vuoto dove tu puoi inviare delle “cose”.

Come Sarte di Scena faremo un’assemblea a proposito su quest’argomento e invieremo una richiesta di maggiori informazioni all’indirizzo email di ItsArt, chiedendo quali sono i criteri di ammissione e quali sono i vantaggi che ne trarrà la categoria, perché il ministro Franceschini fino ad ora non lo ha mai spiegato. 

In questa operazione, poi, non si pensa alle piccole compagnie che si chiedono se valga la pena investire denaro per uno spettacolo che non possono svolgere in un teatro, né portarlo in tournée. Potranno inserirlo su questa piattaforma ma per guadagnare quanto? E se nessuno lo compra? La scelta della piattaforma poi sembra voler andare nella direzione di accontentare maggiormente un pubblico straniero piuttosto che quello nazionale e questo non è accettabile.

Per quanto riguarda l’idea dello streaming, attivo in Italia già da diversi anni attraverso siti web, piattaforme regionali e la Rai, per noi è da utilizzare in contemporanea con lo spettacolo dal vivo, perché banalmente uno spettacolo caricato in rete toglie alle maestranze giornate lavorative, potendo andare in onda illimitatamente. 

In teoria esiste un contratto nazionale che regola lo spettacolo in streaming e il pagamento delle persone, perché, sempre in teoria, dovresti essere pagato di più data la sua infinita replicabilità. In realtà questa cosa non viene mai applicata e quindi i lavoratori percepiscono la paga dei giorni in cui lavorano effettivamente e basta.

Questo è un altro problema anche perché molti teatri in questo periodo hanno deciso di non mandare nulla in streaming, ricevendo ugualmente i finanziamenti. Le Fondazioni Lirico Sinfoniche ad esempio, non avendo gli obblighi di rendicontazione del FUS, hanno messo in piedi solamente qualche concerto, eliminando totalmente la parte tecnica e quindi noi sarti, costumisti, scenografia, trucco e parrucco, che non abbiamo più lavorato. 

Per conoscere un po’ meglio il tuo mestiere ti chiediamo, secondo te, è l’abito a fare il monaco o il contrario? Quanto conta l’abito di scena ai fini dell’interpretazione attoriale, quanto conta per il pubblico?

L’abito, insieme al trucco e parrucco, conta tantissimo per far entrare l’artista nel personaggio, dobbiamo saper ascoltare, capire la personalità di chi si ha davanti, oltre all’aspetto fisico. La sarta, possiamo dire, ha un compito psicologico, perché oltre a mettere in misura il costume, deve anche capire se quell’abito è adatto a quella determinata corporatura o fisionomia, se l’artista si sente a suo agio, se gli calza bene, deve capire come riuscire a fargli esprimere al meglio il suo personaggio anche attraverso quel costume. Quello del costumista e della sarta è un lavoro complesso e di raccordo tra il mondo attoriale e quello della scenografia

Cosa ne pensi della scena dei costumi contemporanea? Quali sono i grandi orientamenti stilistici?

Ti parlo del mio campo maggiore che è la lirica: fino a poco tempo fa si utilizzavano sempre costumi d’epoca. Adesso, anche un po’ per risparmiare e non solo per avanguardia, si tende a fare degli spettacoli moderni. Poi ci sono compagnie, come la Fura dels Baus, che attuano un misto tra storico, moderno e video, ma quella è una categoria a parte. La Fura dels Baus crea spettacoli molto costosi, hanno delle idee innovative che hanno applicato ad esempio alla tetralogia di Wagner o all’Aida moderna e innovativa andata in scena all’Arena di Verona. 

È difficile abituare il pubblico italiano a questa visione moderna perché nei nostri teatri sono molto diffusi gli spettacoli in costume storico e anche lo spettatore straniero che viene dall’estero a vedere Aida, ad esempio, non vuole sperimentazioni, perché l’Italia rappresenta la storia del genere. Il moderno in Italia, fatto per avanguardia, fa ancora fatica a prendere piede, anche perché necessita di molti investimenti.

Cosa ne pensi delle opere teatrali vestite da grandi case di moda, è solo occasione di business o reale partnership di valore?

Secondo me sono operazioni di business, come quando nei musical si chiamano nomi televisivi per fare pubblico. Nell’ambito lirico, ad esempio, è più difficile che un cantante famoso lo sia anche in televisione; dei casi possono essere Grigolo o Bocelli.

Chiamare Valentino a Roma per LaTraviata o Dolce & Gabbana alla Scala per la prima di quest’anno, per me è un’operazione di marketing. Raramente infatti succede che la casa di moda faccia confezionare i costumi alla sartoria del teatro, ma arrivano già pronti dal proprio atelièr o dalla propria azienda. Sicuramente queste collaborazioni portano risalto cercando così di conquistare nuove porzioni di pubblico. 

Qual è la produzione o l’esperienza artistica che più ti ha segnato professionalmente e che ricordi con particolare emozione?

Sicuramente la mia prima esperienza è stata quella più segnante, nel 2008 subito dopo essermi laureata ho avuto la possibilità di entrare in un festival itinerante di lirica che girava tutta la Toscana durante l’estate e quell’impiego, sottopagato, in cui lavoravo tantissime ore al giorno è stato talmente bello, che non ho più potuto smettere. Quindi piano piano, mandando curriculum un po’ ovunque e facendo crescere la mia rete di contatti ho iniziato a girare diversi teatri e a lavorare anche 10 mesi l’anno, ovviamente non tutti nello stesso posto.

La mia ultima grande emozione è stata a fine ottobre, quando i teatri erano ancora aperti. Siamo riusciti, da Milano, con una compagnia ad andare una settimana in tournée in Toscana, portando Opera Panica di Jodorowskij, con regia di Fabio Cherstich. Era la prima volta che tornavo a lavorare dopo marzo. Il giorno del debutto, all’applauso del pubblico, gli attori sono andati in ribalta e io sono scoppiata in lacrime per l’emozione senza riuscire a fermarmi, senza riuscire a capire perché; in quel momento non riuscivo a spiegarlo. In realtà piangevo perché ero tornata a vivere l’emozione per cui ho scelto veramente questo lavoro.

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