PeepingTom chiude Torinodanza con una perfetta dicotomia tra ironia e trauma

Nov 6, 2023

Per le serate conclusive del 24 e il 25 ottobre 2023 Torinodanza, in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale della compagnia belga PeepingTom con la produzione S 62° 58′, W 60° 39

Quando il sipario si alza lo spettatore si trova di fronte ad una scena apocalittica: un veliero, di cui è visibile solo la poppa, giace incagliato nel ghiaccio, presso Deception Island (Isola della Delusione), luogo a cui corrispondono le coordinate GPS riportate nel titolo. Un uomo tenta invano di spostare la carcassa, un bambino in canotta e pantaloncini si fa cullare da questo moto, qualcuno pesca con una canna che si agita al ritmo di note classiche, una donna viene rimbalzata da una parte all’altra della barca, mentre un anziano si sorregge ad un tavolino. 

La linea narrativa appare chiara: una piccola comunità è rimasta intrappolata in mezzo a una massa di ghiaccio. Altrettanto riconoscibili sono gli elementi drammaturgici identitari  della compagnia belga: la scenografia curata nei minimi dettagli, ideata da Justine Bougerol e PeepingTom, in grado di restituire un paesaggio bianco, illimitato e glaciale; nonché una lampante e impeccabile bravura degli interpreti sulla scena (Marie Gyselbrecht, Chey Jurado, Lauren Langlois, Yi-Chun Liu, Sam Louwyck, Romeu Runa, Dirk Boelens). 

Quando però il pubblico è ormai pronto ad affondare nell’immaginario creato da Chartier , un colpo di scena trasforma radicalmente la dinamica narrativa. Se in principio infatti lo spettacolo sembra dotato di una linea drammaturgica stabile, chiara e ben definita, la morte del bambino protagonista della scena (che scivola tra i ghiacci della scenografia) sembra essere motivo scatenante di una rottura decisiva per l’intero impianto scenico. 

Il papà del bambino, interpretato da Romeu Runa, a lato della poppa, confessa i propri tormenti, in una più ampia riflessione sulla figura del padre e sulla genitorialità (intento  già dichiarato sul foglio di sala che recita  «a tutti i padri che ho portato sulla scena»). 

A parlare da adesso è dunque il papà del bambino ma forse sarebbe meglio dire lo stesso Runa, che esprime la propria amarezza per i sacrifici nel dedicare la vita all’arte, rinunciando ai compleanni del figlio e trascurando i propri cari. Preso da un momento di totale sconforto e rivolgendosi direttamente al pubblico, decide quindi di lasciare la scena, abbandonando non solo il palco ma la stessa sala grande delle Fonderie Limone

L’intenzione metateatrale è confermata dalla successiva entrata in scena di Marie Gyselbrecht interprete storica della compagnia (nei panni di Mimì, la mamma del bambino) che raggiunge il palco dal fondale in qualità di persona (Marie) e non personaggio (Mimì), scusandosi per il suo ritardo causato da un problema alla macchina e da un malore del suo cagnolino,  lamentandosi del fatto che a prescindere da ciò che accada nella sua vita personale, l’attore debba essere sempre in scena, pronto ad interpretare un nuovo personaggio

Il monologo di Marie, causa delle prime di diverse risate tra la platea, è interrotto dalla voce del regista Franck che con tono pacato chiede a tutti gli interpreti di ritornare in sé e riprendere le prove da dove erano state interrotte. Però, l’attrice si ribella: «Non sono Mimi, sono Marie! Da quindici anni faccio quello che mi chiedi e ora non so più chi sono!». 

A partire da questo momento, tutta la struttura narrativa diventa un intreccio tra mondo reale e mondo immaginato, creando una miscellanea di esperienze personali e finzione che si mescolano fino a sovrapporsi.

A più riprese il regista interviene con la propria voce nel tentativo di calmare gli animi degli interpreti che si esibiscono inscenando momenti di liberazione e sfogo nel loro essere artisti e nelle loro condizioni all’interno dello stesso spettacolo. A essere portato sul palcoscenico sarà allora il desiderio di non voler morire in quel determinato punto della scena; di voler far cambiare il copione per non uccidere il pesce pescato all’inizio, ma anche, come nel caso del personaggio anziano, che dovrebbe piangere la morte della sua amata compagna, la decisione sofferta di smettere di  disperarsi e di morire, con estrema veridicità.

A tutti gli effetti, S 62° 58′, W 60° 39 è una prova aperta (circa a metà assistiamo anche a 5 minuti di pausa) di uno spettacolo apocalittico e drammatico, ricco di richiami al mondo contemporaneo afflitto da devastazione, cambiamento climatico, violenza e morte. 

Ma a partire dall’espediente del teatro nel teatro questi temi intensi e gravi  si mescolano con l’ironia e la vita quotidiana, restituendo una miscela perfetta di dramma vero e dramma ideato, che permette a chi assiste di piangere e ridere, ridere e piangere, o piangere mentre si ride. 

La performance, in cui la parola ha un ruolo decisamente più importante rispetto al movimento, diviene così un microcosmo dove le identità della persona e del personaggio si confondono, dando vita ad uno scambio continuo di ruoli e personalità, creando un intricato ma impeccabile labirinto di significati. 

© Sabine Greppo

Lo stesso regista ha dichiarato che per la creazione, insieme con gli attori-danzatori sono partiti da traumi personali e momenti complessi in qualità di artisti che lui stesso ha poi ri-utilizzato e inserito all’interno di questa prova artistica. 

Definendo il lavoro «Un’operazione a cuore aperto dell’artista sulla scena, in questo senso lo spettatore vedrà il cuore e l’interiorità dell’artista, senza sapere se si tratta della persona o del personaggio, che sono vicinissimi.»

La pièce è ricca di riferimenti ironici e autoreferenziali, come Chey Jurado che interrompe una scena lamentandosi dell’eccessivo vento: «Basta con questo vento! Lo hai messo in Vater, in 33 rue Vandenbranden… adesso è troppo!» o  Romeu Runa che sottolinea l’aspetto narcisistico intrinseco nel ruolo del coreografo, riferendosi a Chartier come «Castellucci di Lavapies» (famoso quartiere multiculturale di Madrid).

A chiudere lo spettacolo sarà l’impeccabile Romeu Runa con un monologo a due voci: una più profonda e minacciosa della bestia che nasconde in sé e una più squillante riconducibile all’identità dell’attore stesso. 

Mentre in scena l’attore-danzatore, nudo, incalza un dialogo tra le due parti in cui si sente scisso, si accendono le luci sul pubblico. Si dimena, rannicchiandosi su se stesso e si rivolge al pubblico con varie provocazioni («Vorrei scoparvi uno a uno»), finché non sfonda la quarta parete. Runa chiede aiuto perché vuole uscire, in modo più o meno metaforico, dal teatro, e quando qualcuno si alza e lo prende per mano, accompagnandolo fuori dalla sala, lo spettacolo finisce. 

Con S 62° 58′, W 60° 39 Chartier propone una magistrale riflessione sulla creazione artistica, sulla condizione degli interpreti e sul successo che spesso si fa sinonimo di rinuncia personale. Così, la prova di sopravvivenza di un equipaggio bloccato tra i ghiacciai diviene metafora di un tentativo di restare in vita nonostante le condizioni proprie dell’artista. 

Seppure la performance porta sul palco l’atto metaperformativo di inscenare uno spettacolo, essa è ancora tuttavia un messa in scena impeccabile nella sua cura di tempistiche, interpretazione e scenografia. Quanto diverso sarebbe stato invece assistere ad una vera prova di PeepingTom? 

Torinodanza chiude la sua programmazione 2023 senza la danza, con uno spettacolo in cui la parola ha prevalso decisamente su di essa, ma con una prova magistrale di PeepingTom che ha portato sulla scena una puntuale dicotomia tra trauma e ironia, collocata in una scena apocalittica ma oltremodo credibile. 

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