«Occorre risvegliare l’esigenza di instaurare un rapporto profondo con le cose». Il Mondo Guarattelle di Bruno Leone

Giu 15, 2022

In Vico Pazzariello, nel cuore del centro storico di Napoli, sorge un luogo che ha preservato l’autenticità della sua missione. Un presidio culturale che resiste alla gentrificazione e alla violenta morsa del turismo.
Si tratta della Casa Guarattelle di Bruno Leone, maestro guarattellaro, che da 45 anni porta i suoi burattini per le strade del mondo alla ricerca dell’incontro, mostrando a grandi e bambini la capacità trasformativa del teatro. 

L’improvvisazione, escamotage che ha consentito ai maestri burattinai di sovvertire i giochi di potere e denunciare ingiustizie e corrosioni sociali, scorre sulla punta delle dita di Bruno Leone, che vestendo come un guanto i suoi personaggi affronta l’attualità con onestà e coraggio. Al novero dell’arte di tradizione cui sono ascritte le Guarattelle napoletane, Leone preferisce una definizione che meglio ne rappresenta l’energica vitalità: “Mondo Guarattelle”, una riserva di vita, in costante evoluzione, da cui attingere a piene mani. Leone non rinnega le difficoltà che questo mestiere cela nel confrontarsi con una società mutata, distratta, sempre meno predisposta all’incanto. Eppure un antidoto esiste ed è offerto proprio dal teatro : risvegliare la capacità di instaurare una relazione profonda con le cose che ci circondano.

Ne abbiamo parlato con Bruno Leone, ospite della 39° edizione del Festival La Macchina dei sogni di Palermo, organizzato dalla Associazione Figli d’Arte Cuticchio.

“Mondo Guarattelle” è la definizione che hai scelto per la tua arte. Da cosa deriva questo modo di intendere le Guarattelle, perché credi sia più calzante dell’idea di tradizione?

Deriva dalla convinzione, nata dall’esperienza, che il Teatro di Guarattelle sia un mondo con una vita propria e da cui poter attingere. Quello di Mondo è un concetto più profondo di Tradizione perché va oltre ciò che si conosce, è qualcosa da scoprire. 

Per questo la parola tradizione diventa fuorviante: per tradizione si intende solo una parte del repertorio, che è fondamentale, ma se si entra in un rapporto dialettico col mondo esterno, possiamo farci sconvolgere continuamente dalle novità, afferrando numerosi e diversi stimoli. 

Più che mai sto vivendo questa sensazione nell’ultimo periodo e ogni volta che faccio uno spettacolo diventa uno spettacolo nuovo, non solo nell’improvvisazione ma anche nelle sequenze e nella storia. Perché è come se questa idea di mondo si fosse concretizzata e cominciasse a prendere forza.

In una società con ritmi sempre più frenetici, anche l’attenzione dello spettatore va calando vertiginosamente preferendo sempre più forme di intrattenimento digitale e con tempi ristretti. Le Guarattelle, teatro di piazza, teatro che costantemente cerca l’incontro con lo spettatore, come risponde a questo cambiamento?

Quello che dici è vero: il pubblico, soprattutto quello di strada, è disattento, vuole cose brevi, immediate. Ci sono burattinai che eroicamente continuano a fare lavori di strada guadagnando veramente molto poco.
Credo che il problema risieda nel fatto che le persone non si fanno più incantare.
Il teatro dei burattini non vive il trauma della riduzione temporale degli spettacoli, perché il linguaggio dei burattini è essenziale, tende a dire in poche parole quello che in altre forme di spettacolo necessita di più tempo.

Per accendere la curiosità e attirare l’attenzione dello spettatore, prima che lo spettacolo inizi bisogna creare il luogo dove avviene la magia. La gente deve sapere che lì sta avvenendo qualcosa di straordinario, allora sarà disposta ad aprirsi e a farsi incantare. Occorre risvegliare l’esigenza di avere un rapporto profondo con le cose, di liberarsi dalle trappole sociali che nascondono il proprio essere. Siccome le trappole sono molto forti e ben congegnate, l’impresa diventa più complessa, ma non impossibile. Una delle funzioni del teatro è proprio questa. Me ne sono reso conto aprendo a Napoli uno spazio stabile, la Casa Guarattelle, e abitando artisticamente la strada adiacente. Venire qui, significa scegliere di farsi sorprendere. 
Una funzione fondamentale in questo processo ce l’hanno i bambini perché nascono liberi e riescono a relazionarsi in maniera naturale con gli avvenimenti. La loro presenza aiuta moltissimo il pubblico adulto a entrare nella logica dello spettacolo.

Le Guarattelle sono uno spettacolo anarchico, votato allo svelamento delle ingiustizie e al rovesciamento del potere. Tra i tuoi spettacoli più celebri molti toccano questioni sociali della contemporaneità. Qual è il tuo approccio a questo tipo di lavori? 

Solitamente è la realtà che impone le tematiche, non sono io a sceglierle aprioristicamente. 
Della guerra mi sono occupato fin dalla prima guerra in Iraq, un argomento che purtroppo non ha mai smesso di essere attuale. La guerra in Iraq cominciò il 16 gennaio 1991, il giorno prima di Sant’Antonio Abate, che segnava l’inizio delle mie manifestazioni sul Carnevale, ma i primi spettacoli furono annullati. Quando arriva la guerra sembra che non si possa più ridere. 

Trovo interessante il modo in cui Pulcinella affronta la guerra, in maniera mai ideologica. Ad esempio, in un mio spettacolo Pulcinella vuole la pace ma, secondo un criterio opportunistico, si allea con i più forti. Fui invitato a una manifestazione per la pace in cui erano ospiti diversi artisti napoletani e molti si chiedevano come avrei fatto a parlare della guerra attraverso Pulcinella, un personaggio amatissimo dai bambini. Proprio quando dovevo andare in scena mi venne un’idea: i nemici di Pulcinella muoiono uno dopo l’altro prima che possano combattere. La morte spazza via tutto e segna una drammatica rinascita.Arriva al pubblico un messaggio fortissimo, che lo raggela perché gli fa toccare con mano le vere conseguenze della guerra. 
Ho portato questo spettacolo anche in Russia, durante la guerra in Cecenia.

In termini compositivi, studio molto ma non penso allo spettacolo che devo fare. L’approfondimento dell’argomento fa scaturire spontaneamente le idee. 

Al festival La Macchina dei sogni, la tua è una presenza importante che si rinnova da molte edizioni. In quanto esponente di una delle più antiche e note forme d’arte del Teatro di Figura, che valore ha per te la longevità di una manifestazione come La Macchina dei sogni?

Questo festival ha una sua caratteristica particolare: essere una vera e propria “macchina dei sogni”. È un progetto in evoluzione nel tempo e nello spazio. Un evento magico, sia nei temi sia nel processo: è come se Mimmo Cuticchio lavorasse su un proprio sogno rendendo partecipi tante persone, e facendone un sogno collettivo.

Hai all’attivo quasi 45 anni di attività, dunque il tuo è un punto di osservazione prezioso  per comprendere le dinamiche di sistema con le sue trasformazioni. Quali sono le necessità, quali le urgenze?

La mia visione è pura utopia. Tendo a non lamentarmi delle politiche ministeriali, vado avanti nel mio lavoro a prescindere, un atteggiamento negativo potrebbe fare del male anche alle mie produzioni in termini artistici.
Se c’è anche un solo bambino che ride durante un mio spettacolo, per me quel bambino vale come tutto lo Stato italiano, come il mondo intero. Credo che la politica dovrebbe essere più consapevole di quello che facciamo per adeguare il sistema di finanziamento e liberarlo dalla burocrazia. 

Quest’anno abbiamo fatto per la prima volta domanda ministeriale. Non l’ho fatto per me ma per dare una prospettiva futura alla mia società, alle persone che lavorano con me che appartengono a un’altra generazione. La burocrazia è davvero limitante ed è un problema generale che riguarda l’artigianato, i mestieri, le piccole attività culturali.
Ecco perché spesso scelgo di andare avanti per la mia strada, e come me tante persone che fanno un lavoro egregio. Il mondo non va in una sola direzione, esistono dimensioni migliori di questa. Noi sappiamo che esistono, le facciamo esistere e molte persone le scoprono insieme a noi. 

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