Peso Specifico, alla scoperta del Teatro Armonico Integrato

Mar 20, 2023

L’inesauribile ricchezza del mondo delle fiabe per incantare e trasportare nel mondo dei sogni e della fantasia, ma anche per raccontare la realtà con i suoi chiaroscuri e sensibilizzare sulla violenza di genere, l’esclusione e l’ambiguità dei ruoli sociali. Tematiche forti che vengono filtrate attraverso atmosfere surreali, incrociate ai testi di Karl Valentin e a personaggi storici come quello di Ipazia. Questo il lavoro portato avanti dal 2009 dalla compagnia di Modena Peso Specifico Teatro, nata dall’incontro tra Roberta Spaventa, direttrice artistica, Alessandra Amerio e Santo Marino

Ciascuno proveniente da esperienze formative e professionali differenti, la compagnia si occupa soprattutto di nuova drammaturgia, formazione e prevenzione, spaziando tra spettacoli e performance, podcast, laboratori, installazioni, interventi didattici e azioni di comunità. “Attraverso la metodologia del Teatro Armonico Integrato – ci spiegano –  utilizziamo lo strumento teatrale ed attorale, in sinergia con altre discipline, per lavorare in diversi ambiti del tessuto sociale, educativo e culturale”.

Il nome Peso Specifico Teatro prende spunto dal concetto fisico di peso specifico: il peso di un campione di materiale (dunque una forza) divisa per il suo volume. Tale valore, come sappiamo, cambia a seconda del materiale preso in considerazione. Noi ne abbiamo fatto il nome della nostra compagnia per mettere in rilievo due aspetti apparentemente in contrasto: da un lato il costante valore dato dal materiale artistico a cui è associato: il teatro. Che ha un suo peso specifico diverso da altri materiali scelti come fili conduttori di un’intera esistenza. Dall’altro il continuo cambiamento del nostro Peso Specifico fatto di persone in evoluzione costante. Il cui materiale psichico oltre che artistico, cambia nel divenire della propria ricerca di vita. Questo ultimo concetto si lega alla missione del nostro lavoro teatrale. Un teatro armonico integrato per la cura della persona e della comunità che include, dunque, nel proprio peso specifico in divenire, tutte le persone che progressivamente orbitano attorno al nostro teatro”.

Parliamo di Alice a quel Paese, lavoro che avete riportato in scena dedicato al tema dell’identità

Alice a quel Paese è nato quindici anni fa, prima ancora che esistesse la compagnia. L’idea e la costruzione del lavoro, infatti, sono a cura di Santo Marino insieme a Cristina Carbone, entrambi anche interpreti dei personaggi. Dopo una lunga assenza dalle scene, quest’anno abbiamo avuto l’occasione di riprendere lo spettacolo e di rielaborarlo un po’ attraverso l’uso di linguaggi diversi, ad esempio con l’uso delle videoproiezioni.

Il tema principale è quello dell’identità. Alice viene da noi collocata, sin dal principio, in una dimensione meta-teatrale: la caduta nel mondo delle meraviglie coincide con una sorta di inciampo all’interno della scena, in quel luogo magico ma non sempre rassicurante che si cela dietro il sipario.

Allo stesso modo, i personaggi incontrati in quel mondo sono chiaramente maschere indossate dallo stesso attore e dal suo alter-ego, il Pesciarolo. La piéce, infatti, inizia con un gioco linguistico di questo personaggio inventato di sana pianta, il quale prende in giro la protagonista paragonandola ad un’alice (nel senso della specie ittica). Il battibecco tra i due sfocia nel mandarsi reciprocamente a quel Paese e, in un certo senso, ci finiscono entrambi, dato che Alice sembra confondere tutte le creature del mondo di là, dal Coniglio al Cappellaio, dal Bruco alla Regina, con il famigerato Pesciarolo.

Giochiamo molto su questa confusione di identità, anche per accentuare il senso di smarrimento che Alice prova lungo tutto il percorso fino a diventare lei stessa Regina. Quando atterra in quel Paese, infatti, Alice non sa più dov’è ma soprattutto non sa più chi è: come in una partita a scacchi, deve un po’ ragionare con se stessa e un po’ abbandonarsi all’incontro con l’altro, per poi tornare con alcune risposte e altrettante nuove domande… E se facessimo tutti parte dello stesso sogno?.

Un altro spettacolo, Barbablù, è stato dedicato alla tematica della violenza di genere. Perché avete scelto di far interpretare il ruolo della vittima a due donne invece che una sola? Volevate esprimere il dualismo del femminile?

Barbablu – ci racconta Roberta Spaventa – è uno spettacolo che attraversa le dinamiche della violenza trasversalmente, per aprire a quella parte di sé a contatto con la ferita e permettere una riflessione prima di tutto emotiva, ma anche cognitiva, delle dinamiche di dipendenza e violenza. Le due figure femminili, prima bambine poi giovani donne, rappresentano le due parti complementari di una unica donna: l’una che sorride ingannandosi e l’altra che urla dimenandosi. Il percorso dello spettacolo sottolinea le aspettative e i valori sociali che stanno all’origine della violenza di genere, costruzioni sociali capaci di ingabbiare sin dalla prima infanzia, creando quell’humus condiviso necessario al proliferarsi della violenza di genere come fenomeno pervasivo e diffuso. Nel finale viene rappresentato un ipotetico tribunale dove il popolo gioca a turno il ruolo di accusato e accusatore, in un eterno ciclo che pare esistenziale, ma così non è.

Emergono tematiche quali il dolore, lo svilimento e la sfiducia che spesso l’essere umano vive su di sé in prima persona, senza avere strumenti per compensare e trasformare questa mancanza. Così il circolo della violenza si instaura nel rapporto con se stessi e con gli altri, creando dinamiche di difficile scioglimento. L’humus sociale diviene elemento essenziale di riflessione e responsabilità condivisa. Nella presa di coscienza di tali radici e il sottrarsi a questo gioco rimanendo nella propria ferita, per poi sanarla attraverso un percorso personale, sta lo scarto finale dell’intero spettacolo. Infatti, pur seguendo le fila della fiaba, nella convinzione della responsabilità totale dell’essere adulto nel compiere violenza, cerca una risposta sulle radici di quest’ultima e delinea un’ipotesi di cambiamento possibile.

Lo spettacolo si inserisce in un progetto molto più ampio. Rappresenta un detonatore emotivo per una comprensione più profonda delle dinamiche della violenza di genere. La compagnia, infatti, propone molte azioni collaterali per affrontare la tematica principale della violenza: percorsi di prevenzione nelle scuole, formazione per educatori, operatori ed insegnanti, un laboratorio di scrittura creativa sulle figure femminili vittime di violenza e diverse performance.

C’è un autore in particolare o qualche punto di riferimento nel vostro percorso artistico e nel vostro modo di proporre la fiaba che vi ha influenzato?

La fiaba è sicuramente un riferimento che utilizziamo nel lavoro di costruzione degli spettacoli e nei percorsi di formazione. Le fiabe sono luoghi fecondi di insegnamenti, di archetipi e di percorsi catartici che rendono più accessibili le dinamiche complesse della vita. Con le fiabe abbiamo lavorato e lavoriamo in maniera trasversale, sfuggendo l’idea che si tratti di un terreno d’indagine legato esclusivamente all’infanzia. Parallelamente, cerchiamo di portare alle bambine e ai bambini strumenti utili per la loro crescita, attingendo da immaginari che andiamo dipanando, in ascolto con le esigenze e le peculiarità del target con cui entriamo in relazione.

Uno dei punti di riferimento per noi è sicuramente il volume Donne che corrono coi lupi della scrittrice e psicoanalista junghiana Clarissa Pinkola Estes, testo sempre presente sulla nostra scrivania e a disposizione per essere consultato ed utilizzato come mappa cognitiva ed emotiva, per avvicinarci al tema del femminile (presente in entrambi i sessi) in ottica evolutiva, con profondità e consapevolezza. Dallo studio di questo testo sono nati alcuni spettacoli come Barbablu e Vassilissa e la Baba Jaga, ma anche un percorso di consapevolezza del sé a partire dalle fiabe: Il Sacro Istinto. Si tratta di un percorso di formazione e scoperta rivolto alle donne e a tutti coloro che desiderano toccare aspetti del proprio vissuto necessari per un pieno e sano sviluppo della propria personalità, anche in relazione al ruolo di crescita e cura dell’Altro. Tale proposta offre la possibilità di comprendere i messaggi segreti insiti nelle fiabe, scoprendo parallelismi con la nostra vita e il nostro percorso personale e trovando ipotesi di sviluppo e risoluzione dei conflitti intrapsichici e interpersonali.

Altro spettacolo è Il Finimondo-Varietà apocalittico che riprende appunto il genere del varietà per descrivere una civiltà in declino

Sì, esatto. Il Finimondo parla della fine di un’epoca: la nostra. Paradossalmente lo fa con il linguaggio di un secolo fa, quando le avanguardie artistiche erano tutte protese verso il nuovo. Oggi quelle spinte innovatrici sono crollate e, anzi, come occidentali viviamo una grande crisi di identità. Quando ho cominciato a lavorare su questo spettacolo – dice Santo Marino – era il 2015, non c’era ancora stata la pandemia, né la guerra in Ucraina, eppure il senso di precipizio era già in qualche modo percepibile da chi allora avesse una certa sensibilità nei confronti del clima culturale presente nel mondo contemporaneo. Così, partendo da un omaggio all’indimenticabile Vladimira Cantoni, mia maestra durate il periodo dell’università al Dams di Bologna, cominciammo a confrontarci con la scrittura di Karl Valentin che avevo, per l’appunto, affrontato con Vladi e il gruppo Gibus in quegli anni.

Quei testi, apparentemente strampalati, restituiscono invece un grande senso di perdita, di vuoto esistenziale. C’è una malinconia di fondo sempre presente in Valentin, le sue maschere sono grottesche, quasi tragiche e questo ci favoriva nel lavoro di ricerca sulla fine del mondo. Allo stesso tempo, però, volevo portare lo spettacolo in una dimensione più vicina alla nostra che, come attrici e attori italiani, abbiamo a disposizione un grandissimo riferimento artistico e culturale come quello del varietà. Così, non solo sono entrati nel lavoro i testi di Ettore Petrolini e le canzonette degli anni ’30, ma la struttura stessa dello spettacolo si è imperniata su di una dimensione meta-teatrale nella quale la nostra compagnia è allo stesso tempo la compagnia di varietà di cui veste i panni. Questo ci permette di dialogare direttamente con il pubblico, di coinvolgerlo fisicamente, di confondere i piani a tal punto da rendere poco distinguibile ciò che è vero da ciò che è stabilito per copione.

Veniamo a Chi è fuori è fuori, ambientato nell’immaginario del mondo degli ultras

Sì, uno dei due personaggi è proprio l’Ultras e porta sulla scena elementi di violenza molto forti, dal linguaggio scurrile alla dimestichezza con le armi, passando per slogan e canzoni da stadio in cui c’è una oscillazione tra iperrealismo e surrealismo che perdura per tutto lo svolgimento della vicenda, mescolando sulla scena elementi quotidiani e segni decisamente inconsueti. Anche i ruoli sono oscillanti: la scena cambia e le dinamiche si invertono.

La Guardia, in particolare, ha un’identità stratificata che si rivela sempre più in profondità attraverso il gioco teatrale del travestimento e dello svelamento. Lo spettacolo – una drammaturgia originale di Santo Marino –  nasce da una riflessione sull’essere umano e sui ruoli che gioca a seconda delle situazioni che la società gli offre: può essere talvolta perseguitato, ma se si troverà a difendere la propria identità non avrà esitazioni ad escludere un suo simile, attribuendo alla differenza tra loro il valore più netto. Che si tratti di calcio, di politica, di appartenenza etnica, l’uomo tende ad identificarsi con il branco ed è pronto ad assumere convintamente gli slogan e la retorica del gruppo, in maniera acritica.

Prossimo progetto?

Attualmente la compagnia sta lavorando alla produzione di un nuovo spettacolo tratto dal mio ultimo testo teatrale: Il meritato riposo –  racconta Spaventa –  il cui testo fa emergere, tra le sue righe, un’antica figura di donna: Ipazia, filosofa, astronoma e matematica del 400 d.C., morta assassinata senza mai ottenere giustizia. La protagonista ha molto in comune con questa donna di cui porta il nome e, curiosamente, gli interessi. Nel dipanarsi della storia ci si addentra nella sua vita, scoprendone le dinamiche sempre più buie e dolorose. Ci si trova spettatori di un’amara verità della quale tutti i personaggi sono responsabili: dal dottore alla vicina, dalla madre alla società tutta.  Il progetto si pone in continuità con Nessun passo senza impronta un podcast che è anche diventato parte dell’omonima installazione audiovisiva presentata al Festival della Filosofia nello scorso settembre e che è stato riproposto l’8 Marzo di quest’anno.

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