In Marcia della compagnia Hosteria Fermento, spettacolo vincitore dell’edizione 2020 del Premio Over, è il terzo progetto ospitato in residenza tra febbraio e marzo 2021 presso il Teatro Argot Studio. In assenza di attività spettacolari, lo spazio romano ha continuato a perseguire la volontà di sostegno alle giovani realtà del panorama teatrale italiano, mettendo a disposizione degli artisti periodi di studio e residenza, nell’ambito di Over/Emergenze teatrali, progetto di Argot Produzioni, in collaborazione con il Nest di Napoli..
Marco Valerio Montesano, Michele Enrico Montesano, Simone Chiacchiararelli e Francesco Pietrella, componenti della compagnia Hosteria Fermento, con In Marcia approfondiscono il tema della guerra per raccontare il mondo che ci circonda. Un mondo dove dovrebbero prosperare libertà, diritti ed equità, ma che invece è dominato dalla loro negazione.
In questa intervista Hosteria Fermento racconta il lavoro di ricerca che porterà avanti sullo spettacolo In Marcia, durante la residenza offerta da Over/Emergenze teatrali.
Chi sono i tre protagonisti dello spettacolo?
Tre giovani soldati, tre precari, tre studenti fuori sede, sono tre persone che si ritrovano a lottare per qualcun altro, senza nessun tipo di garanzia o supporto.
Qual è stato il processo creativo alla base dell’ideazione dei personaggi/protagonisti dello spettacolo?
Più che di processo creativo parliamo di un lungo e meticoloso processo osservativo, introspettivo e sociale. I tre sono nati dall’esplorazione del rapporto tra il singolo e la legge.
Nel prologo si capiscono meglio le nostre intenzioni: scegliamo un dato evento, un dato momento, una situazione fittizia, ma solo per parlare del reale, per parlare di ciò che individualmente ci colpisce nel quotidiano.
Poi naturalmente bisogna renderlo fruibile per tutti, ma le emozioni sono sempre condivisibili, in qualche modo tutti noi proviamo le stesse cose, si tratta solo di dirle nella maniera giusta. E così i personaggi sono nostri prolungamenti, dove finiamo noi cominciano loro, con le parole che abbiamo deciso di mettergli in bocca e con il corpo che la natura ci ha donato.
Cosa racconta lo spettacolo e attraverso quali estetiche artistiche?
Il testo racconta la storia di un viaggio che tre soldati devono compiere per tornare casa. Abbandonati a loro stessi, scopriranno che, oltre al viaggio fisico, ne stanno compiendo uno interiore verso una maturità individuale. Le scelte artistiche con le quali racconteremo questo viaggio saranno coerenti con il linguaggio che la compagnia ha scelto come proprio. La vocazione è sempre quella di lavorare sulla parola: sfilacciando, stravolgendo e destrutturando la logica della comunicazione, che diventa così inefficace e inadatta a dialogare con chi ti sta accanto.
Si continuerà a strizzare l’occhio a una voluta brillantezza dei dialoghi, rendendo la storia tragicomica, o meglio, comica suo malgrado. L’obiettivo risiede anche nell’instaurare un rapporto più immediato con il pubblico, attraverso dei momenti in cui la storia da privata diventa pubblica, arrivando a coinvolgere direttamente gli spettatori.
Quali sono i riferimenti storici del racconto?
Tutto è nato da un aneddoto che ci è stato raccontato tempo fa da nostro nonno Armando (nonno di Marco Valerio e Michele Enrico). Quando si trovava in Corsica, durante la Seconda guerra mondiale, la squadra con cui era partito, venne decimata da vari scontri a fuoco nel corso del conflitto. Armando, poco più che ventenne e senza molta esperienza, divenne il più alto in grado dei suoi, dovendo giocoforza organizzare la marcia per rientrare a casa nel ‘45.
Il momento che più ci ha colpito di questa storia è il racconto di quando, tra le mille difficoltà del viaggio, Armando e i suoi compagni furono costretti a mangiare il loro cavallo per non morire di fame.
E così la guerra diventa lo scenario tragico, non solo per il piombo, la morte, le armi, ma anche e soprattutto per i drammi che quei giovani hanno affrontato. La guerra è il simbolo del genos, del legame padre-figlio in cui le colpe dei padri ricadono solamente sui figli e mai viceversa. E i figli molto spesso non sono pronti, è una strada che non hanno scelto ma che devono percorrere da soli, senza un aiuto, senza un motivo, senza una spiegazione e nel caso di Armando, anche senza cavallo.
Quali saranno gli sviluppi del progetto di spettacolo durante la residenza al Teatro Argot Studio?
Grazie al periodo di residenza offerto da Argot, intendiamo ultimare la parte finale dello spettacolo e poi concentrarci sulla definizione del rapporto attori-pubblico. Il Teatro è per definizione qualcosa che nasce dal pubblico, deriva dal greco Theaomai, guardare, osservare. Il pubblico è prima: prima nasce il pubblico, poi il Teatro e poi gli attori. Questa coscienza non c’è più, non è solo una questione stilistica, non si può risolvere solo rivolgendosi al pubblico. Figuriamoci in questo periodo in cui si parla di Teatro a distanza. Teatro a distanza non significa nulla, può essere un modo per non fermarsi completamente, e questo è un bene senz’altro, ma il Teatro è comunione.
È una questione di sensibilità, non di forme. Ed è quello che noi facciamo, non esiste pagina di copione, momento scenico in cui non ci siamo chiesti se il pubblico fosse con noi.
In ogni scelta nostra, c’è un dono che facciamo allo spettatore, è nei nostri pensieri sempre. Come fosse la nostra amata, e se si offende perché l’abbiamo ferita o trascurata, faremo di tutto per farci perdonare.

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