Le celebrazioni romane per i 55 anni di attività dell’Odin Teatret hanno coinvolto ed emozionato vecchi cultori e giovani appassionati dello storico gruppo. In uno dei matinée organizzati presso il Teatro Vascello di Roma per la presentazione di alcune dimostrazioni di lavoro, abbiamo intervistato l’attrice e regista Julia Varley che, insieme a Eugenio Barba, incarna, da più di quarant’anni, il cuore pulsante dell’Odin Teatret.
Il sacro fuoco dell’arte che, vigoroso, si scorge ancora bruciante nelle sue pupille, fa di Julia Varley una fonte d’ispirazione per gli artisti di oggi e per quelli che verranno.
Sono trascorsi 55 anni dalla fondazione dell’Odin Teatret. Da 40 anni lei è parte del gruppo: le andrebbe di raccontarmi un episodio, un incontro, un’esperienza vissuta durante i suoi anni all’Odin Teatret, che è stata particolarmente segnante per lei e che possa dare un’idea concreta di cosa significhi lavorare e vivere in un gruppo teatrale come l’Odin?
Quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo invitato a Hostelbro, in Danimarca, un gruppo di teatro brasiliano con cui mettere in scena uno spettacolo che potesse essere visto da tutti i bambini della città. Per un mese, ogni mattina, abbiamo portato questo spettacolo nelle scuole. Io interpretavo Mr. Peanut, il personaggio della morte, e ho avuto modo di dare la mano a tutti i bambini di Hostelbro. È stato un avvenimento straordinario per me perché ogni bambino ha reagito in maniera diversa: c’erano quelli curiosi, quelli impauriti, quelli che si avvicinavano, quelli che volevano ballare.
Da un lato ho colto la semplicità del gesto di dare la mano attraverso questo personaggio e dall’altro, la possibilità di conoscere tutti i bambini come singoli individui. Ciò è davvero importante per l’Odin, perché per noi il pubblico è fatto di singoli e quella era una possibilità di incontrarli uno ad uno. Per questo, quando mi chiedono di un momento particolare della mia vita di artista, racconto questo evento che trattengo come qualcosa di speciale.
Nel corso del ciclo di eventi organizzati a Roma in occasione del 55esimo anniversario dell’Odin Teatret, cui ho avuto modo di prendere parte, ho notato una grande attenzione per lo spettatore in quanto singolo individuo con cui attivare uno scambio di tipo umano prima che teatrale. Quanto è importante per voi il rapporto con il pubblico – in senso prettamente antropologico direi con l’altro – e quanto il confronto con il prossimo alimenta la vostra creazione artistica?
I nostri spettacoli sono basati su questa capacità di comunicare al di là o prima dei significati. La cosa fondamentale non è la storia o ciò che si vuole dire ma condividere come “animali umani” lo stesso spazio e lo stesso tempo.
L’essere umano ha un sistema nervoso, ha un proprio bagaglio di esperienze e reagisce a determinati suoni e impulsi, in maniera differente: se io mi avvicino a una persona allargando le braccia, oppure facendo un segno di resistenza, se parlo con una voce che sembra abbracciare piuttosto che respingere, si crea una reazione nello spettatore che è qualcosa di basilare e che ha a che vedere proprio con l’animale umano che reagisce al caldo, al freddo, all’essere accettato, all’essere rifiutato. È su questa comunicazione basilare che si fondano gli spettacoli dell’Odin. Quel che conta è che in qualsiasi posto andiamo, al centro di Roma, in un piccolo paesino dove il teatro non c’è mai stato, in America Latina o in Alaska, dove parlano lingue diverse, riusciamo sempre a creare un interesse per quello che facciamo.
Spesso, gli spettatori parlano lingue diverse dalla nostra, per cui colgono il senso della storia non per mezzo della parola ma attraverso il modo in cui comunichiamo, il tipo di intonazione che utilizziamo, il livello emotivo che il canto o la musica implicano. Si tratta di una comunicazione basata su altro. In uno dei nostri viaggi in Amazzonia, abbiamo mostrato alla tribù degli Yanomami uno spettacolo di clown, in Occidente spettacolo comico per eccellenza, che è risultato spaventoso ai loro occhi.
Ci sono quindi delle differenze di ricezione, l’importante è che lo spettacolo non annoi, che abbia una forza di attrazione, una capacità di mettere lo spettatore nella posizione di vedere al di là di ciò che noi facciamo, dentro di sé, nelle proprie storie, nei significati che ognuno riuscirà a leggere nella storia. Con L’Albero, ad esempio, all’inizio offriamo agli spettatori una condizione strana: si trovano riuniti in una piccola sala, siedono su dei tubi di gomma, assistono a delle scene che forse non capiscono, per cui come li accogli è fondamentale. Bisogna dare un senso di sicurezza agli spettatori, in modo che essi siano predisposti a recepire lo spettacolo. Se gli spettatori si sentono insicuri, costruiscono delle barriere per proteggersi. Per far arrivare l’esperienza devi fare in modo che il pubblico sia aperto, in virtù di questa ricezione è importante accogliere, guidare, sorridere. Cose molto elementari.
L’Odin Teatret è un melting pot teatrale che ha sempre fatto della diversità un punto di forza. Eugenio Barba, prima di tutti, ha spiegato e teorizzato l’esistenza di impulsi, di principi energetici archetipi che, essendo condivisi a livello umano, prescindono dalla tradizione e dalla cultura di appartenenza di ciascuno. Ma come avviene il primo contatto tra i nuovi attori e il resto della compagnia, come viene attivata la connessione con il gruppo e che ruolo, in quest’operazione, ricoprite lei ed Eugenio Barba?
Ognuno di noi viene da paesi diversi, però quel che riconosciamo dentro l’Odin è una cultura del gruppo. Le persone che entrano a far parte dell’Odin Teatret, dunque, non hanno un confronto con un balinese, con un’indiana, con una danese, con un inglese, con un canadese, ma hanno un confronto con persone che lavorano da quarant’anni insieme.
Quella cultura che incontrano, prevede dei comportamenti che hanno a che vedere con la partecipazione al training, con il lavoro fisico, la pulizia degli spazi comuni, la cura di oggetti e costumi, il divieto di parlare di lavoro quando si è in sala. Questi comportamenti, vengono trasmessi nel periodo di apprendistato.
Una persona che si avvicina al gruppo ha per i primi quattro anni una persona di riferimento, per cui si crea una rete di dialoghi. È fondamentale che i problemi si risolvano nel lavoro: se si è in disaccordo su qualcosa, bisogna presentare una proposta alternativa; non c’è tempo per il confronto, in questo senso non siamo un gruppo nemmeno troppo democratico! Le cose succedono perché uno prende iniziativa, fa delle proposte.
Tutti devono prendersi le proprie responsabilità.
La costruzione vocale e l’attenzione alla creazione di una partitura gestuale, sono una cifra stilistica distintiva del lavoro degli attori dell’Odin Teatret. Ciò ha indotto molti studiosi e teorici a sostenere che la ricerca teatrale dell’Odin sia basata principalmente sulle possibilità del corpo e che dia minor peso all’apporto artistico del testo letterario. Che tipo di lavoro compiete sul testo e come si articola sulla scena la traduzione del materiale letterario attraverso corpo e voce?
Una cosa che Eugenio dice per spiegare ciò è che ci sono persone che lavorano per il testo e persone che lavorano con il testo. Noi lavoriamo con il testo, nel senso che è per noi uno degli elementi che entrano a far parte del lavoro. Durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano, alcuni storici hanno detto che l’Odin non lavora con il testo, allora ho creato la dimostrazione Il tappeto volante, proprio per dimostrare il contrario.
Per noi, il testo è uno degli elementi che narrano una storia che molto spesso non conosciamo all’inizio delle prove: noi possiamo avere dei testi di partenza, solitamente poetici, che contengono molte storie e significati. Il lavoro sul testo serve ad estrarre quel che i testi dicono e non solo a metterli in scena. Per questo motivo, molte volte, le azioni fisiche sono in contrapposizione con le parole: le azioni fisiche e le parole possono muoversi nella stessa direzione, per sottolineare il racconto del testo; possono essere complementari, cioè fanno mostrano qualcosa che sta a lato; possono essere opposte, con il corpo compio un’azione e con le parole mi riferisco all’azione contraria.
Quello che lo spettatore percepisce è il risultato della convivenza tra testo, azioni fisiche, intonazioni, luci, spazio, oggetti. Non è come mettere in scena il testo con il corpo ma è come lavorare con il testo per fornire a quel che tu racconti con il corpo, altri elementi.
Come crede che siano cambiate il lavoro e la ricerca dell’Odin Teatret in questi anni? Che cosa ha guadagnato, che cosa cerca, che cosa ha perso l’Odin di oggi rispetto a quello che lei ha conosciuto 40 anni fa?
Quando io ho incontrato l’Odin, stava finendo sia la grande esperienza del teatro di strada sia il periodo di apprendistato, per cui sono arrivata in un gruppo che aveva un linguaggio proprio, una propria base tecnica e una maggiore autonomia. Durante i primi dieci anni dell’Odin, gli attori lavoravano sempre in sala con Eugenio. Quando io sono entrata a far parte dell’Odin, Eugenio non aveva più molto tempo per lavorare sul training, quindi per me il riferimento sono stati gli altri attori. In questo periodo, è subentrata una responsabilità pedagogica che ci ha fatto rendere conto di essere un esempio: se l’Odin fosse morto, sarebbe stata una tragedia per molti perché noi eravamo la prova che si può lavorare e vivere in un gruppo anche per molto tempo. Questa responsabilità ci ha a lungo mantenuti in vita, poi è arrivato il tempo di distruggere tutto quel che avevamo imparato.
Durante le celebrazioni per i 50 anni dell’Odin Teatret, abbiamo sepolto i nostri vecchi costumi e ci abbiamo costruito sopra un’altalena. Da allora, è come se l’Odin giocasse su quell’altalena. Quest’immagine deriva da una mostra, che ho visitato a New York, di opere dipinte da Picasso a ottant’anni. Quel che si percepiva era il piacere di dipingere, non la necessità di dimostrare la grandezza della propria arte. Allo stesso modo, è come se l’Odin avesse bisogno di ritrovare il piacere di fare spettacoli, senza il peso della responsabilità che ci siamo portati dietro per molti anni.
Che cosa perdiamo? Con l’età i corpi iniziano a cambiare, abbiamo attori che sono sordi, che hanno difficoltà a camminare e anche ciò comporta il fatto di trovare delle soluzioni diverse negli spettacoli. Se un tempo la nostra energia era esplosiva, adesso è molto più implosiva, come trattenuta. Non so quale tipo di energia sia più forte per gli spettatori, anche perché in generale utilizziamo molta più energia di quanta non se ne veda di solito a teatro.
Nel 2008 abbiamo firmato con tutti gli attori che sono stati a lungo nell’Odin, una lettera, una sorta di testamento in cui diciamo che quando l’ultimo dei nostri attori non vorrà più lavorare col nome di Odin Teatret, il gruppo non esisterà più. Eugenio ha spiegato ciò al giornale locale di Hostelbro, scatenando una grande protesta da parte dei cittadini che si sono chiesti come mai come mai non avessimo designato degli eredi e hanno dichiarato di aver bisogno dell’Odin Teatret. Questa necessità da parte della città ha ribaltato il nostro punto di vista, per cui ci siamo impegnati a dare spazio a dei giovani artisti che pur non essendo esteticamente vicini all’Odin, portano avanti il nostro lavoro. Abbiamo così mantenuto in vigore un’attività teatrale che non consista solo nel mettere in scena uno spettacolo ma che sia un lavoro pedagogico, di rapporto con la città, di impegno nella comunità, di documentazione e di scrittura. Il teatro, per noi, è tutto questo.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.