Articolo a cura di Mila Di Giulio
La programmazione al chiuso del Teatro Arena del Sole di Bologna ricomincia all’insegna di un allestimento dicotomico e affascinante: Romeo and Juliet. Melo – Drama di Teodoro Bonci del Bene, produzione ERT Emilia Romagna Teatro, in scena dal 10 al 20 Settembre. Il regista, giovane e dalla formazione insolita (è infatti il primo allievo italiano del Teatro d’Arte di Mosca) porta, nella sua versione della tragedia shakespeariana, uno sguardo attento e critico alla drammaturgia originale, sulla quale innesca la propria visione.
Di fronte a un nuovo allestimento di Romeo e Giulietta una domanda sorge spontanea: cosa si può aggiungere a quella che è forse la più incastonata nell’immaginario comune delle opere shakespeariane? Proprio da questa riflessione parte lo spettacolo: nel prologo iniziale il dilemma viene palesato e allo spettatore viene chiesto apertamente quale sia la ragione di tornare a vedere una storia che si conosce già. La novità più importante del lavoro di Teodoro Bonci del Bene forse è proprio questa: Romeo and Juliet è una messa in scena che ascolta non solo le esigenze del pubblico, ma anche quelle dei suoi protagonisti.
Romeo e Giulietta vengono liberati da una certa fissità iconica, con cui spesso vengono ritratti e investiti di tutte le fragilità violente dell’adolescenza. Il regista plasma i suoi personaggi portandoli nella contemporaneità, senza però privarli della grazia senza tempo del verso shakespeariano e realizzando una spassionata dichiarazione d’amore per l’età adolescenziale e i suoi congeniti chiaroscuri. In un allestimento in cui il focus è sulla tragicità di Giulietta, vengono sollevati drammi nuovi del personaggio, tutti i fantasmi e le paure che rendono giustizia all’eroina tridimensionale plasmata da Shakespeare.
Lo spettacolo viene definito melo-drama: le scelte musicali accompagnano la messa in scena, raccontano le intenzioni dei personaggi. E lo fanno attraverso i suoni scanditi, autentici dei vinili, scelta suggerita al regista dalla sua adolescenza, da una certa estetica anni ’90 che fa parte del suo immaginario, ma che inevitabilmente travolge lo spettatore, indipendentemente dalla sua età anagrafica.
Utilizzando in maniera disinvolta la specificità dei codici espressivi presenti in scena che si intrecciano costantemente senza sovrastarsi, in una messa in scena essenziale, il regista dipinge tre differenti generazioni di adolescenti. In scena Carolina Cangini, Jacopo Trebbi e lo stesso Teodoro Bonci del Bene che in questa intervista racconta Romeo and Juliet. Melo – Drama.
Fra gli aspetti più interessanti dello spettacolo emerge sicuramente la sensazione che la storia sia realmente raccontata dal punto di vista di due adolescenti e che, al tempo stesso, la sua realizzazione risulti accattivante per un pubblico di giovanissimi. Come si arriva a raccontare gli adolescenti attraverso i loro occhi?
Nel momento in cui ho deciso di lavorare su Romeo e Giulietta la scelta è caduta su questo testo proprio perché mette a tema l’adolescenza e alcuni traumi e conflitti tipici di questa fase della vita. Ho subito chiesto al teatro di mettermi in contatto con una classe, volevo che fosse una classe e non dei ragazzi singoli, perché non mi sarebbe corretto parlare di loro senza interpellarli.
Sentivo il bisogno di guardarli meglio e fare un percorso con loro. Loro sono depositari di una serie di codici ed informazioni che a noi sono oscure, inaccessibili, sono dei geroglifici. All’interno dello spettacolo ci sono tutta una serie di cose che la classe del Liceo Galvani di Bologna, ha fatto con me ed è entrata nello spettacolo, sto parlando di alcune battute dello spettacolo, quando gli adolescenti vedono che noi parliamo di loro con cognizione di causa, non perchè ho voluto dare una semplice soddisfazione agli alunni.
Parlando dell’utilizzo dei mezzi tecnologici, c’è una sorta di antitesi/connubio tra digitale e analogico. Cosa racconta questa scelta?
È nato tutto in maniera nebulosa, è andato definendosi progressivamente, ma tutti gli elementi in scena erano presenti già dal primo momento di ideazione, perché l’antitesi è in qualche modo la cifra di questo lavoro. Il giradischi appartiene alla mia adolescenza, è legato allo stereotipo di dj depositato nella mia memoria, mentre l’elemento digitale appartiene alla generazione di adolescenti di adesso.
Per quanto riguarda gli attori in scena: quanto c’è di autoriale nel loro lavoro in questo spettacolo?
Gli attori di questo spettacolo sono persone con cui lavoro da molto tempo, quindi ho cercato di immedesimarmi nel loro modo di pensare. In questo lavoro non c’è improvvisazione, ogni singola posizione sul palco è scandita da un piccolo pezzo di scotch sul palco che indica, in quella scena, dove deve stare l’alluce del piede destro in modo da dover dare un certo tipo di tre quarti del viso. Un lavoro maniacale che non lascia spazio all’improvvisazione.
A proposito dell’operazione sul testo con Gerardo Guccini, come si è strutturata questa collaborazione?
Gerardo mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto leggere molto, mi ha fatto comprendere non solo in maniera teorica, ma anche pratica come Shakespeare sia arrivato a Romeo e Giulietta, ovvero attraverso una stratificazione di testi e scritture che partiva da molto prima. Queste letture, a tratti quasi spiacevoli, hanno permesso di guardare i personaggi di Romeo e Giulietta da altre angolazioni e di smitizzare la faccenda, di riportare tutto su un piano più concreto, mettendo in risalto come l’operazione di Shakespeare sia prima di tutto di carattere poetico.
Si parla della lingua, del verso, della bellezza della lirica amorosa messa in bocca a degli adolescenti che si sposano di nascosto. Dove invece le fonti precedenti a Shakespeare partono dicendo che Romeo e Giulietta hanno avuto una giusta morte “perché si sono abbandonati a passioni basse e lascive, aiutati dai malevoli consigli di adulti intriganti” la storia è la stessa, il giudizio cambia. Allora mettere in bocca a dei ragazzini, che vanno contro la famiglia, delle parole meravigliose mi ha permesso di capire che il verso doveva essere esaltato e che c’era la possibilità di riportare tutto su un piano molto concreto.
La presenza sul palco del regista è quella di un personaggio un po’ ibrido, un po’ Romeo, un po’ burattinaio degli eventi. È una scelta che è arrivata subito o in corso di lavorazione dello spettacolo?
Non volevo nascondere il backstage, anzi avrei voluto ancora più “tecnica” sul palco. C’è questa dimensione di un dentro e di un fuori, la tecnica non può che essere tutta vista, io sono innamorato del dietro le quinte e secondo me il backstage è un momento molto affascinante, anche per il pubblico giovane di cui sopra, sicuramente uno dei riferimenti che io spero di vedere a teatro.
Viviamo in un tempo molto voyeuristico, dunque la dimensione di poter spiare qualcuno mentre realizza davvero qualcosa nella mia idea avrebbe potuto agganciare il pubblico e creare un elemento di interesse. Volevo mettere in primo piano assoluto Giulietta, perchè in tutti i Romeo e Giulietta, Romeo prevale sempre e fa sempre un po’ di più una bella figura.
Riguardo alla tua formazione al Teatro d’Arte di Mosca, cosa ti porti dietro dell’esperienza russa e cosa la scena contemporanea italiana può rubare alla Russia e viceversa?
Quello che mi porto in prova sono delle cose che affiorano alla memoria in un modo difficile da definire, alcune suggestioni semplici, accanto a riflessioni poco traducibili e spiegabili: ad esempio, un certo tipo di atteggiamento da assumere nel momento in cui un personaggio dà una notizia, la capacità di aspettare che il compagno di scena interiorizzi la notizia, la reazione non deve essere intenzionale, ma deve scaturire dall’ascolto. L’importanza di non essere in contatto con la tua idea del personaggio e dell’opera e l’idea che l’attore non è un vettore che ritorna a sé stesso ma che tutti i vettori colleghino le persone sul palco e poi il palco e la platea.
La scena italiana può rubare alla Russia il lavoro sull’energia, per cui la scena contemporanea ha sempre vinto sul teatro tradizionale. Le grandi avanguardie del novecento, sono portatrici di un’energia, di un motore interno che scalda il pubblico, ho avuto modo di lavorare in accademia quasi esclusivamente sull’energia, in un ambiente in cui le note a fine spettacolo non riguardano appunti tecnici, ma la capacità di instaurare un dialogo energetico con il pubblico, e questo è ciò che spero di riuscire a portare sul palco.
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