Pinocchio e le avventure carsiche del Teatro di Figura. Comentale racconta Casa di Pulcinella

Giu 14, 2022

La forma del legno cambia se se ne fa una favola. Tuttavia la tavola resta legno, cioè un oggetto comune che cade sotto i sensi. Ma non appena si presenta come merce, allora la questione è tutt’altra. Insieme afferrabile ed inafferrabile, non le basta più di posare i piedi sulla terra; essa si drizza per così dire sulla sua testa di legno di fronte alle altre merci e si abbandona a dei capricci più bizzarri come se si mettesse a ballare. 
K. Marx

All’interno della quarta parte del capitolo primo de Il Capitale Marx riflette sul carattere di merce come fantasmagoria intangibile, la cui identità prende forma nel momento in cui incarna a pieno il suo carattere mutevole. Paolo Comentale ci ha raccontato le sue storie di legno, che sono quelle di Pinocchio, delle assi della Casa di Pulcinella di Bari, di cui è direttore artistico, e di un teatro di figura che affonda le sue salde radici in una dimensione di sacralità tradizionale, che con attenzione capillare non smette di insegnare al pubblico del suo tempo l’importanza di raccontare, ancora, storie fatte di lentezza e accoglienza. 

La storia di Pinocchio che avete scelto di raccontare è poco conosciuta dai bambini, con elementi che non vengono spesso approfonditi. Quali scelte avete fatto sul racconto e su quali elementi vi siete concentrati?

É un po’ il cuore dello spettacolo, Pinocchio è un capolavoro assoluto, i primi quindici capitoli, fino a quando lui viene lasciato impiccato dagli assassini al ramo della quercia grande, prima che venga salvato dalla fatina, i primi quindici capitoli della avventure di un burattino di Carlo Collodi sono un capolavoro assoluto. Sono una storia con una bellezza, una forza, un ritmo straordinario e innanzitutto c’è l’Italia per come era e per come è stata raccontata. C’è l’Italia delle osterie, dei ladroni, c’è l’Italia che cerca di campare con poco, della povertà dell’emigrazione, del freddo e del dolore e tutto questo raccontato con grandissima leggerezza, con una lingua molto bella a cui non riusciamo sempre a rendere giustizia. perché da un lato ci sono le speranze, dall’altro c’è la realizzazione formale dello spettacolo e sono cose un po’ diverse. Gli obiettivi sono molto alti, ma fra il dire e il fare c’è di mezzo il pubblico. 

La lingua è una meravigliosa lingua Italiana, che stiamo perdendo in maniera preoccupante, perché non riusciamo più a usare le parole giuste, eppure è un idioma meraviglioso che ha tantissime sfumature che noi nemmeno sospettiamo. Pinocchio è anche una storia profondamente italiana, è una storia che interessa l’italiano compreso nell’ottica della Commedia dell’Arte. Quando pinocchio sbarca nel teatro di Mangiafoco trova le due grandi maschere Pulcinella e Arlecchino, Collodi non inserisce le maschere toscane, nonostante sia un toscano doc, ma inserisce quelle che sono fondamentalmente il senso profondo del nostro paese. Si è sempre detto che la Commedia dell’Arte sia la sintesi fra lazzi napoletani e trame lombardo-venete. Le due facce della stessa medaglia che è l’Italia. Pinocchio, inoltre, si presta molto a rappresentazioni con teatro di figura perché Pinocchio è un personaggio totem, una maschera nuda, come diceva un tale molto conosciuto, nato in un’isola che è un mare di luce. Solo Carmelo Bene è riuscito a rendere attore in carne ed ossa, ma nessun altro ci è riuscito, mentre con le marionette si può rendere molto bene questa figura che è una figura archetipica. 

Le illustrazioni da cui è partito lo spettacolo, Pinocchio è o sovrastato a livello dimensionale oppure sovrasta diventando molto grande, che tipo di lavoro avete fatto a partire delle immagini, che importanza hanno avuto nella realizzazione?

Abbiamo lavorato con le immagini di Emanuele Luzzati, per la casa editrice Nuages di Milano diretta da Cristina Taverna, casa editrice che lavora con illustratori, italiani e europei, a cui sono affidate le illustrazioni di testi molto conosciuti, e Luzzati ha illustrato Pinocchio. Dalle sue immagini sono venuti fuori questi personaggi che noi abbiamo cercato di usare per rappresentare la storia, ovviamente non esattamente così come viene raccontata, perché la pagina ha una sua densità, una sua scansione che non riuscirà mai a dare la traduzione simultanea. Noi nell’idea che abbiamo provato è quello di selezionare i primi quindici capitoli, lavorando sulle immagini di Luzzati, che sono immagini molto legate alla dimensione del bianco e nero, e questo funziona.

Il festival La Macchina dei sogni, quest’anno parte dal binomio fra individuo e società e dentro/fuori, sicuramente quella di Pinocchio è una storia che ben si lega a queste associazioni, in che cosa pensi risieda questo legame?

Vorrei innanzitutto parlare di un sentimento di gratitudine e riconoscenza, molto profondo legato alla Macchina dei sogni, e all’associazione Figli d’arte Cuticchio, alla figura di Mimmo Cuticchio e Elisa Puleo, sono persone a mio avviso straordinarie, che sono riuscite a fare in un momento non facile, in una situazione complicata, come quella di una metropoli del sud come Palermo una continuità dal punto di vista artistico, culturale e professionale. Ho iniziato a conoscere l’esperienza dell’associazione figli d’arte Cuticchio dal 1982 a Palermo, quando a Novembre andavamo a fare gli spettacoli, negli anni in cui il quotidiano L’Ora usciva con notizie funeree , quindi ho un legame molto profondo con loro, ci tengo a sottolinearlo sempre. 

Noi artisti viviamo di questo, non siamo persone staccate da quello che facciamo. C’è una bellissima poesia di Nazim Hikmet che dice “Ho attraversato il mio tempo, con le persone del mio tempo”, frase che trovo estremamente complessa, io nel mio piccolo, ho attraversato la mia esperienza artistica con i miei compagni di strada, con gli artisti del mio tempo e uno dei più luminosi è proprio Mimmo Cuticchio e tutta l’associazione figli d’arte Cuticchio. 

Parlando della Casa di Pulcinella, è una realtà che esiste dal 1983, e porta avanti questa tradizione molto rigorosa che è quella del teatro di figura, nel corso degli anni, come avete percepito il cambiamento del pubblico, in che modo è cambiato il modo di guardare il teatro di figura?

Secondo me il teatro di figura non è mai andato via, in maniera carsica, ma specifica e speciale, ha sempre appassionato, interessato e colpito il pubblico. Noi abbiamo iniziato le prime mosse del nostro lavoro alla fine degli anni ’70, nei primissimi anni ’80, perché eravamo tutti presi da un’infatuazione politica molto forte, pensavamo di fare la rivoluzione, a quei tempi non si poteva fare altro. Era difficile fare rivoluzione con gli strumenti che la politica ci offriva, forse è ancora più difficile adesso. Quindi ci buttammo a fare queste opere abbastanza sconosciute in questo teatro di burattini, in cui già allora al mio maestro domandarono negli anni ’70, se si rendesse conto che la sua arte non servisse più a niente. Adesso i bambini pensano ad altre cose, questo fatto ci ha accompagnato per tutta la vita e ci accompagnerà ancora. Prima era il cinema, poi la televisione, poi i video, poi i videogiochi, adesso internet. Le sirene attorno al mare di Ulisse dei burattini, del burattinaio che fa gli spettacoli hanno sempre cantato, però in fondo è rimasta una constatazione importante, l’uomo non smetterà mai di interessarsi alle storie, alla narrazione. 

É sempre stato così dai tempi di Omero, quindi non vedo perché debba cambiare adesso. Nella pratica  però è cambiato molto, ad esempio prima i nostri spettacoli di burattini erano realizzati per le scuole elementari e le scuole medie, non per gli asili perché erano troppo difficili per gli asili, Bambini dagli 8 ai 14 anni, adesso per bambini dai 3 ai 6 anni. C’è una scomparsa progressiva dell’infanzia, questo mi spaventa, una scomparsa culturale, la straordinaria energia creativa dell’infanzia è sempre messa più nell’angolo, per questo il teatro mantiene un valore enorme, perché contribuisce a mantenerla in vita. Il nostro pubblico ha però accresciuto tutta una serie di nuovi spettatori, che vengono da lontano, da noi ci sono, una serie di nuove realtà che si muovono in un moto perenne verso posti migliori di vita, incontrano accanto alla cultura della città, il nostro teatro. 

Quello credo che abbia avuto un senso in questa esperienza è stato, come per l’associazione Figli d’arte Cuticchio ricreare un teatro di Pupi, così è per noi creare qualcosa che non esisteva, cioè un teatro che io ho voluto chiamare casa, quando questo termine creava molto scalpore. Negli anni 80, nessuno chiamava casa un teatro, era molto strano, sembrava quasi un delitto di lesa maestà. In realtà adesso l’idea della casa legata alla dimensione artistica è un’idea estremamente comune. Ho pensato a Pulcinella perché sono nato a Bari, ma ho origini napoletane, ricordo molto bene da piccolo questa dimensione del teatro che pervade e invade la città, una forma di confuso ma sempre strepitoso determinarsi dell’esperienza artistica accanto all vita quotidiana, i miei genitori che venivano da Bari si accorgevano che nel mercato a Bari si parlava solo dei costi della merce, nessuno cantava o declamava o recitava, non c’erano canzoni, solo costi e rincari. Palermo e Napoli sono città molto vicine e simili, sono città osmotiche, per me identitarie. 

Qual è il tuo primo ricordo di teatro di burattini e come ha influenzato poi il tuo lavoro a teatro?

Mio padre mi racconta una storia, del suo ritorno dopo dieci anni di avventure in Africa durante la guerra, dieci anni da conquistatore in Etiopia e dieci anni da conquistato in un campo di prigionia inglese, lui dice sempre di essere sbarcato a Napoli nell’agosto del ’46 era partito nell’ottobre del ’35, quando arrivò a Napoli, la grande festa del Carmine era appena finita e lui si trovò solo un tappeto di bucce e le luminarie spente, però sentì una voce, che era la voce di Pulcinella, quella con la pipetta e la voce di Pulcinella lo accolse con un teatrino. E in questa grande festa ciò che era rimasto al di là delle giostre, le canzoni e la festa erano i burattini. 

Io lo prendo come un segno di speranza, un progetto di impegno per il futuro, questo è uno dei miei ricordi più profondi. La mia prima esperienza diretta invece, come tanti bambini a Napoli, è stata con il teatrino delle Guarattelle e quando provai a farlo, ebbi subito un successo clamoroso, moltissimo pubblico che voleva vederlo, ma che mi spaventò. Questa dimensione dei burattini è legata ai ricordi più profondi della mia infanzia e a delle mozioni riguardo al fatto che poi quando mi sono misurato io a fare il teatro dei bambini per i bambini è stato ancora più emozionante. 

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