Qui e altrove. La rifrazione social dell’esistenza in RMX

Feb 27, 2025

Lo vediamo accadere tutti i giorni: i confini tra reale e virtuale sono sempre più labili. Stare al mondo, oggi, corrisponde a essere qui e altrove contemporaneamente: a farci dono dell’ubiquità sono gli smartphone con cui documentiamo la nostra esistenza e spiamo il vivere altrui. Dunque è possibile costruire il proprio essere sociale prescindendo dalla rifrazione social di ciò che siamo? E cosa accade se reel, selfie, loop abdicano allo schermo per irrompere nella costruzione drammaturgica di una performance?

Se lo chiedono Pietro Angelini, attore e regista, e Karlo Mangiafesta, artista multimediale e performer, ideatori del concept di RMX, rilettura contemporanea del mito di Narciso, portata in scena dai danzatori Francesca Santamaria e Vittorio Pagani. Uno studio sulle declinazioni del corpo e della sua immagine nell’epoca digitale, nutrito dalla cooperazione tra giovani artisti dalla spiccata cifra autoriale.

Ne abbiamo parlato con Pietro Angelini, regista di RMX che il 1° marzo incontrerà il pubblico del Teatro del Lido di Ostia. 

RMX affronta la permeabilità tra il mondo virtuale e quello reale, a partire da una rilettura del mito di Narciso. La nostra è una società bifronte che costruisce la propria narrazione di sé online e offline, con strumenti di comunicazione e di relazione che, seppur difformi, rintracciano nel protagonismo una fonte comune. In quale specchio d’acqua riflette l’immagine dei personaggi di RMX?

Se nel mito di Narciso lo specchio d’acqua era naturale, quello di RMX è digitale: la superficie touch screen dello smartphone in cui, attraverso la telecamera frontale, i personaggi vedono la loro immagine rappresentata. Da qui comincia il loro viaggio che li porta a sprofondare in questo lago fatto di pixel, risucchiati alla stessa maniera in cui il dispositivo risucchia il nostro tempo e la nostra attenzione. Un viaggio generativo di estetiche ed effetti ipnotici. 

Nel lavorare a RMX avete riunito artisti che conducono, in maniera individuale e in questo caso collettiva, una ricerca di stampo fortemente autoriale. In che modo le diverse autorialità sono state poste al servizio del processo creativo?

RMX è l’incontro di più artisti differenti, il concept originale è nato da me e Karlo Mangiafesta durante una residenza creativa nel contesto di Playtime a Spazio Mensa, a cura di Gaia Petronio e Sebastiano Bottaro, il cui obiettivo era far incontrare per una settimana di residenza un artista performativo (in questo caso io) e uno che si occupasse di arte visiva (Karlo Mangiafesta) e capire cosa potesse nascere. Il successivo trasferimento di Karlo a Madrid ci ha portato poi a proseguire a distanza il lavoro iniziato durante la residenza, continuando sempre a confrontarci ma da quel momento ho preso in mano io il timone della regia, decidendo anche di non essere più in scena, come previsto inizialmente. 

Il lavoro vede in scena Francesca Santamaria e Vittorio Pagani, abbiamo deciso di lavorare con questi due bravissimi danzatori per dare spazio al lavoro sul corpo che infatti domina la prima parte dello spettacolo e riesce a controbilanciare così la seconda parte, in cui si assiste a una vaporizzazione del corpo con le immagini che prendono il sopravvento. Ognuno con le sue competenze è stato fondamentale nel processo creativo, sicuramente il dispositivo digitale che domina la seconda parte l’abbiamo esplorato molto io e Karlo sin dall’inizio e il contributo dei danzatori in questo è stato necessario per amalgamare, legare, far reagire i loro corpi a quel dispositivo, mentre la prima parte è stata interamente creata dai danzatori con la mia supervisione.

Come è intervenuto sulla scrittura l’utilizzo degli smartphone come dispositivo drammaturgico?

Gli smartphone sono collegati in tempo reale al computer attraverso un programma di mirroring che si chiama Reflector, tutto quello che accade sullo smartphone è specchiato su un computer legato a un proiettore. Attraverso questo circuito abbiamo scoperto per esempio che se si proietta con lo smartphone ciò che viene ripreso si crea un loop,  o quello che nella videoarte degli anni 70 prende il nome innesco, vale a dire che nell’immagine si crea un buco infinito, come fosse uno specchio davanti a uno specchio. Questo effetto, così come anche il riverbero, il rewind e tutti gli escamotage tecnici hanno contribuito alla scrittura di RMX che è una scrittura per immagini.

La specificità della creazione performativa, coreutica e multimediale che determina i vostri percorsi artistici trova una sintesi corale in RMX. Da cosa deriva la scelta di adottare tali, molteplici linguaggi?

Ci sono sicuramente più specificità che si sintetizzano in RMX in maniera corale, siamo singoli artisti ma lavoriamo spesso insieme, ci coinvolgiamo a vicenda nei nostri lavori, c’è una stima reciproca e un’amicizia. La scelta di adottare molteplici linguaggi è stata una scelta naturale legata alla mia formazione altrettanto molteplice, utilizzare il video a teatro per me è ormai imprescindibile perché fa così tanto parte della nostra vita che è come domandarsi perché usare la musica o le luci in scena, sono tutti elementi che oggi abitano nello stesso spazio sia a teatro che fuori. 

In The third wave il sociologo Alvin Toffler inventa il neologismo prosumer, una crasi tra produzione e fruizione quali atteggiamenti coesistenti nel consumatore che nell’epoca dei social network ha dato vita a un genere mediale inedito, quello dei contenuti generati dagli utenti. Il pubblico, fruitore di RMX, che ruolo ha? Detiene una parte attiva?

Sì, siamo partiti proprio dal concetto di prosumer, infatti i nostri personaggi prima di agire in scena con la tecnologia, la subiscono. Ci interessava, nella loro traiettoria, contrapporre l’utilizzo passivo e attivo del mezzo. Il pubblico di RMX osserva e fa il suo viaggio, è uno spettacolo ipnotico così come lo è lo smartphone per gli esseri umani, quindi si ricrea quella dinamica. 

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