Quale teatro per il domani? Gli interventi del convegno internazionale curato da Agata Tomšič/ErosAntEros

Ott 5, 2022

24 febbraio 2020, data di chiusura delle attività di spettacolo dal vivo in seguito all’emergenza sanitaria conseguente alla diffusione dell’epidemia da Covid 19.  La compagnia teatrale ravennate ErosAntEros, nell’ambito del Polis Teatro Festival a cui ha dato vita nel 2018, con spettacoli, incontri e progetti partecipativi e a cui è costretta a rinunciare, per le restrizioni imposte, decide ugualmente di realizzare l’evento.

Non una rassegna di spettacoli online, ma un convegno internazionale, con la stessa modalità, svoltosi dal 14 al 24 maggio 2020, i cui interventi sono stati raccolti nel volume qui presentato, Quale teatro per il domani? edito da Editoria & Spettacolo e curato da Agata Tomšič, co-fondatrice, insieme a Davide Sacco, di ErosAntEros. Un confronto che ruota intorno alle cinque coordinate fondamentali del teatro: lo spazio, le parole, le visioni, i linguaggi, i corpi.

Attori, drammaturghi, registi, critici teatrali, musicisti, docenti universitari, si interrogano quindi sul futuro del teatro, sia in relazione alla condizione pandemica, sia per riportare all’attenzione questioni irrisolte sul settore dello spettacolo dal vivo inteso come segmento economico a lungo trascurato dai governi e che il Covid 19 ha fatto emergere con drammaticità. Sia, infine per interrogarsi sul ruolo del teatro oggi, in una società sempre più complessa.

Con 57 interventi di autori provenienti da 11 Paesi diversi, il saggio, scritto in un contesto emergenziale, riflette sicuramente il clima di preoccupazione e paura di non poter riaprire i luoghi della cultura per un lungo periodo, evocando in alcuni punti scenari molto pessimisti come quello, ad esempio, di rinunciare alla centralità del corpo e quindi a tutta la dimensione dell’incontro e dell’interazione con lo spettatore, che sarebbe stato confinato al ruolo passivo tipico del teatro di tradizione e contro il quale avevano lottato le avanguardie teatrali del ‘900.

Anche se, viene ribadito più volte dai relatori, il teatro è sopravvissuto a lunghi periodi di chiusura, dalla peste ai tempi del Boccaccio all’ostilità religiosa nel Medio Evo, ed è destinato a sopravvivere anche alla pandemia da Covid. (Ri-)leggendolo ora, a 2 anni di distanza dallo scoppio della pandemia scaturiscono altre riflessioni sul teatro del periodo post pandemico.

Ci si chiede se e quanto queste siano state anticipatrici ciò che si è verificato dopo. Se la riapertura abbia significato un ritorno alla normalità e nient’altro o se al contrario durante la crisi pandemica la comunità teatrale sia stata capace di raccogliere la sfida della radicalità e del cambiamento e si stia adoperando per realizzare le suggestioni emerse durante i lavori.

La riflessione a partire dallo spazio del teatro, indagato nelle varie declinazioni (fisico, interiore, scenico, aperto, virtuale) ha portato alla constatazione di quanto il teatro debba essere fisico e non virtuale. Gli spettacoli online e in generale tutto l’apparato dello streaming e del digitale hanno dimostrato una loro utilità e funzionalità in mancanza di alternative, ma non possono sostituirsi allo spettacolo dal vivo. Non poter prescindere dalla compresenza fisica di attore e spettatore e di conseguenza da un luogo fisico in cui si possa fare esperienza di questa compresenza. Per questa sua componente rituale molto forte, in parte anche inconscia per lo spettatore, per il suo poter vivere solo nel presente e solo attraverso la relazione con chi guarda e assiste alla rappresentazione, il teatro ha mostrato con la pandemia tutta la sua vulnerabilità.

Il ripensamento dello spazio ha portato però anche ad affascinanti prospettive per quel che riguarda il ritorno nei luoghi aperti della polis, dove è nato, ma con una consapevolezza in più, come suggerisce la docente di estetica del Teatro Daniela Sacco. Quella della rieducazione al giusto rapporto con lo spazio e ad una riabilitazione ecologica degli spazi all’aperto, proprio perché “il virus ci obbliga ad una risposta ecologica”.

Sul capitolo dedicato alle parole del teatro di domani, l’intervento del regista e drammaturgo Marco Martinelli e il suo invito a superare il teatro di parola (sia pure rispettandolo nella sua accezione pasoliniana) per ritornare al teatro della carne. Altra parola pasoliniana di cui si serve per sottolineare quanto il teatro degli ultimi anni sia stato sovraccarico di parole, confinato nella visione del drammaturgo che forse ha perso il contatto vitale con l’attore. “Qualunque accadimento ci ispiri, qualsiasi terremoto smuova la fantasia, con il respiro degli attori dobbiamo alla fin fine fare i conti se desideriamo che il verbo si faccia carne”.

Il passaggio dall’autore/parola all’attore/carne, “la prossimità della scrittura drammaturgica all’azione del palco”, insomma, sarebbe un passaggio essenziale perché ciò a cui assiste lo spettatore possa coinvolgere, scuotere, sconvolgere.

Florian Hirsch, capo drammaturgo del Théatre National du Luxemburg pensa invece alla parola  revolver per il teatro di domani rifacendosi al titolo dell’album meno accomodante e meno carino dei Beatles, accentuandone la portata destabilizzante, soprattutto in tempo di crisi.

Marco Sgrosso, attore, regista e pedagogo, ma insieme a lui molti altri che per motivi di spazio non cito, hanno denunciato il teatro presenzialista e opinionista in cui ci si è adagiati negli ultimi anni, in cui le parole sono state sempre troppe e ne propone tre: cuore, coraggio e contagio, inteso come gioia contaminante.

Ma questo non avviene, se il teatro perde la connessione, altra parola emersa dal convegno, con la propria comunità di riferimento, per cui oltre a non essere compresi come artisti si corre anche il rischio di essere invisibili a livello sociale. È quanto sostenuto dallo storico del linguaggio Renzo Francabandera che, dati alla mano, ha rilevato quanto spesso le persone non considerino quello dell’artista un vero lavoro e non ritengano grave la crisi che li aveva colpiti.

“Da un lato la comunità che non sente l’esigenza del tuo linguaggio, dall’altro l’assenza di tutele che tu stesso, in quanto artista, hai accettato pur di praticare la tua arte, un mix esplosivo”. Mancanza di tutele sindacali, contratti atipici, discontinuità lavorativa, che riguarda non solo le compagnie e gli artisti ma anche le maestranze impegnati negli spettacoli dal vivo sono gli aspetti drammatici emersi con il Covid ma di cui prima si sapeva poco per chi non è del settore.

Un’altra parola, tra quelle suggerite al convegno, questa volta dal docente universitario Gerardo Guccini, è quella presa dalla Grecia antica dell’isegoria, che significa prendere la parola durante l’assemblea e di cui è un esempio il coro della Supplici di Eschilo. Opera a cui si aggancia Guccini per rimarcare che “la libertà di prendere la parola è una componente endogena del fare teatrale”. La definizione di endogena richiama la dimensione organica e corporea del teatro di cui scrive Martinelli sopra, a cui bisogna fare ritorno per riscoprire un teatro vivo, come arte dellassembramento e di conseguenza, arte politica. Solo a quel punto la parola, conclude Martinelli citando Gli uccelli di Aristofane “mette le ali. Spinta dalla parola, la mente si solleva nell’aria e l’uomo si alza da terra”.

Dopo le parole, le visioni. Dall’immagine onirica della nave piena di teatranti che spicca il volo, perché “Il teatro è uscito dai teatri, non ci stava più, non si trovava più a suo agio” dell’attrice Elena Bucci, alla grotta raccontata dal disegnatore Jean Emile Longuemare, simile a quella di Platone in cui l’uomo parla con le ombre, nella solitudine, perdendo il senso del tempo. In realtà è la visione del teatro al tempo della pandemia, un tempo sospeso, forse necessario per poter fare tabula rasa e “ri-andare incontro alla società”, che è cambiata e il teatro non se n’è accorto. O la visione di Ermanna Montanari, attrice e drammaturga,  che scaturisce dal coltivare la bellezza anche in tempo di guerra. Se nel confinamento imposto dal coronavirus non c’è possibilità di pensarsi come attori/autori né nella dimensione del corpo né in quella della relazione col pubblico, si può continuare a dipingere i fiori, accogliere il silenzio e la bellezza che stava regalando in quel periodo la natura, certi di questa visione finale di meraviglia.

Le riflessioni sui linguaggi, riallacciandosi in parte a quelle sulle parole, hanno messo in discussione ancora una volta il teatro di parola (inteso, questa volta, dal produttore d’arte intermediale Borut Jerman, nel senso di teatro di chiacchiera) ma anche il teatro disturbante quale poteva essere ad esempio il Living Theatre, essendo entrambi riferiti a quella società borghese che attraverso il teatro celebra se stessa. No quindi al teatro come vetrina e rito sociale, ma teatro come rito religioso e culturale qual’era in origine. Solo così l’elemento dionisiaco rientrerebbe nella sua originaria residenza. Così come gli attori Fiorenza Menni e Andrea M.Sismondi chiedono di fermare l’autoreferenzialità del teatro e rafforzare invece la sua capacità di leggere nella realtà il cambiamento e comunicarlo al pubblico. Ricordarsi che il linguaggio teatrale si manifesta in una pratica e che è sempre in divenire, mai definito, anche se questa vitalità è stata smorzata sempre di più dal voler pensare il teatro, fino al rischio di fissarlo, fermarlo (Silvia Pasello, teatrante).

Il linguaggio del teatro di domani, infine, sarà aperto alla multimedialità, come spiega il compositore Luigi Ceccarelli. Proprio le tecnologie digitali, messe alla porta dalla maggior parte dei relatori perché inadeguate a sostituire lo spettacolo live, rientrano come elemento strategico per ampliare le potenzialità della performance dal vivo e, in un certo senso, di portare a compimento le intuizioni di Gropius, Piscator e Artaud sulla necessità di un teatro capace di ricondurre linguaggi artistici diversi ad un linguaggio onnicomprensivo. Aggiungendo poi che “oggi siamo veramente in grado di realizzare il teatro della complessità”.

Contaminazione delle arti, competenze diversificate, lavori di gruppo, collaborazioni con artisti di formazioni diverse e di differenti culture, utilizzo delle tecnologie digitali per creare spettacoli multisensoriali, questo il linguaggio suggerito dal compositore che poi descrive le potenzialità del suono, in grado di riempire lo spazio scenico, diventare esso stesso scenografia, come in Ouverture Alcina.

Infine la parte finale dedicata al corpo, duale, formato da attore e spettatore, che il Covid ha trasformato in qualcosa di minaccioso. Un pericolo per il teatro che è, dice l’antropologo Piergiorgio Giacché, corpo. Spazio, tempo e corpo sono gli elementi del teatro e, aspetto su cui riflettere, lo stesso testo teatrale, è corpo. Conclude il saggio la postfazione di Marco De Marinis.

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