Articolo a cura dei partecipanti al Workshop Theatertelling – Futuro Festival: Eleonora Cardei, Alessio Rizzitiello, Carola Pietropaolo Rossella Zanini, Stefania Valletta, Angela Giassi, Sofia Antonucci, Giulia Di Paolo.
Per concludere il percorso di narrazione condotto attraverso il workshop Theatertelling dedicato a Futuro Festival, che si è svolto dal 2 al 17 luglio presso il Teatro Brancaccio di Roma, abbiamo chiesto alla Direttrice Artistica Alessia Gatta di portarci dentro la genesi dell’evento. Le esigenze di cui rappresenta la risposta, il posto che occupa nel panorama della danza contemporanea, ma anche le prospettive che apre per l’avvenire: la multidisciplinarietà si unisce al bisogno di trovare un’identità, unica e particolare, della danza contemporanea italiana, nell’ottica di un confronto virtuoso con il contesto internazionale.
Alle urgenze generatrici del Festival, abbiamo agganciato una riflessione sull’ultima creazione di Alessia Gatta, Tu, in qualità di coreografa della Compagnia Ritmi Sotterranei, andato in scena a Futuro Festival con protagoniste le danzatrici Vanessa Guidolin, Matilde Cortivo, Viola Pantano e Greta Martucci: la scelta dei temi in relazione al momento storico attuale, l’evoluzione del processo creativo e come questo si inserisca nella sua personale visione di coreografa, prodotto di un retroterra artistico eclettico e variegato.
Come si immerge Futuro Festival all’interno del panorama attuale dei Festival dedicati alla danza contemporanea?
Si pone con un taglio probabilmente differente dagli altri: non è propriamente un festival multidisciplinare ma vorrebbe diventare tale. Ci piace pensare a una fusione di più forme di linguaggi contemporanei che confluiscono nel contenitore comune della danza, in quanto linguaggio capace di racchiuderne altri: lavorare con elementi quali l’aspetto musicale e la musica dal vivo, così come con il teatro danza o fisico per me significa già avere un festival multidisciplinare. Non pensare a un festival che sia fatto in maniera settoriale con spazi divisi per la danza, la musica e il teatro, ma un festival nel quale si possano ospitare delle compagnie che propongano un lavoro basato sulla commistione di questi linguaggi. Mi piacerebbe arrivare a questo: pensare a delle compagnie che lavorino al teatro danza e al teatro fisico che possano lavorare con musica dal vivo. Questa è l’ambizione del festival, ospitare sempre più compagnie che si pongano nel segno della multidisciplinarietà.
Un grande volontà di creare relazioni, in termini di contaminazione artistica e di rapporto con il pubblico. Una necessità o un monito per il futuro?
Sicuramente anche una necessità, perché credo che le relazioni facciano veramente tutto nella vita, e quindi le reputo importanti anche nell’arte. Le relazioni tra le compagnie, tra le forme d’arte, tra i diversi linguaggi ma anche le diverse competenze. Oggi ci troviamo a parlare di questo perché credo fortemente nel progetto Theatertelling, che non è dedicato propriamente alla danza, ma è una forma di linguaggio che può raccontare la danza in maniera determinante. Le connessioni e le relazioni sono a mio parere fondamentali perché, altrimenti, non vi avrei mai incontrati né conosciuti. La danza può essere un pretesto per entrare in contatto con nuovi stili espressivi e persone che nutrono anche altri interessi, non necessariamente quello della danza. Per il pubblico: mi piacerebbe pensare che il pubblico si interessi a diverse sfaccettature; anche e soprattutto alla danza, perché non è facile lasciare un segno con questa forma d’arte. Unire le forze in questo senso è finalizzato a far arrivare la danza al pubblico.
Come nasce Futuro Festival e in che direzione intendete lavorare per le prossime edizioni, alla luce dell’esperienza di questi primi due anni?
Futuro Festival nasce da un’esigenza ben precisa: riaprire il Teatro Brancaccio nell’anno pandemico 2021. Insieme ad Alessandro Longobardi, Direttore Artistico del teatro, ci siamo chiesti cosa potessimo fare per il teatro, in primo luogo, oltre che per le attività della danza in particolare. È lui che mi ha proposto di pensare a un festival: una possibilità per riaprire il teatro con una grande festa dando spazio per la prima volta a un settore che non appartiene originariamente allo spazio del Brancaccio. Futuro Festival risponde quindi alla duplice esigenza di riaprire le porte del teatro Brancaccio e di dare la possibilità agli artisti di ricominciare a danzare sui palcoscenici. Di conseguenza a queste, si agganciano altre motivazioni, come la proposta di una nuova attività che si concretizza in una tipologia di festival differente che abbia la capacità di creare opportunità.
In merito alle prospettive per il futuro: rispetto a questa prima vera edizione del festival, volendo riferirci a quella passata come a una sorta di edizione zero, c’è una miriade di possibilità da esplorare.
L’esperienza di un anno ci mette infatti di fronte a una fotografia del risultato criticamente valida al fine di metterci in discussione, capendo quali siano le cose su cui lavorare meglio e quelle che funzionano e da confermare. Questo è l’obiettivo per il prossimo anno, riunirci con il gruppo di lavoro, capire quali obiettivi abbiamo raggiunto e quali porci per le prossime edizioni.

Quali sono le vostre idee intorno allo stato della danza contemporanea?
È una domanda difficilissima, sulla quale ci interroghiamo da tanto tempo: cosa possiamo fare per la danza contemporanea italiana? Io credo che questo sia un festival che ha dato spazio sia alle nuove generazioni sia a quelle che sono le colonne portanti della danza contemporanea italiana. Ritengo opportuno trovare un giusto equilibrio tra la conferma della storia della danza contemporanea, allo stesso tempo dando spazio alle nuove generazioni. Mi piacerebbe pensare, e mi metto anche io in campo come coreografa e creativa, a degli interventi e delle idee innovative. Non mi reputo personalmente una giovane coreografa, perché ho già lavorato abbastanza nel panorama della danza contemporanea.
Però, tanto da parte nostra che siamo nel mondo della danza già da diverso tempo, quanto per le nuove generazioni, c’è sì bisogno di stare al passo con i tempi e di guardarsi intorno, ma soprattutto di avere un’identità propria, senza correre dietro a quello che accade in Europa e nel mondo.
Dobbiamo identificarci con una nostra danza che sia personale. Sono sempre più convinta di questo, perché vedo spesso troppe influenze di artisti internazionali, il che va benissimo ed è giusto perché le idee volano e si scambiano ma credo che dobbiamo fare il nostro lavoro apportando idee maggiormente identitarie. Credo che sia fondamentale sia per i giovani che per i già affermati.
Processo creativo: qual è stato il percorso compositivo di Tu in termini di lavoro con le danzatrici e orchestrazione degli elementi scenici, brani musicali…?
Tu nasce quasi come un proseguimento di un lavoro precedente, Keeping Worm che parte dall’idea di ritrovarsi in sala per la prima volta dopo il lockdown. Volevamo portare in scena un lavoro che raccontasse quello che stavamo provando in quel momento: la possibilità di poterci riabbracciare, tenerci in contatto e supportarci a vicenda. Tu prosegue questa idea, questo processo, confermando l’indagine sulle relazioni che raccontiamo attraverso i legami, siano essi emotivi o fisici.
Per il 90% del tempo le danzatrici sono legate tra loro attraverso il corpo; segue una connessione attraverso degli oggetti, fili raccolti e collegati a loro volta da piccoli anelli oppure una grande corda che ci lega e ci sostiene.
Il processo creativo parte dunque dall’idea di legame, sviluppato attraverso gli elementi scenici e la scelta musicale arricchita dall’intervento di Vittorio Giampietro, che mi ha aiutata attraverso il suo linguaggio a comporre il Music Sound. La colonna sonora non è stata composta da zero: sono brani di artisti molto noti, che Vittorio ha svuotato e riempito dopo aver visto lo spettacolo. Con la stessa modalità, Gaia Clotilde Chernetich ha composto la drammaturgia a seguito della visione dello spettacolo. Il processo, a differenza di altre volte, è stato volutamente tutto al contrario: ho creato prima tutto il lavoro e poi ho fatto in modo che occhi esterni lo vedessero per bilanciarlo anche a partire dalla loro visione.
Per quanto riguarda la luce, l’apporto di Giulia Pastore ha arricchito tantissimo lo spettacolo, mi ha fatto una vera e propria proposta creativa che abbiamo discusso insieme e questo l’ho trovato veramente interessante.
Come si è strutturato il lavoro con le danzatrici?
Il rapporto con le danzatrici invece è sempre molto viscerale. Tutta la composizione coreografica è il risultato dei materiali che fornisco ai miei danzatori. Difficilmente lascio il danzatore totalmente libero di creare. Mi piace dare loro del materiale che poi insieme riassembliamo cercando di non snaturare quelle che sono le loro peculiarità e caratteristiche e cercando insieme delle soluzioni possibili.
Quali sono i riferimenti iconografici che ti stimolano in fase di creazione?
Mi ispira molto l’arte, ma mi ispira altrettanto la moda. Lo fa anche l’architettura, però sono linguaggi che hanno sempre fatto parte della mia vita. Ho studiato Architettura senza mai praticare, per scelta. Ho insegnato per 5 anni presso l’Accademia di Belle Arti – Dipartimento Moda, perché mi affascina tantissimo: vedo l’abito come una seconda pelle, come una struttura da abitare e l’abito in scena è per me veramente importante.

Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.