Articolo a cura di Virginia Veltri, vincitrice della sezione Artista contemporaneo vivente dal secondo Novecento in poi di DANCE REWRITE – Bando di giornalismo e ricerca promosso da Campadidanza Dance Magazine, in mediapartnership con Theatron 2.0.
L’arte è accompagnata da definizioni postume o prossime, la società classifica per intendere il fare dell’uomo, mettere ordine all’ignoto. Si parla oggi di flamenco contemporaneo, ben distinto dalla tradizione, quando la creazione artistica non risponde allo script, quel sapere performativo implicito, ciò che l’occhio è abituato a vedere, l’orecchio assuefatto ad ascoltare. In questo terreno incerto la bailaora Rocío Molina (Malaga, 1984) opera con irriverenza e convinzione, una delle artiste spagnole più conosciute a livello internazionale. Durante una danza, nel programma televisivo Ted Madrid (2017), affermava: «Yo no evoluciono, yo soy»; distaccandosi da ogni etichetta.
Rocío Molina è una danzatrice e coreografa capace di portare il corpo oltre il suo limite, sperimenta il pensare-in-movimento, nel quale tradizioni, esperienze stratificate emergono. La sua danza dona allo sguardo l’hic et nunc di una ritualità performativa che si radica nello sradicare certezze, quel terreno instabile in cui è la body knowledge a dirigere il movimento, non solo codici precostituiti.
Molina si forma al Real Conservatorio di Danza di Malaga, a ventisei anni il Ministero della Cultura spagnolo le conferisce il Premio Nacional de Danza per il suo approccio innovativo al flamenco. Vincitrice di tre Premi Max De las Artes Escénicas, del UK National Dance Award 2019 come migliore danzatrice contemporanea, ma non sono le lodi a definirla. Molina afferma che un premio può essere casuale, un applauso temporaneo, i dolenti calli ai piedi sempre veri; neppure un dibattito fra tradizione e innovazione del genere permette di comprenderne l’arte: è attraverso un discorso mediale sul corpo che si entra nella sua pratica.
Rocío Molina sperimenta una fisicità che si nutre dello spazio abitato, dal 2010 nasce il progetto Impulsos, prove aperte a contatto con il pubblico, uno scambio esperienziale con artisti invitati. Nell’Impulso il corpo è medium, il flusso scorre incostante, appare il virtuosismo ma anche ciò che non funziona. Un’idea non del tutto innovativa, definita all’Avanguardia, se non fosse che questa è già passata, non flamenca, per gli addetti ai lavori ma forse più tradizionale di molti, nella sua voglia di proporre il flamenco come performance, rito che dalla soggettività arriva alla collettività. Un corpo politico quello di Molina, che in Grito Pelao (2018) interroga il suo desiderio di essere madre solitaria, donna e artista: decide così di sottoporsi a inseminazione artificiale, lasciando scorrere nel suo corpo un doppio processo, modificando la danza in scena attraverso la vita che cresce nel corpo d’arte.
In Caída del Cielo (2017) sperimenta il flamenco come espressione libera, viaggio di una donna dall’equilibrio alla caduta, forme estreme, materiali e costumi usati come protesi, empowerment emozionale. È attraverso la Trilogía sobre la Guitarra, presentata come estratto nella XXI Bienal de Flamenco de Sevilla (2020), che Molina desidera la quiete, è ormai madre, dopo la “creazione” cerca la dolcezza del gesto e dell’immagine. Le sue mani si muovono come antenne, il suo zapateado è contenuto, mossa da un gioco spaziale armonico, in cui il suono della chitarra regna sovrano e fa vibrare il corpo.
Se il fatto teatrale si esplica in una moltitudine di interazioni, Molina percorre quella tradizione dell’uomo che permette l’identificazione del sé, in una relazione contrappuntistica con l’altro, oltre ogni forma precostituita. Il flamenco di oggi muta attraverso l’esperienza della materia corpo, a partire dalle identità stratificate dei suoi artisti.
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