Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau

Mar 20, 2025

Di Mila di Giulio
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Quando un giorno avrò dei bambini, li lascerò crescere come le erbacce del nostro giardino. Nessuno se ne occupa e crescono alte e fitte così, le rose, invece, attaccate ai loro sostegni nelle aiuole, fioriscono ogni estate più striminzite.
F. Wedekind, Risveglio di primavera

Medea’s Children di Milo Rau, debuttato alla Biennale Teatro di Venezia 2024, presenta un meccanismo drammaturgico ormai distintivo del regista belga: l’intreccio tra la tragedia classica e una vicenda contemporanea nota e riconoscibile per il pubblico, creando un sistema di comprensione progressiva dell’urgenza contemporanea dei nodi tragici. La storia è quella di Geneviève Lhermitte, che nel 2007 uccise i suoi cinque figli durante un viaggio di lavoro del marito.
Come in Five Easy Pieces e Family, protagonisti dello spettacolo sono attori bambini che portano in scena una violenza radicale, stridente con l’infanzia, ma che trova la sua ragion d’essere proprio grazie al veicolo specifico dei suoi interpreti.

Il centro tematico dello spettacolo ruota attorno all’educazione alla presenza: come dare spazio a chi nella tragedia non c’era? E come far entrare la violenza, assente e negata, nella vita di un bambino? Lo spettacolo inizia con la discussione post-spettacolo. Peter Seynaeve, unico attore adulto sulla scena, guida la conversazione tra gli interpreti, che raccontano non solo il processo di costruzione dei loro personaggi, ma anche la loro personale visione estetica della storia e le loro idee su come inscenare un omicidio. Sebbene le voci siano tante, la linea comune è chiara: la violenza deve essere mostrata per essere capita.

Il cortocircuito dello spettacolo inizia con la messa in scena, divisa in capitoli. La storia segue la vicenda di Armandine Moreau (pseudonimo scelto per Geneviève Lhermitte), drammatizzata dai bambini, che interpretano e scardinano le gerarchie tra carnefici e vittime, fino al culmine dell’omicidio. Bernice Van Walleghem, l’attrice che interpreta Armandine, convoca uno dopo l’altro i figli dentro casa e il pubblico assiste all’omicidio dei bambini attraverso uno schermo che proietta l’atto senza censure, con un montaggio tra finzione e vera presa diretta, ricostruendo le morti con rigore realistico.

Nel 2014 il regista austriaco Ulrich Seidl realizzò il documentario Im Keller (Nello scantinato), incentrato sulla gestione del tempo libero nella cultura austriaca e sul rapporto perturbante con ciò che avviene nel proprio scantinato. Seidl riconosce questo luogo come spazio dell’identità reale, contatto con se stessi. Un meccanismo simile è stato messo in atto da Fabiana Iacozzilli ne Il grande vuoto: una telecamera segue la protagonista negli spazi della propria casa, che noi non vediamo in scena, dando l’impressione di un’invasione del privato, che diventa perturbante e trasforma la percezione dello spazio.
Gli attori, in un tempo che appare dilatato, entrano bambini ed escono corpi dalla loro casa. Il capitolo emblematicamente intitolato Killing Time apre un quesito estetico sulla violenza nella scena contemporanea: come una manifesta violenza fittizia arriva a perturbare lo spettatore? E quale è il ruolo del contesto domestico in questo processo?

Mark Fisher, in The Weird and the Eerie (Lo strano e linquietante nel mondo contemporaneo), fa riferimento alla sfera semantica della casa per definire l’Unheimlich freudiano, che, nonostante venga tradotto come perturbante, trova una collocazione migliore in unhomely (non domestico). Fisher sottolinea che ciò che perturba del domestico è un pericolo che viene dall’interno: lo strano allinterno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano. La protagonista della Medea di Milo Rau racconta una versione della storia in cui Geneviève Lhermitte arriva all’atto estremo di uccidere i suoi figli per proteggerli da una potenziale violenza da parte dell’uomo che ha abusato di suo marito da bambino. All’origine dell’omicidio c’è quindi una riscrittura unheimlich dell’amore materno, che tuttavia non destituisce la protagonista dal suo ruolo di madre. In questa impasse si situa l’inquietudine: Amandine Moreau rimane madre nonostante la violenza estrema. Nelle varie sfaccettature del familiare si annida anche la potenzialità del violento e dello strano.

Amandine, come sottolinea una delle attrici bambine, è un personaggio di cui è possibile condividere lo stato d’animo, in quanto donna che cerca di tenere insieme i pezzi della sua storia, rendendoli inamovibili. Così la violenza materna assume le tinte della malinconia cannibalica di cui parla Agamben in Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale: Cronos-Saturno che inghiotte i suoi figli per incorporarli a sé e renderli invulnerabili rispetto al futuro, cristallizzandoli in una dimensione inviolata di protezione violenta. In Vita Activa, Hannah Arendt parla del domestico in età classica come luogo del controllo, che preserva dalle insidie della vita pubblica e permette agli individui relegati all’interno di sviluppare una propria identità, ma al contempo riduce lo spazio politico. Milo Rau dedica il suo spettacolo al silenzio dei figli della Colchide, restituendo loro lo spazio politico negato dal gesto della madre.

Nell’ultimo capitolo, quasi un atto aggiunto alla tragedia, il regista compare sullo schermo nei panni di un drago colorato, che le vittime dell’omicidio appena avvenuto si apprestano a combattere, asciugandosi il sangue e entrando in azione per una programmatica uccisione del regista, riscrivendo la loro definizione di violenza.
La costruzione a ritroso dello spettacolo, iniziata con la discussione aftershow, evidenzia la natura processuale della messinscena: un percorso di conoscenza e apprendimento del significato della violenza e del ruolo che ha nella vita quotidiana, domestica, come unheimlich che nasce da dentro e non arriva da lontano.

Se l’uomo nero e il mostro sotto il letto rappresentano ciò che è fuori posto, che introduce nel familiare qualcosa che normalmente si trova fuori, Milo Rau con Medea’s Children libera l’educazione infantile dai feticci prototipici di una violenza esterna che arriva da lontano e mette in campo i fantasmi interiori, lo strano all’interno del familiare, come condizione congenita all’esistenza.

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