Realtà virtuali e rapporti umani | Che relazione c’è tra le parti? 

Gen 3, 2025

Articolo a cura di Sara Raia

Un unico performer fa la sua comparsa al lato della scena e, per tramite del proprio visore, interagisce con molteplici omini danzanti. Hope di Claudio Prati e Ariella Vidach indaga il concetto di corpo attraverso prospettive differenti, volte a porre lo sguardo sulle sempre più numerose tecnologie odierne. Il pubblico ascolta un suono acuto e prolungato, arrestatosi con la fuoriuscita di una danzatrice da dietro il pannello che continua a proiettare immagini virtuali.  Pian piano emergono sempre più figure reali che sostituiscono quelle immaginarie. Queste si muovono attorno al proprio quadrato, come se avessero dei ruoli prestabiliti. I corpi danzano liberi ma appaiono ancora semi comandati e assumono gli aspetti di veri character: sfilano mostrando non solo diversi e ben curati costumi, ma portano avanti svariate personalità. Le figure proiettate sul pannello che ordinavano di tornare ai propri confini, divengono poi corpi in carne ed ossa, in movimento, capaci di orientarsi nello spazio senza l’ausilio di alcun device. Un invito, forse, a comprendere ciò di cui abbiamo bisogno: un ritorno alla corporalità e un distacco dal tentativo societario di omologazione. 

Non a caso, quasi a voler continuare un discorso già iniziato, I knew those people di Sara Lupoli mette in scena la necessità d’indagare la natura dei rapporti umani. La performance nasce prendendo ispirazione da un profondo studio psicologico. Il triangolo drammatico di Stephen Karpman, composto da vittima, persecutore e salvatore, si muove seguendo uno schema fisso ed è da questo che si generano e articolano le relazioni umane. La terapia permette di mettere in ordine una serie di comportamenti disfunzionali che questa danza rappresenta tramite tre giovani performer. Il terzetto pare avviarsi ad uno scontro silente e i corpi dei danzatori narrano la difficoltà d’instaurare e mantenere salde relazioni interpersonali. Le figure a stento si sfiorano fino poi a cedere l’uno all’altra, con delicatezza, accompagnandosi in un ensemble di cambré, chaines e grand battements. I tre performer divengono vera personificazione danzata del triangolo di Karpman e si nota l’alternanza in loop di ruoli fissi che non consente alla relazione, e al terzetto, di progredire. La vittima è davvero perseguitata: tra i danzatori nasce un rapporto particolare in cui l’una pare essere comandata dall’altro: il volto, le braccia e il busto non seguono i propri impulsi ma quelli dettati dall’altro. È poi un abbraccio a segnare la mediazione tra le parti in opposizione. Gli invisibili nodi relazionali a poco a poco si sciolgono e l’ordine pare stabilirsi.

La seconda serata della XXVI edizione della rassegna Second Hand apre, dunque, uno spiraglio di riflessione che lascia agli spettatori qualcosa su cui interrogarsi. Gli spettacoli hanno interessato il pubblico che, quando si accendono le luci in sala, tentenna qualche istante prima d’avviarsi verso l’uscita. A confermare la volontà di prolungare un momento vissuto è la tenera voce di una bambina che esclama: “è già finito?”.

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