Ci sono progetti che travalicano, per rilevanza, la soggettiva professionale. Accade quando il lavoro prende le mosse da un ascolto autentico delle necessità di un territorio e di un settore e, alla via colonizzatrice che cala modelli fac-simile anche in contesti inadatti a riceverli, preferisce quella della semina.
È il tratto caratterizzante dell’intervento curatoriale di Valentina Marini, direttrice artistica di Orbita – Centro Nazionale di Produzione della Danza e del Festival Fuori Programma, la cui decima edizione si terrà dal 16 giugno a Roma.
In occasione dell’avvio del festival, abbiamo intervistato Valentina Marini cogliendo l’opportunità di intessere un dialogo intorno all’architettura, ai pieni e ai vuoti dell’offerta culturale capitolina, allargando la riflessione a questioni di sistema e di advocacy che interessano ad ampio raggio il comparto nazionale della danza e delle arti performative.
La decima edizione di Fuori Programma si intitola In-canti. Più che mai in questo tempo, le parole che scegliamo di usare hanno un riflesso altro dal nominare le cose, si tratta di rendere tangibili dei concetti che possono essere riformulati anche nel lessico quotidiano. L’incanto è un termine che viene associato alla magia, alla meraviglia improvvisa, allo stupore dell’inatteso. Con Fuori Programma questo portato simbolico non si sfilaccia ma si amplia e si fa sforzo proteso alla riacquisizione collettiva del potere dell’immaginazione.
In-canti, con un trattino a sillabare lo stare dentro (in) a uno spazio-tempo inafferrabile come quello prodotto dal suono, dal canto, o meglio da molti altri canti quanti sono i mondi ancora da immaginare. Una dichiarazione d’intenti che tiene assieme il percorso fin qui tracciato dal festival ma che, anziché preoccuparsi di “chiudere” un cerchio, tende all’apertura, a costruire il futuro più che ad aspettare passivamente che si compia. In questo senso, cosa può l’arte?
Sottoscrivo quanto dici. Rispetto all’espressione In-canti, all’idea di meraviglia e di immagini che si squadernano di fronte a noi, vanno sottolineati l’assetto open air e la matrice identitaria del festival: abitare spazi naturali con una programmazione al tramonto, fa sì che le comunità che si incontrano all’interno delle attività del festival si riconoscano, si vedano e si scoprano anche in termini visivi.
Si tratta di una forma di incontro più tangibile, poiché non si è nascosti da quella camera oscura che, negli eventi indoor, crea una sorta di anonimato della platea. Partecipare a una passeggiata, assistere a un evento all’aperto, o anche semplicemente lo stare in una visione a 360° che consenta allo sguardo di attraversare lo spazio e toccare anche il resto del pubblico, le altre persone, ci pone in uno stato di veglia reciproca.
Questo modo di stare insieme ha anche favorito la riconoscibilità, l’emersione di punti di contatto tra i pubblici stessi. Si tratta di uno degli aspetti che personalmente mi piace molto sostenere e perseguire. Dunque, una versione al naturale del festival, con una dimensione molto umana, sono alcuni dei tratti caratterizzanti di Fuori Programma.
La novità di quest’anno è che il festival entra a tutti gli effetti a far parte della grande casa di produzione di Orbita – Centro Nazionale di Produzione della Danza, un accorpamento che ufficializza una gestione precedentemente separata e che, in questo modo, determina l’organicità di un insieme di attività che hanno a che fare con le pratiche del corpo. In virtù di questo, sento a maggior ragione l’esigenza di differenziare per identità il percorso invernale, corrispondente alla stagione, dalle proposte estive, recuperando innanzitutto la funzione originaria dei festival: per statuto, un festival dovrebbe essere il luogo della scommessa, del rischio, uno spazio di un’immaginazione, di scoperta.
Potendo giocare su una programmazione unica, quindi su un palinsesto annuale che si differenzia per segmenti, ho voluto evidenziare ancora di più come invece lo spazio del festival – non a caso è anche l’ambiente in cui prediligiamo, oltre a quella nazionale, una certa presenza internazionale – debba costruirsi a partire da uno sguardo lungo, che attraversa la scena per arrivare all’altra parte di pubblico, ma che attraversa anche i continenti, i formati, i modelli performativi, e che preveda l’introduzione di progetti multidisciplinari. Un palinsesto che tenga conto sì della piacevolezza dello stare, ma che sia in grado di suggerire anche dell’altro in termini di contenuti.
Il cartellone di Fuori Programma rende visibile una “cifra” curatoriale che contraddistingue il tuo lungo impegno di operatrice culturale. Pur nella specificità dei singoli progetti, la tua visione pare scaturire da un’osservazione delle mancanze nel sistema nazionale della danza e delle arti performative, da vuoti da riempire. È accaduto con la messa a sistema di una stagione di danza che mancava alla città e che, oltre a scardinare il solito impasse dell’illeggibilità della danza contemporanea per il pubblico, ha generato alleanze e reti di sostegno (sia dal punto di vista produttivo che distributivo) per gli artisti.
E anche questa edizione del festival contempla molteplici linguaggi, artisti con percorsi più o meno longevi, uno sguardo sempre presente alla proposta internazionale, opere di diversi formati e le residenze artistiche.
Nonostante la ricchezza della proposta, nella vostra comunicazione si parla poco di numeri e molto di possibilità. Come si è cristallizzato nel tempo il progetto di Fuori Programma e come si fa, pur dentro a un sistema che lo richiede insistentemente, a resistere al rischio del “numerificio”?
Parto dal fondo. Anche per il tipo di spazi che abitiamo, il tipo di proposta che costruiamo all’interno del festival non nasce per un pubblico estremamente generalista. Non avendo platee da migliaia di posti, la frenesia numerica è immediatamente contingentata. Siamo in ambienti con uno spazio scenico che normalmente sarebbe da considerarsi sproporzionato: è più ampio lo spazio della scena che quello riservato al pubblico.
Il format ideato per l’arena del Teatro India, prevede proprio una costruzione a pedane di quadri scenici con due anelli di pubblico intorno. Avremmo potuto studiare delle programmazioni frontali e una tribuna da 400 posti, ma abbiamo scelto di affrontare certe questioni e di invertire delle prassi.
Vale lo stesso discorso per le attività al parco: per natura e per fisionomia degli ambienti che accolgono le attività del festival, non ci sono spazi per montare grandi platee. Questo non è né un valore aggiunto, né un demerito, nel senso che per noi non è un tema. Puntiamo all’ambiente che abbiamo intorno e alla proposta.
Ad esempio, abbiamo deciso di presentare il progetto Veduta di MK per tre anni consecutivi, facendogli abitare spazi meravigliosi della città di Roma: da Castel Sant’Angelo alla Terrazza del Laboratorio dei Cerchi. Quest’anno saremo in un altro luogo iconico e museale, i Musei dei Mercati di Traiano, che prevederà turni di ingresso con gruppi di pubblico contingentati.
Immergere nella città dei progetti artistici che si fondano col paesaggio intorno, serve per noi a riscattare l’idea dell’azione performativa come un fatto di nicchia. Certamente non per forza deve generarsi una sorta di “eventismo del centro storico”, infatti non è un caso che organizziamo attività anche al Parco Alessandrino Tor Tre Teste, situato accanto al quartiere Quarticciolo che oltre che decisamente periferico è al centro dell’attenzione più per questioni di emergenza sociale.
Non abitando un solo spazio, abbiamo fatto del nomadismo la nostra matrice. Il nostro pubblico è randagio come siamo randagie noi, poiché non è cristallizzato nella relazione con uno specifico luogo ma con il progetto.
I numeri sono importanti perché rappresentano una misura del gradimento, saremmo ipocrite a dire il contrario, ma il fulcro del nostro lavoro e del racconto che ne facciamo è un altro: ci interessa molto di più rilevare la migrazione di spettatrici e spettatori tra la stagione e il festival e, all’interno di Fuori Programma, tra gli stessi luoghi.
Invertire i ruoli, rimettere al centro altri discorsi e scardinare l’idea che l’azione performativa abbia dignità di esistere solo se consente il riempimento di migliaia di posti. Esiste un altro tipo di profitto, che io definisco profitto sociale, e non ha niente a che vedere con quello di bilancio. Questo è un tema a noi molto caro.
Rispetto all’incipit della tua domanda, dunque alla genesi e all’evoluzione, ci tengo sempre a ricordare, per onestà intellettuale, che il festival è nato su idea del Teatro Vascello. Ho iniziato a lavorarci perché collaboravo con Marco Ciuti all’ideazione di un progetto di programmazione estiva per la danza. Chiaramente, essendo il Teatro Vascello un Centro di produzione votato alla prosa, faticava a sostenere economicamente il festival. Si è deciso insieme questo passaggio, dal momento che già in quel periodo stavo intensificando l’attività di programmazione. Dovendo uscire dal Teatro Vascello, che al tempo era interessato da lavori di ristrutturazione, ci siamo messi in affaccio verso la città. Avevamo l’oggetto ma non il contenitore e così si è sviluppata una relazione randomica con gli spazi e il progetto di un festival come percorso per la città, che attraversava la città. Un fuori programma in tutti i sensi.
Trovo poco calzante l’idea di “sfida” associata alla parola “cultura” poiché rischia di rimandare a un antagonismo capitalistico che ci vede conquistare risultati in contrapposizione, a discapito dell’altro. Preferisco attestarmi su un concetto di sfida come atto generativo, innesco di reazioni.
Fatta questa premessa, se fare cultura in Italia è una sfida di per sé, farlo a Roma è una sfida-matrioska: un territorio molto vasto, con un’offerta culturale mainstream sempre più ampia e centralizzata, al servizio delle logiche di turistificazione, e molti, troppi spazi tolti non solo alla ricerca, ma anche a una programmazione capace di intessere nuovi patti di fiducia e nuove relazioni con con i suoi pubblici. Anche qui, credo di poter dire che, con Fuori Programma prima e con Orbita dopo, il punto di partenza sia stata la contemplazione di un vuoto e una successiva germinazione. Come hai costruito il dialogo con il territorio e in che maniera il festival ha determinato nuove traiettorie di abitabilità dei luoghi?
Oltre alla fuoriuscita dal Teatro Vascello e alla migrazione in altri luoghi, anche la pandemia ha avuto un ruolo importante, perché ha determinato delle scelte fondamentali. Inizialmente il festival aveva un formato frontale, più convenzionale, potendo usufruire della sala teatrale del Vascello prima e di quella del Teatro India dopo. In entrambi i casi operavamo al chiuso, poi la pandemia ci ha rivelato delle possibilità contestualmente all’avvio del percorso di programmazione presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Per motivi diversi, che vanno dall’immaginare nuove pratiche di condivisione alla complessità del tessuto sociale del quartiere, avevamo capito che dovevamo andare verso il pubblico, anziché chiedergli di venirci incontro. Quest’esperienza ha sovvertito il paradigma e cambiato la direzione del nostro sguardo sulla relazione oggetto artistico-spazio performativo-pubblico. Il vantaggio di lavorare con dei gruppi più ristretti di spettatori, risiede soprattutto nella possibilità di incontrarli, conoscerli, di avviare un rapporto anche personale, accelerando il processo di fidelizzazione. Ciò significa anche che riusciamo ad avere con il nostro pubblico un rapporto dialogico e di confronto costante che è un metro di misura fondamentale per valutare il lavoro che svolgiamo.
Il principio dell’evoluzione dei nostri progetti e in particolare di Fuori Programma, sta nel rimetterci in gioco ogni volta: nei formati, nella scelta delle traiettorie, nelle opportunità, soprattutto in virtù di una complessità assoluta come quella di Roma, che mette in campo tutte le difficoltà esistenti e le concentra in un’unica metropoli.
Il modello che abbiamo costruito era per noi una sacca di sostenibilità, non sarebbe stato intelligente e neanche necessario per la città realizzare un altro festival mainstream, cioè infarcire di doppioni e triple proposte un ambiente già ben servito.
Roma è una città con quasi 3 milioni di abitanti, dire che qui esiste un problema di pubblico è un falso storico, i corpi che abitano questa città tra residenti e turisti dovrebbero soddisfare milioni di miliardi di stagioni. Ha molto più senso intercettare i gruppi di interesse, provando a soddisfare la varietà della richiesta lavorando per complementarità e collaborazione, immaginando quindi che tra i soggetti che abitano la stessa città ci sia una relazione di filiera.
In questo modo, da un lato anche gli artisti italiani riacquisiscono il diritto sacrosanto di attraversare la capitale e non soltanto i grandi nomi della danza internazionale, dall’altro si struttura un ventaglio di proposte che soddisfano tutto il tessuto cittadino in maniera geograficamente più equilibrata. Il problema è che, per mancanza di idee o per bisogno di competizione, nel nostro settore spesso si tende a emulare l’esistente, piuttosto che a trovare delle forme complementari, a quel punto si crea assuefazione.
Il bello risiede nell’immaginare, nel riempire la tavolozza.
I percorsi artistici a cui guardi hanno generalmente un segno autoriale molto forte. Nel nuovo Decreto Ministeriale, il termine “autore” viene nominato in maniera inedita e attraversa le varie pratiche artistiche, all’interno delle quali, però, l’autorialità corrisponde a ruoli, funzioni, esperienze creative e posizioni professionali molto difformi. Il target dell’under 40 è invece insindacabile, pertiene a un dato anagrafico e prescinde da interpretazioni. Posto che un ragionamento su cosa s’intenda quando si parla di autorialità in maniera espansa, potrebbe consentire una lettura di sistema più determinata – il criterio che incentiva l’investimento su una certa fascia anagrafica, dice anche che l’emersione nel nostro Paese è tanto lenta e complessa, che un’artista con vent’anni di mestiere è ancora una scommessa.
Nel contesto di un Decreto Ministeriale che da un lato premia il coinvolgimento di artisti e artiste under 40, dunque con un percorso di ricerca in fieri, e dall’altro cancella la dicitura di “rischio culturale” – come si fornisce tale sostegno? E, ancora, dove finisce la libertà del tentativo, e dunque anche del fallimento, in un percorso artistico in costruzione, se l’iperproduzione detta la legge della presenza: quella per cui si può esistere solo con una presenza di palcoscenico che spreme i progetti spettacolari nel tempo di una stagione, mentre invita al prossimo lavoro che tra i propri presupposti creativi è obbligato a varare anche la sua vendibilità?
Il tema dei giovani è molto spinoso perché il nostro sistema è ingessato e spesso si deve arrivare a delle azioni di forza per consentire uno spostamento dell’esistente.
Abbiamo un problema sulle figure apicali che non riguarda soltanto la questione di genere ma anche quella anagrafica. Ci sono figure che saltano da una direzione all’altra non fino alla pensione ma praticamente fino al termine della vita naturale su questa terra. Lo spazio per il resto non c’è e questo significa che, oltre alla mancanza di crescita e opportunità professionali, sempre più frequentemente chi ha potere decisionale rischia di non avere uno sguardo preparato sull’oggi.
Sono profondamente contraria all’idea che si debba forzare la programmazione con una massiccia presenza di progetti firmati da autori under, per il principio ideologico che si crea un ricambio generazionale.
Innanzitutto bisogna tenere in considerazione il rapporto col pubblico: se i progetti non sono maturi e quindi il pubblico non riceve una proposta valida, non stiamo rendendo un servizio né all’artista né al sistema. Tutto questo avrebbe senso se in parallelo fosse costruito realmente un percorso di accompagnamento, ma che non è soltanto quello di immaginare delle scatole di favoritismo one shot per i giovani senza fornire loro gli strumenti per crescere progettualmente e artisticamente. Di contro, è falsa anche la narrazione per cui la giovinezza è per forza sinonimo di talento e creatività, non si può pretendere di sfornare chissà quanti nuovi talenti all’anno.
Tornando al tema dei numeri, massificare la presenza di nuovi autori ogni anno, crea un doppio, tocca il sistema su due fronti: tanto sull’idea che l’anagrafica sia sufficiente come elemento premiante, quanto sul generare nel soggetto giovane l’illusione e la presunzione di avere qualcosa da dire in ogni caso, a discapito poi di tutta la filiera. Non rinnego l’importanza di riservare spazi per l’emersione, non approvo le pratiche più diffuse. Io sono stata una giovane che non ha mai avuto spazio, ero circondata da persone di vent’anni più grandi di me che non mi ha mai incaricato di qualcosa, mi sono sempre costruita da sola le mie scatole da abitare.
Il problema del decreto è molto ampio. Personalmente, per come cerco di lavorare nella programmazione, ho sempre mescolato le autorialità e miscelato proposte di autori più maturi e di autori emergenti. Quello che detesto è creare le sacche dei panda: la rassegna, il focus giovani. Mi sembrano ghettizzanti, come dichiarassero fin dall’inizio una debolezza, una fragilità. Il punto dovrebbe essere in quali contesti di lavoro si immettono gli artisti, perché non ha senso vantarsi di una grande quantità di aperture di sipario a favore di giovani che, però, non ricevono sostegni produttivi sufficienti a produrre qualcosa di senso e che vengono messi in condizioni marginali di presenza tecnico-scenica, o ai bordi di una programmazione. Per me quei numeri sono falsati, preferisco ridurre le finestre di visibilità per garantire condizioni di valore.
Per fare un esempio, da quest’anno, con il Centro di Produzione Orbita, abbiamo messo in piedi un progetto pilota MoveOn, una rete di festival mainstream, di cui sono parte Romaeuropa, Danza in Rete, Torinodanza, MILANoLTRE Festival, Civitanova Danza, allo scopo di dialogare intorno ad autori giovani coprodotti dal nostro centro di produzione, ammettendo i loro progetti a palcoscenici accreditanti dal punto di vista mediatico e di settore. Pensiamo che una simile tensione valga molto di più in termini di ricadute effettive sulla carriera degli artisti e delle artiste rispetto a forzare la mano sul quantificare per mera alzata di sipario il numero di presenze giovani, sganciandole da una analisi del contesto.
Certamente anche la questione dei lavori in progress è rischiosa e lo è allo stesso modo per gli autori maturi. Per inseguire la legge dei numeri, non si possono dopare i propri rendiconti di quantificazioni delle attività con una quantità smisurata di studi, giustificando un’incompiutezza che molto spesso si cronicizza. Tra l’altro si pone il grande problema dello sguardo: un operatore ha un occhio allenato per guardare un processo, ma se si pretende di spacciare a un pubblico generalista un lavoro non compiuto come un oggetto da condividere, senza fornirgli strumenti di comprensione, si ritorna a tradire quel patto col pubblico e ad abbassare di livello della qualità dell’intero sistema in un’ottica di filiera.
Anche noi facciamo delle aperture al pubblico di alcuni progetti di residenza, ma è un pubblico contingentato al quale viene chiarito che stanno spiando qualcosa in costruzione e che partecipa a una visione in conversazione con gli stessi artisti.
I temi si intrecciano e sicuramente c’è anche una schizofrenia nelle richieste del sistema: perché se da un lato si pretende che ci sia un’attenzione maggioritaria alla nuova generazione autoriale – che per definizione ha meno esperienza e quindi ha più probabilità di rischiare di arrivare a con progetti non ancora maturi, non ancora compiuti –, dall’altro si chiede alla stessa fetta curatoriale di garantire e assicurare grandi presenze di pubblico e quindi di andare a colpo sicuro. Ecco, le due cose non coincidono.
Si è bannato il termine di rischio culturale perché era una parola che spaventava probabilmente, dando adito a far passare per la programmazione culturale qualsiasi cosa senza tener conto forse di alcuni fondamentali. In realtà ci viene chiesto un rischio maggiore se diventa premiate mettere in scena persone che non hanno una maturità artistica e dunque un paragone, col solo obiettivo di accontentare un’anagrafica. Lo trovo assolutamente contrario alla crescita di una nuova generazione che tra l’altro non deve essere sostitutiva, ci deve essere un’integrazione nelle proposte, tema per cui ci siamo sempre battute anche sui tavoli.
Anche quello con la politica è un patto di fiducia che non gode di buona salute e che necessita di essere ristabilito. In seno ad AIDAP e in molti dei progetti che hai ideato, il tuo impegno si è rivolto al rafforzamento di una comunità artistica e di operatori e ad amplificarne la voce nel dialogo con le istituzioni. Qual è per te o quale dovrebbe essere la missione dell’advocacy nel comparto italiano della danza?
Il lavoro associativo negli ultimi anni è cresciuto tantissimo. Questo è sinonimo del bisogno di rappresentanza, di sentirsi parte di una comunità, soprattutto nell’ambito della danza, confinata nell’immaginario collettivo a una percezione pedagogica più che di professionalizzazione del sistema, per una questione di nuovo di numeri o di percepito.
Dal covid in poi ci siamo accorti che anche la relazione tra i corpi in movimento e gli spazi, la relazione tra il teatro convenzionale e la danza, è stata invertita e si sono ampliati scenari e mondi possibili. Quello della danza è forse il comparto che ha più margine di evoluzione in assoluto, nel senso di scoperta di nuove forme e nuovi modelli sia gestionali che artistici. Proprio per questo si sente una forte responsabilità, da un punto di vista di possibilità e capacità, nel tentativo di trasmettere questa forza che viene dal basso e fare in modo che ai tavoli, o comunque nella relazione con chi si occupa di politica culturale, questo potenziale venga non soltanto capito, ma venga finalmente iscritto nei sistemi che ci regoleranno da domani in poi.

Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.