Dal 12 dicembre 2023 al 14 gennaio 2024 il Teatro Vascello di Roma ospiterà tre opere di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: Amistade, Fotofinish e Hybris. In particolare, Fotofinish andato in scena dal 19 al 31 dicembre; uno speciale quello di Capodanno, dove al pubblico verranno riservate altre sorprese, a condire la già peculiare esperienza di visione sulla quale i due artisti da tempo pongono la firma.
Sulla scena regna il bianco di strutture verticali, sferiche, composte da teli, attraversate e rette da scheletri di metallo.
La maggior parte sono oggetti apparentemente astratti, che Rezza riconverte e indossa per narrare la solitudine che attanaglia il suo personaggio, che corre da una parte all’altra del palcoscenico a petto nudo, con calzoni, stivali e una fascetta attorno al collo, altrettanto bianchi.
Un fotografo inganna la monotonia dei suoi scatti immaginando un mondo post 11 settembre, fatto di successo anelato, scrivanie soffocanti, filosofia della cura di sé (fisica e mentale), di potere da esercitare su fantomatici concittadini.
Diventa sindaco della città, eletto chissà da chi, posizionandosi nell’occhio di bue al centro del palco, tenendo uno degli oggetti ideati da Mastrella, un’asta con quello che sembra essere un vessillo, di un partito, di uno stile di vita o forse di se stesso, mentre si impegna in vari comizi.
Nel suo delirio di onnipotenza costruisce una città, con il suo ospedale, i suoi cittadini, i suoi vari appartamenti nella metropoli e in campagna che a turno lo stancano. Si improvvisa tecnico, scienziato, studioso spiegando al pubblico i suoi modellini raffiguranti palazzi e uffici a prova di attentato terroristico.
Ivan Bellavista (anche lui il petto nudo, calzoni e stivali bianchi), soggiogato dalle solite parole di Rezza, graffianti, violente, divertenti e senza dio, si tramuta a piacimento in un cane che difende le sue proprietà, in uno scagnozzo che esegue gli ordini ora per portarlo dall’ortopedico, ora per infliggergli dolore con uno strano oggetto che usa per flagellarlo.
Eppure Rezza è costantemente sincero: d’altronde il pubblico è ben conscio di assistere al delirio di un folle, come lui stesso ripete. Nella corsa sfrenata della sua sofferenza chiede agli spettatori di seguirlo, di correre con lui, arrivando sì al traguardo, ma della sua pazzia.
Ciò che davvero viene eretto durante la performance è una prigione. Il pubblico ancora non sa a quali torture verrà sottoposto. Rezza nel delirio, non è solo e con lui trascinerà la platea, letteralmente.
Lo spettatore è spacciato: appena entrati, mentre si prende posto, le maschere indicano la pedana bianca al centro tra le prime file, creando un corridoio che culmina in un cerchio per terra anch’esso bianco che fa presagire un’intrusione. Su questa pedana Rezza corre, coi suoi piedi o spinto su una carrozzina da Bellavista, lì ambienta alcuni dei suoi comizi e presentazioni di nuovi prototipi.
A questa altezza dello spettacolo il coinvolgimento richiesto è ancora innocuo: l’interprete fa mangiare dei pomodorini ad uno spettatore a caso, che erano destinati a Bellavista-amante che però ne ha già fatta una vera scorpacciata, oppure quando strattonandoli urla contro ad altri malcapitati nei suoi ancora paradossalmente timidi deliri. Porta il cane (sempre Bellavista) a passeggiare sin lassù, quando d’un tratto si sbarazza del compagno e inizia a interpretarlo lu
i stesso. A quattro zampe si avvicina ad alcuni in particolare, abbaiando, ad uno morde la spalla e ad un’altra lecca la faccia. Ma quando la sua immaginifica città entra in guerra è nel pubblico che rintraccia il suo nemico.
Sputa i suoi ordini a Bellavista mentre lo aiuta a prelevare ostaggi dalla platea. Soprattutto donne, dice. Le afferra, i loro cappotti gettati sugli astanti dall’altra parte rispetto a dove sono sedute; mentre è di spalle, qualcuno gentilmente prova a riportare indietro uno dei tanti soprabiti per permettere alla proprietaria di ritrovarlo al suo posto alla fine della replica, ma Rezza se ne accorge e gli urla contro di lasciarlo lì dov’è, «Ti tengo d’occhio, stronzo!».
Chiede poi ad altri due uomini di dare una mano a lui e Bellavista nella razzia, spogliandoli dei loro maglioni e lasciandoli a petto nudo, per uniformarsi ai compagni. Le nuove reclute iniziano a girare per cercare altre vittime, mentre alcuni invocano pietà facendo leva sul fatto che fino a qualche secondo prima erano anche loro semplici spettatori, ma niente; «Non quelli della prima fila! A loro un destino ben peggiore».
Ci si domanda quanto ancora il palco si dovrà riempire di cadaveri, la vita in loro seccata da colpi di pistola che riecheggiano in sala. D’un tratto la prima fila è costretta ad alzarsi di scatto: dei petardi sono scoppiati sotto i loro sedili simulando i bombardamenti.
Finalmente soddisfatto della quantità, ora Rezza si getta su i corpi ammassati sul palco, salta pericolosamente tra di loro, li dissacra ballando nudo sopra le loro teste e come se non bastasse scopre le forme femminili che il suo personaggio, apparentemente omosessuale, non conosceva. Così sfiora insieme a Bellavista e alle due reclute sederi di donne e il membro di uno dei pochi uomini vittime della carneficina.
È su questa violenza che lo spettacolo si conclude, tutt’intorno il solito odore che lascia lo scoppio dei petardi. È un’imboscata che Rezza e Mastrella hanno architettato nei confronti del pubblico, composto ormai da affezionati fan.
Si gioca con la responsabilità di essere spettatori, con il potere che chiunque su un palcoscenico esercita e a quanto difficilmente si possa riuscire a sottrarsi. Filmati di repertorio documentano che il coinvolgimento del pubblico è parte integrante della scrittura originale, così è grande il desiderio di sapere come all’epoca del debutto, vent’anni prima, il pubblico abbia potuto reagire.
Un pubblico che sicuramente non era sensibile come adesso al concetto stesso di abuso. L’interazione con gli spettatori non è di certo nuova nella storia del teatro, ma quella di Rezza è ben diversa. La coppia artistica ha creato in tutti questi anni un linguaggio che parte proprio dalle brutture di una società intera, che restituisce con violenza ad un pubblico che proprio per questo apprezza, che addirittura ne ride e applaude.
Avviene un cortocircuito in cui Rezza insulta chi ha di fronte: un patto che si redige acquistando il biglietto di un loro spettacolo, che diventa un’occasione per rispecchiarsi nella propria stupidità, una denuncia collettiva.
Rezza in scena è libero come forse chiunque al mondo dovrebbe essere. Basta infilare la testa dentro al buco di uno dei tessuti di Mastrella per divenire personaggio, uomo o donna, medico o ingegnere, basta spogliarsi per essere nudo. È nudo e folle nella sua superbia di artista, che lui stesso si arroga ancora prima che chi guarda possa concederglielo, insieme al compito, altrettanto superbo, di portare su di sé il fardello di un’umanità alla deriva.
Perché allora solo lui deve essere nudo e folle, ridicolo e potente? Come un odierno Prometeo costringe il pubblico a sporcarsi le mani insieme a lui, quindi prendersi il palco, agire e violare insieme a lui. Si ride mentre si assiste alla violenza, mentre donne e uomini sotto il giogo della finzione sono costretti ad essere palpati (tranne qualcuno che riesce a distendersi sulla schiena per nascondere il sedere o che ha il coraggio di rifiutare il tocco davanti alla platea e al performer stesso) e nessuno dice nulla.
Sarebbe bello un mondo vergine e scevro da pensieri e azioni violente, in cui un concetto come l’abuso di potere sia alieno. Eppure non è così. E chissà se uno spettacolo così divisivo nella struttura è quello che alla fine dei conti ci costringe a ritornare nella routine più confusi di prima. Sempre che sia rimasta questa sensazione nelle anime degli spettatori: di essere stati testimoni paganti e omertosi di un abuso di potere.
Fotofinish va in scena per la prima volta nel 2003 non dimostrando i suoi vent’anni in scena al Vascello. Al di là dei chiari riferimenti storici del tempo (a cui ne vengono aggiunti altrettanti contemporanei), la cui gravità ha di certo segnato il mondo di oggi, Rezza e Mastrella continuano ad animare in teatro ciò che caratterizza l’umanità intera, che inspiegabilmente ancora riesce a portare il peso della sua immorale condotta.
Come in una risacca, riporta indietro i costumi, le politiche, il dramma moderno ai suoi artefici, il pubblico, che comunque si diverte e chissà se ci si rivede; che interrompe i ritmi e i tempi comici applaudendo, e Rezza infastidito: «Dài, veloci che così continuo».
Nasce a Palermo nel 1998; lì si laurea al Dams, curriculum spettacolo, scoprendo diverse realtà teatrali e cinematografiche locali, più o meno indipendenti, e collaborando con queste. Tutt’ora continua i suoi studi a Bologna, specializzandosi in discipline del teatro.