Editoriale a cura di Stefano Fortin
A
Una delle questioni più pressanti che sembra riguardare la società liquida contemporanea è l’incapacità di pensarsi al di là del ristretto campo del proprio orizzonte individuale: limitati da una visuale soggettiva, un bias rende sempre più difficile pensarsi come facenti parte di qualcosa di più rispetto alla propria sfera privata; qualcosa cioè che appartenga e ci faccia sentire parte di un gruppo più ampio di persone, un gruppo che ecceda il proprio io permettendoci di parlare di un noi.
La fine delle cosiddette grandi narrazioni e tutti gli altri residuati di quella che – da Fredric Jameson in avanti – è stata più o meno identificata come la stagione postmoderna non sono che i sintomi ormai datati, secondo diversi osservatori, di una parcellizzazione diffusa, che recentemente è emersa in maniera per certi versi lampante, ad esempio, riguardo la distinzione tra colpa e responsabilità degli uomini nei confronti della piaga dei femminicidi: molti di essi, non distinguendo tra colpa privata e responsabilità collettiva di un gruppo cui (volenti o meno) appartengono, hanno con forza rifiutato processi di riflessione profonda sulle proprie responsabilità in quanto gruppo collettivo, e ciò perché incapaci di pensarsi al di fuori dell’universo delle proprie colpe individuali (ad es. “io non ho mai, né mai lo farei, fatto del male a una donna, perciò il discorso non mi riguarda”).
Questa breve premessa è necessaria per specificare fin da subito che chi parlerà nelle prossime righe è un io retorico, che in realtà si sforza, per quanto possibile, di pensarsi come un noi, in quanto categoria (quella di chi scrive drammaturgie).
Bene.
Cominciamo.
[Avvertenza a uso di chi legge: Le note che da qui in avanti si troveranno a piè pagina sono di due tipi: quelle in normalissimo tondo, che fungono effettivamente da note esplicative o per puntualizzare certi aspetti relativi alla porzione di testo cui si riferiscono; quelle in corsivetto, che sono invece commenti personali, perciò chi legge può, se vuole, tranquillamente ignorarle.]
B
Qual è il reale (o sufficientemente realistico) stato della giovane drammaturgia in Italia?
Partiamo da una campionatura delle sue messe in scena che, in quanto tale, è di sicuro circoscritta ma anche rappresentativa di un sistema nel quale i giovani drammaturghi e drammaturghe si trovano effettivamente a operare. Non ho il tempo né la forza né la responsabilità [sic!] di proporre una casistica più ampia, che presenti una fotografia completa dello stato della produzione della giovane drammaturgia italiana sia per quanto riguarda gli enti che la finanziano, sia relativamente a un periodo di tempo più ampio rispetto a quello qui proposto. Ma, ripeto, questo è un campione che, comunque, tenta il piccolo sforzo di non affidarsi solamente a un vago (e opinabile) “sentito dire” o “così è se mi pare”.
Alcune precisazioni doverose:
- con “giovane drammaturgia italiana” (g.d.i.) si intendono drammaturghi/e di un’età compresa tra i 20 e i 40 anni;[1]
- il campione comprende i più rilevanti centri di produzione dello spettacolo italiano (nello specifico i cartelloni principali – in alcuni casi detta “prosa” – delle stagioni dei teatri nazionali, cioè i centri maggiormente finanziati, oltre che prestigiosi, del nostro sistema teatrale),[2] prendendo in considerazione i dati relativi alla stagione 2023-2024;[3]
- come messo giustamente in rilievo dall’edizione 2019 della Biennale Teatro (dal titolo Drammaturgie, con la direzione artistica di Antonio Latella e la collaborazione del dramaturg Federico Bellini) il termine «drammaturgia» indicherebbe, oggi, qualcosa di più del semplice “autore di un copione”; ma, come anticipato, questo articolo non si può far carico di troppi pesi e, per necessità di semplificazione – e (soprattutto) perché in larga parte (e a causa di pregiudizi diffusi) la drammaturgia in Italia è concepita solamente entro i confini della definizione di “copione” – ci si limiterà qui a considera «drammaturgia» solo nei termini di una scrittura testuale redatta per essere allestita in scena.[4]
I dati che emergono dallo spoglio sono questi:
Nome Teatro | Tot. spettacoli 2023-2024 | Spettacoli di g.d.i. |
Piccolo Teatro di Milano | 52 | 5 / 9.6% |
Teatro Stabile di Torino | 54 | 1 / 1.8% |
ERT | 55 | 6 / 10.9% |
Teatro Stabile di Napoli | 39 | 3 / 7.6% |
Teatro Stabile di Genova | 71 | 7 / 9.8% |
Teatro di Roma | 47 | 6 / 12.7 % |
Teatro della Toscana | 52 | 1 / 1.9 % |
Teatro Stabile del Veneto | 40 | 0 / 0 % |
Tot. | 410 | 29 / 7.07 % |
C
Una precisazione a latere: spesso gli spettacoli compresi nella stagione dei diversi teatri sono gli stessi, perché impegnati in una tournée.
D
La giovane drammaturgia italiana rappresenta il 7.07% del totale delle rappresentazioni dei principali (e più finanziati) teatri nazionali. È un dato, questo, che va prima di tutto contestualizzato, perché la situazione potrebbe non sembrare così grave.[5]
Breve elenco di quello che questo dato non racconta:
- molti degli spettacoli che sono entrati a far parte del computo relativo alla g.d.i. sono costituiti da riscritture di opere terze e non da opere scritte ex novo, su commissione o meno;
- la percentuale di drammaturghe presenti in questo 7.07%;[6]
- le repliche effettive degli spettacoli della g.d.i.;[7]
- i budget degli spettacoli della g.d.i.;[8]
- le sale in cui vengono proposti al pubblico i testi della g.d.i.;[9]
- i compensi di una categoria che ancora NON FIGURA nel contratto nazionale dei lavoratori dello spettacolo;[10]
- la commissione o meno del testo;[11]
- l’effettiva o meno marginalità di queste proposte all’interno del cartellone dei teatri;[12]
- se sono prodotti o meno da un drammaturgo residente.[13]
E
Ora comincia la parte più propriamente politica.
Il recente caso della nomina di Luca De Fusco a direttore artistico del Teatro di Roma ha mostrato in maniera lapalissiana la strutturale fragilità di una parte importante della gestione del teatro pubblico italiano: le chiamate alle armi per un clamoroso “colpo di Stato” si sono immediatamente trasformate in accordi che lottizzano gli spazi teatrali, trattandoli come feudi gestiti da conventicole di tutti i colori e gli indirizzi ideologici (o post-ideologici), ognuna delle quali, a seconda dell’ora in cui si parla, recita parti diverse di uno stesso inquietante spartito. Tutto ciò – come accaduto in casi simili seppur diversi, come quello dell’occupazione del Teatro Valle – ha suscitato giustamente il quasi totale disgusto di una parte considerevole, seppur non integrale, della (chiamiamola così) classe lavoratrice del teatro e degli osservatori critici.
All’inverno dovrebbe seguire la primavera, ma di primavera qui non si sente nemmeno l’aria. Questo perché, appunto, basta girarsi un attimo e l’inverno del nostro scontento si tramuta in un altro glorioso inverno, dato che i segni – nel senso semiotico del termine –, le storture strutturali e la mancata assunzione di responsabilità da parte di istituzioni, osservatori critici e classe lavoratrice è sempre dietro l’angolo.
Io, qui, parlo solo di un granello insignificante di questo problema, un granello in cui vecchiaia, disimpegno e assolutismo la fanno da padrone,[14] un granello che non è certo al centro dell’attenzione generale (né particolare, d’altra parte): la giovane drammaturgia italiana che, ben lungi da certe apparenti prospettive e autoconvincimenti, di fatto è attualmente e totalmente irrilevante a livello sistematico (ripeto: a livello sistematico) nelle monarchie assolute o illuminate del teatro italiano.
I dati prima proposti evidenziano, in maniera ulteriormente contestualizzabile ma certo non eludibile, il fatto che la g.d.i. trova pochissimo spazio sulle ribalte dei più ufficiali e rappresentativi teatri italiani: nelle loro stagioni, de facto, praticamente essa quasi non esiste, o tuttalpiù esiste nelle forme della riscrittura, mentre decine e decine di testi nascono già morti, affidati alla pallida speranza che, prima o poi, qualche Cristo scenda in terra per resuscitare Lazzari che se ne stanno ben ordinati e profumati nelle loro camere mortuarie (siano queste premi, libri, cassetti, caselle di posta, ecc.).
Gli anni incerti non sono per niente alle spalle, e come tanti sono i nomi di una più o meno emergente nouvelle vague della drammaturgia italiana,[15] tanti sono gli atti mancati di quella stessa nouvelle vague che (parlo da studioso, non da autore) meriterebbe meno elenchi e più recensioni effettive, più reti, più analisi, più cura da parte non solo dei direttori (e questo già lo sappiamo, così come sappiamo delle difficoltà delle loro posizioni, non sempre facili) ma anche di osservatori critici e accademici che mappino, studino, sostengano e raccontino, soprattutto al grande pubblico, il deserto del reale in cui quei nomi si trovano ad agire concretamente, al di là di narrazioni che parlano genericamente di rinnovamenti e di prese di potere del tutto inventate.
Esistono, è vero, delle eccezioni, ossia dei membri della g.d.i. che hanno raggiunto posizioni di rilievo, microfoni e palchi prestigiosi, assieme a una pallida forma di stabilità economica e artistica, ma sono – tautologicamente – delle eccezioni. È credo un fatale errore di prospettiva guardare, ad esempio, al Tony Award di Stefano Massini come al segnale di un cambiamento, perché esso è in verità una testimonianza – nemmeno troppo originale – dell’esatto opposto: è la conferma di un sistema nutrito di eccezioni, di enfant prodige e di fenomeni utilizzati più o meno consciamente per legittimare l’assenza totale di una struttura concreta che della g.d.i. si occupi sul serio; un sistema immaginifico, cioè, nutrito da una burocratizzata e sclerotica macchina istituzionale, ma anche autoalimentato dalla stessa classe lavoratrice dello spettacolo (dai direttori, passando per gli osservatori critici e arrivando fino ai drammaturghi stessi).
È la logica dell’elenco, cui spesso questa problematica viene ridotta, a essere di per sé insopportabile: illude tutti – e forse soprattutto chi scrive drammaturgie – di far parte di una reale comunità, di far parte di un noi che effettivamente è accumunato da prospettive e conquiste artistiche e lavorative, mentre in realtà è proprio della logica dell’elenco assommare tante individualità singole, esistenzialmente e politicamente singole.
F
L’ennesimo cahier de doléances?
No.[16]
Questa è la realtà, che va credo ribadita quando lo storytelling istituzionale (ma non solo) si spinge troppo oltre, travalicando le interpretazioni e sfociando nella fantasia e nella diffusione di un’immagine che mette a repentaglio la stessa condizione economica e artistica della g.d.i.
I nuovi autori [compreso anche chi sta ora concludendo questo articolo] sono oggi tanti Edipi (giovani, certo, e certo impegnati a sconfiggere le Sfingi, e talvolta rivoluzionari nelle proprie Tebi) ma miseramente senza alcun complesso, anche quando, per sbaglio o per gusto d’eccezionalità, trovano spazio sui palcoscenici minori, in anni sempre più incerti.
La drammaturgia cambia, sì, così come esistono premi, contest, osservatori, rassegne speciali, bandi ad hoc, trasmissioni radio dedicate, scuole di formazione e specializzazione, ecc. (anche in questo caso l’elenco non serve a descrivere il fenomeno). Siamo pieni di riserve, di zone istituite da un colonialismo politico e culturale che consente alla g.d.i. di vivere solo se appartata e indisturbata.
La giovane drammaturgia italiana è sfilacciata, parcellizzata, elencata, soprattutto messa nelle condizioni di non poter crescere davvero e di competere – economicamente, artisticamente e politicamente – con sé stessa e con le tanto lodate drammaturgie d’Occidente come quelle inglesi, americane, francesi, tedesche, ecc.
L’unica cosa che forse si può dire su di essa è che è composta da splendidi corpi.
Corpi senza corpo.
[1] i dati cambierebbero alzando di 5 anni questa soglia; ma veramente un giovane drammaturgo può avere 45 anni?
[2] Li elenco qui di seguito: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; Fondazione del Teatro Stabile di Torino; Emilia-Romagna Teatro Fondazione; Associazione Teatro Stabile della città di Napoli; Ente Autonomo del Teatro Stabile di Genova; Associazione Teatro di Roma; Fondazione Teatro della Toscana; Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni.
[3] Sono conscio che il cartellone principale, quello della cosiddetta “prosa” secondo un certo linguaggio, non rappresenta il totale delle attività prodotte da un teatro nazionale, che promuove normalmente una serie di rassegne e/o stagioni off che qui non vengono prese in considerazione. Questa scelta, però, è motivata da ragioni precise: fotografare realisticamente la presenza della g.d.i. nelle stagioni “di cartello”, escludendo volutamente le rassegne e/o stagioni off che risultano, in questo senso, collaterali.
I dati presentati sono stati raccolti consultando le brochure ufficiali dei teatri relativi alla stagione “di cartello”, comprensiva di tutti gli eventi programmati. Se un teatro nazionale possiede più sale, nel computo complessivo sono inclusi gli spettacoli di ognuna di esse. I numeri si riferiscono ai singoli spettacoli e non alle repliche in uno stesso spazio.
[4] In questo senso (ripeto molto parziale e metodologicamente sbagliato, ma purtroppo tale è la definizione generalmente applicata) sono esclusi dal computo gli adattamenti dei cosiddetti classici o, più largamente, delle opere di terzi. Sono incluse, invece, le riscritture che sembrano comportare un’effettiva operazione “autoriale”, nel senso vagamente inteso più vicino al termine “drammaturgia” qui adottato.
[5] anche se è comunque grave, almeno per quanto mi riguarda, ma questo è un parere personale e perciò lo metto qui in corsivetto
[6] che comunque è del 17.2% su quel 7.07% (il che significa che è dell’1.2 % sul totale)
[7] generalmente, detto sempre in una nota corsivetta e perciò in maniera informale, le repliche sono quasi sempre in numero minore rispetto a quelle di altri titoli
[8] qui si dovrebbe fare un controllo incrociato con i bilanci pubblicati nelle amministrazioni trasparenti ma, ahimè, sarebbe troppo per questo articolo; arrischio ancora una considerazione (che mi sembra sensata però), ossia che di solito essi sono spettacoli con budget minori, e questo perché (riporto tre spiegazioni a mo’ di esempio): 1) affidati a registi di minor grido o più giovani; 2) prevedono cast considerevolmente più ridotti rispetto ai drammaturghi non giovani, italiani e non; 3) non sono mai tra i titoli principali – e perciò più cospicuamente finanziati – della stagione
[9] nel caso si tratti di teatri con più sale, difficilmente sono le sale principali (n.b. sale principali = sale più grandi = più possibilità di introiti SIAE)
[10] su questo è impossibile persino aggiungere qualsiasi commento
[11] particolare che potrebbe sembrare di poco conto, certo, però credo che ogni autore avverta la differenza tra una scrittura su commissione e una scrittura su – diciamo così – libera interpretazione del mondo
[12] riempire i buchi è un conto; inserirli come “quota giovani” un altro; metterli al centro di una progettualità altro ancora
[13] questo punto è messo così, giusto per sognare un po’ che questa figura dell’artista residente si diffonda di più di quanto non lo sia ora
[14] con «vecchiaia» mi riferisco a questioni anagrafiche ma non solo, parlo anche di considerazioni teoriche passatiste rispetto a che cosa effettivamente sia oggi nel mondo (e anche in Italia) una «drammaturgia», ma sul tema rimando a quanto in precedenza si è specificato al punto B; con «disimpegno», invece, intendo il disimpegno di una classe di lavoratori priva di coscienza rispetto al proprio essere classe, condannata a sentirsi sempre come somma di individualità e mai come facente parte di un gruppo artistico più ampio; con «assolutismo», infine, alludo al fatto che anche la drammaturgia, come tanti altri aspetti della produzione teatrale, continua a vivere nella maggioranza dei casi all’ombra di una gestione fortemente gerarchizzata del potere economico e artistico
[15] vi prego, vi prego davvero, riusciamo a dare una spiegazione più profonda all’esplosione delle iscrizioni ai premi di drammaturgia?, un’analisi che vada oltre al “fantastico, si scrive in tanti, tutti vogliono farlo, la drammaturgia torna al centro degli interessi e dei sogni della classe lavoratrice dello spettacolo!”? (spiegazione che in parte sarà anche vera, ma nella sua misura più superficiale: mille iscritti a un premio non ci dicono che ci sono mille drammaturghi né che tutti vogliono nuova drammaturgia, magari semplicemente sono la conferma del lato oscuro della proliferazione dei premi, controparte dal totale disinteresse del sistema produttivo: è l’unico modo per farsi conoscere e, eventualmente, fare un po’ di soldi o di contatti, ma mi fermo qui, il discorso ci porterebbe troppo lontano)
[16] devo dire qualcosa, anche piccola, per dimostrare che non è una lamentatio animi? no, non dirò dei comitati di lettura (che non servono a nulla se non c’è un sistema – anche minuscolo – in cui abbiano un ruolo effettivo; è stato già fatto in passato qualche tentativo a riguardo, cfr. il caso del centro studi “virtuale” di Renato Gabrielli al teatro di Brescia tra il 1997 e il 2001, oppure l’ufficio drammaturgia al Piccolo di Milano all’inizio dell’era Ronconi); non dirò nemmeno delle “quote g.d.i.” o di un nuovo parametro nelle burocratiche scartoffie del FUS… dico, parlo, urlo solo del dramaturg nei teatri, IL DRAMATURG VERO NON QUELLO FINTO (sull’argomento rimando a questo paper).
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Stefano Fortin, classe 1989, si è formato come attore presso l’accademia del Teatro Stabile del Veneto. Lavora come drammaturgo e dramaturg. Tra i suoi lavori recenti: George II (finalista Premio Hystrio-Scritture di Scena 2018, Premio Riccione-Pier Vittorio Tondelli 2019); Cenere, (testo vincitore Biennale Teatro College Autori 2022); Quasi (in Abbecedario per il mondo nuovo); Naufragio (come dramaturg); 35040 (come dramaturg); Orizzonte Postumo (come dramaturg). Ha lavorato presso il Teatro Stabile del Veneto, Biennale di Venezia, Tib-Teatro, Piccolo Teatro di Milano, Pergine Festival. Nel 2023 fonda con Alessandro e Chiara Businaro Bus14, organizzazione artistica, con cui lavora a 35040 (2023) e Pay-per-view (2024).

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