Processo a Galileo: riflessione su scienza, tecnica, Uomo, natura

Gen 29, 2024

Articolo a cura di Barbara Berardi

Per fuggire dal labirinto oscuro dell’incertezza, della paura e dell’ignoranza l’Uomo si è sempre affidato a strumenti afferenti all’intelletto, al giudizio e alla scienza. Il progresso scientifico ha fatto nascere, nel tempo, un dibattito riguardo l’ineluttabile avanzamento della scienza nelle nostre vite e le sue ripercussioni etiche e morali.
Questo pensiero, come un seme pronto a germogliare, ha trovato terreno fertile in un lavoro complesso e sofisticato, scritto e diretto a più mani e messo a punto durante il periodo di pandemia.

Processo Galileo, in scena al Teatro Vascello dal 19 al 27 gennaio, nasce dal bisogno impellente di interrogarsi ancora sul rapporto trasversale tra conoscenza, natura, tecnologia e potere.
Per la sua prima produzione per il TPE-Teatro Piemonte Europa, Andrea De Rosa collabora con il regista Carmelo Rifici, direttore artistico di LAC-Lugano Arte e Cultura, per portare in scena un lavoro ispirato alla figura di Galileo Galilei, protagonista assoluto della rivoluzione scientifica per aver introdotto il metodo scientifico e per aver contribuito con le sue scoperte alla caduta delle certezze di un’epoca.

Grazie alla scrittura fitta e articolata di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi – prezioso il contributo della dramaturg Simona Gonella -, lo spettacolo indaga gli interrogativi del mondo contemporaneo muovendosi su tre piani drammaturgici apparentemente lontani nel tempo e nello spazio.

La prima parte consiste in un prologo, in cui vediamo Galileo Galilei (Luca Lazzareschi) chiuso nelle stanze della Santa Inquisizione dopo essere stato condannato per le sue scoperte.
In un dialogo epistolare con sua figlia Virginia (Roberta Ricciardi) e il discepolo Benedetto (Giovanni Drago), assistiamo presto alla sua caduta sotto i colpi solerti e implacabili dell’accusa (Milvia Marigliano) mentre elenca i motivi della condanna.

Filologicamente costruita sugli atti processuali e i carteggi scambiati durante il processo del 1633, la scelta dell’utilizzo del materiale seicentesco permette al pubblico di entrare in contatto con il linguaggio e le conoscenze dell’epoca, così da saggiare il tormento esistenziale dello scienziato e i motivi che lo hanno portato ad abiurare.
Le ripercussioni di questo evento, della sua scienza e della sua abiura, trovano conferma nel futuro presente, attraverso la figura di Angela (Catherine Bertoni de Laet): giovane madre e ricercatrice alle prese con la scrittura di un articolo sul rapporto tra scienza e società. 

All’interno di una dimensione piú intima e narrativa, i suoi dubbi irrisolti riguardo al rapporto tra scienza ed etica e l’incapacità di accettare la limitatezza della vita umana, cercano risposte in un dialogo surreale con il fantasma della madre, da poco deceduta, e quello dello stesso Galileo.
Marigliano lascia gli abiti della Santa Inquisizione – basta appoggiare un lungo cappotto rosso al lato del palco e indossare un grembiule – per incarnare cosí la saggezza popolare, le credenze religiose e contadine di questa madre che non può, o forse non vuole trovare risposte alle domande della figlia: «Angela queste cose non si possono scrivere, ma devono rimanere sepolte».

In questa parte, emerge tutto il dolore della donna, divisa tra la fiducia nel divenire e nel progresso scientifico – che traspare dal confronto con lo scienziato – e lo sconforto per la perdita degli affetti, ormai privata del conforto della fede nell’elaborazione del lutto.
Ma come tenere insieme cura e conoscenza? Perché l’anelito alla scoperta e al sapere deve lasciare il giusto spazio alla premura dell’altro e di ciò che ci circonda: la natura, il cosmo, la terra.
Quest’ultima diventa così elemento ricorrente in tutto lo spettacolo; simbolo dell’evoluzione biologica e del ciclo vitale, luogo di appartenenza, di nascita, ma anche di morte.
Il discorso analitico, ricco di precetti tecnici e tesi scientifiche di Galileo/Lazzareschi, trova ampio respiro nei brevi ma efficaci interventi ironici della Marigliano.

Nella terza e ultima parte, le coordinate temporali e spaziali collimano in una dimensione atemporale dove assistiamo all’ultimo processo a Galileo.
Un futuro lontano, nel quale tutti i personaggi – in particolare la figura di un militante politico senza tempo (Isacco Venturini) – si uniscono all’unisono nel coro di invettive contro lo scienziato, visto non solo come imputato di un tribunale ecclesiastico, ma come portavoce di un processo storico e culturale che ha portato l’umanità ha dipendere completamente dal progresso dei dispositivi tecnologici.

Impossibile non parlare della scenografia. La messa in scena trova una cornice essenziale nell’apparato scenico artigianale di Daniele Spanò: un paesaggio lineare, saldamente ancorato a un perimetro di mantegni, in armonia con il rigore scientifico tanto declamato.
All’interno di questo spazio confinato ritroviamo il cuore di questo lavoro, la terra,  che nella rilevanza della sua organicità viene toccata, calpestata e coltivata dai diversi protagonisti.

Questo progetto trova perfetta coesione con il disegno luci di Pasquale Mari, la produzione sonora di GUP Alcaro e la scelta dei costumi di Margherita Baldoni, che predilige uno stile evocativo e dal forte impatto cromatico di rimando ai colori dell’iconografia secentesca.
Abili gli attori nel sostenere un testo con linguaggi, modalità discorsive e tematiche differenti.

Al termine dello spettacolo, il buio totale in sala è ostacolato dalla fiamma tremolante di una candela lasciata accesa in proscenio. Perché per quanto il futuro spaventi, la speranza risiede silente nei cuori di chi parla: «Il labirinto cresce ma la luce avanza».

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