A cura di Cecilia Cerasaro
Due attori illuminati da una luce soffusa, un uomo e una donna , stendono con cura teli multicolori a terra, nell’atmosfera confidenziale della sala del Mattatoio. Il palcoscenico, così sezionato dalle estrose geometrie dei tessuti, inizia a trasformarsi in una carta geografica, una foto satellitare di campi coltivati nella parte del mondo che dà il nome allo spettacolo portato al Romaeuropa Festival dalla compagnia Lagartijas Tiradas al Sol.
Centroàmerica è il racconto autobiografico del viaggio di una coppia di artisti messicani, Luisa Pardo e Lázaro Gabino Rodríguez, alla scoperta degli stati che si estendono oltre il confine meridionale del loro Paese. Se nell’immaginario postcoloniale il Messico è spesso considerato parte di quell’orizzonte politico e sociale che viene definito Sud Globale, giunti nel vicino Guatemala i due autori-attori realizzano che, dalla prospettiva di chi vive in questa terra e in tutto il restante Centro America, “il nord sono loro”.
Cosa succede se chi cerca, attraverso il teatro, di amplificare la voce del proprio popolo, un popolo oppresso di subalterni, si scopre privilegiato e figlio a sua volta di una nazione di oppressori? Lázaro e Luisa, al contempo attori e personaggi, realizzano che il Messico è politicamente per gli altri centroamericani come il muro voluto da Trump a sud degli Stati Uniti per fermare l’immigrazione. A questo punto la loro convinzione di poter ispirare a quell’esperienza e a quel viaggio il loro prossimo spettacolo comincia a vacillare.
Rimane però inaccettabile, per un osservatore critico e per un artista, tacere davanti all’ingiustizia, rinunciare, sia pure per uno scrupolo intellettuale, a smascherare la coercizione politica ed economica e a denunciarla al posto di chi non può farlo, pena la morte.
Nella prima parte dello spettacolo Lázaro e Luisa dichiarano da subito di non riuscire a trovare un tema unico per lo spettacolo che si erano messi in testa di portare in scena. Gli attori prestano il loro corpo e la loro voce alle tante vittime, ai tanti testimoni che hanno incontrato durante il tragitto in Centro America.
Attraverso di loro tutte le persone, costrette al silenzio, possono parlarci della violenza dei regimi dittatoriali e della criminalità organizzata, della distruzione portata in Guatemala, Belize, Nicaragua, San Salvador, Panama, Honduras e Costa Rica da multinazionali, capitalismo, povertà e cambiamenti climatici.
Nella speranza che queste storie possiedano la forza per raccontarsi da sole, i due personaggi-attori accostano, come in un reportage giornalistico o in un documentario, video di attivisti, di generali e di politici, stralci di conversazioni non registrate che loro possono riferire, scene stampate nelle loro menti che possono riprodurre, letture di saggi o di pagine di diari, episodi autobiografici.
L’azione scenica però non basta: Lázaro e Luisa continuano a chiedersi con quale diritto si possa parlare al posto di chi subisce una discriminazione diversa e più dura della propria. Non basta perché non si può negare che solo un cieco atto di fede possa spingere due attori a credere nel teatro e nella sua utopica pretesa di cambiare questo mondo, come risulta alla prova dei fatti.
Con quella che sembrerebbe una dichiarata e inappellabile disillusione sul senso ultimo dell’arte performativa e dell’attività intellettuale nel mondo contemporaneo, ma anche sulla possibilità, insita all’arte scenica, di fingersi legittimamente e di parlare per qualcun altro, si conclude la prima parte dello spettacolo, la pars destruens. Il secondo atto si apre con l’improvvisa scoperta di un chiaro e ormai insperato scopo del viaggio dei due artisti.
La rifugiata nicaraguense María , impossibilitata a tornare nel proprio Paese, chiede a Luisa un favore: l’attrice, che può passare il confine, dovrebbe recarsi nel cimitero dove è seppellito il fratello della donna, morto di covid nel 2020, e farlo spostare dalla fossa comune alla tomba di famiglia dove riposa la madre. Per farlo, però, Luisa dovrà spacciarsi per lei, vestire i suoi panni davanti alle autorità, commettere un reato in un Paese retto da una dittatura.
Contro ogni aspettativa Luisa accetta, ma il vero colpo di scena per lo spettatore è la dimostrazione dell’utilità pratica e sociale dell’arte teatrale. L’attrice mostra come, dopo aver imparato l’accento e le tradizioni nicaraguensi dalla comunità delle rifugiate, parte per Managua indossando i gioielli, i vestiti e la vistosa parrucca di María Luisa indossa così nei panni del perseguitato politico. Non si tratta più di fingere, di provare a immaginare, dal punto di vista del privilegio, la situazione di chi è stato meno fortunato, ma di sperimentare l’ingiustizia sulla propria – nuova- pelle.
Mentre Luisa cerca di rievocare dentro di sé quel legame fraterno che guiderà la sua interpretazione, nella mente e negli occhi dello spettatore si ricompongono i connotati di un’Antigone che si mette all’opera contro ogni legge per dare degna sepoltura al fratello. È così che la messa in scena, nella sua forma più primordiale di finzione interessata, riacquista la propria semantica e dimostra che la comprensione e la compassione (in senso etimologico) sono possibili quando ci si sforza davvero di vivere la vita di un altro.
Un progetto di: Lagartijas Tiradas al sol
Performance e coordinamento: Luisa Pardo e Lázaro Gabino RodríguezScena e light design: Sergio López Vigueras
Design del fondale e realizzazione: Pedro Pizarro
Assistenza alla regia: Macaria Reyes
Supporto artistico: Mariana Villegas, Chantal Peñalosa
Image design: Cecilia Porras Saénz
“María”: Ella FuerteTestimoni: Dora Maria Tellez, Gabriela Selser, Rafael Camacho, e tutte le donne del Nicaragua che hanno condiviso le loro storie ma che non possono essere nominate per ragioni di sicurezza.
*Membri di Sistema Nacional de Creadores de Arte 2020-2023
Una produzione di Lagartijas Tiradas al Sol con la collaborazione di Centro Cultural España en México, Teatro Casa de la Paz, UAM. Théâtre Joliette e Théâtre de Lenche, Marseille, e Pontificia universidad Católica del Perú.
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