Nel saggio Misura smemorata, Ginevra Bompiani dice di Robert Walser che, scegliendo di assumere l’identità del servo nei suoi scritti, decide di incarnare l’identità per eccellenza «Poiché ogni identità è, in fondo, una presa di servizio». Personaggi servitori iniziano a comparire nella produzione di Walser già da Simon Tanner fino al protagonista de L’assistente; tuttavia, è in Jakob von Gunten che assistiamo al processo di formazione del servitore ideale, il Bildungsroman di uno zero, un processo di liberazione totalizzante che secondo Walser non può che passare per l’annullamento. Dal fascino per questo personaggio nasce l’adattamento di Jakob von Gunten di Fabio Condemi, presentato nel 2017 in forma di studio con il titolo Il sonno del calligrafo alla sezione College della Biennale Teatro di Venezia, che successivamente è diventato uno spettacolo debuttato nel 2018 con il titolo Jakob Von Gunten alla stessa Biennale Teatro di Venezia. C’è qualcosa in questa presa di servizio che ha molto a che fare con l’arte scenica: l’attore che messo di fronte all’obbligo di una presa di servizio annullante può liberare una spinta identitaria pura, fuori dall’egemonia della caratterizzazione. Ne abbiamo discusso con il regista Fabio Condemi e Francesco Fiorentino, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Roma Tre, autori di Walser a due, un dialogo pubblicato da Edizioni Volatili all’interno della collana intitolata Isola e Isole, curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce, quest’ultima autrice dei disegni contenuti nel libro che diventano una vera e propria partitura visiva.
Vorrei iniziare parlando del saggio di Roberto Calasso, Il sonno del calligrafo, in cui uno dei grandi temi affrontati è la spiritualità. Si menziona la Sura della caverna, contenuta nel Corano, che narra dei sette dormienti di Efeso, collegati idealmente da Calasso a Jakob von Gunten in quanto tutti descritti come dormienti incorrotti. In questo contesto, il sonno diventa una sospensione del tempo.
In Walser a due, si parla di una teologia negativa che traspare in Jakob von Gunten. Vorrei capire cosa si intende per teologia negativa e quale ruolo ha la religione sia in Walser che nella costruzione di questo spettacolo
Fabio Condemi: All’inizio lo spettacolo di Jakob von Gunten era uno studio di venti minuti che si chiamava Il sonno del calligrafo, proprio come il saggio di Roberto Calasso sul romanzo di Walser in cui questo discorso del sonno, più religioso di ogni religione per cui soltanto chi dorme è vicino a Dio, e la fascinazione per la Sura della caverna e i sette dormienti, era molto più visibile. C’era una parte intitolata proprio I sette dormienti, avevamo messo questo titolo prima che Jakob parlasse con i professori addormentati, trasfigurati nei pesci dell’acquario.
Lo dico perché questo tema mi aveva molto affascinato, è un fatto però che poi nella versione definitiva ho scelto di lasciare il tema più sospeso, proprio perché mi sono reso conto che, rispetto al saggio di Calasso, volevo andare in una direzione – secondo me – ancora più valseriana, di ambiguità: da una parte c’è il sonno mistico, quasi nella vicinanza della religione, dall’altra volevo rendere lasciare più ambigue le figure dei professori dormienti, lasciare più aperta questa questione e allontanarmi dal saggio di Calasso, facendo uno scarto anche più ironico.
Quando ho lavorato su Jakob von Gunten mi sono reso conto che da una parte il saggio di Calasso mi aveva molto nutrito e dall’altra l’interpretazione così forte, e non dico univoca, nella direzione mistica-religiosa non aveva più molto a che fare col mio Walser. Volevo lasciare più aperta la questione e invece mi interessava molto di più, diciamo, lo scritto di Walter Benjamin su Walser.
Il nucleo iniziale di Jakob von Gunten però, la prima cosa che noi abbiamo provato è stato proprio questo mondo sommerso nell’acqua, nel sonno, nell’acquario, scelta che veniva proprio da Calasso e dal riferimento che fa ai Sette dormienti, qualcosa che ha sicuramente spinto la drammaturgia nella fase iniziale.
Francesco Fiorentino: La cosa che subito colpisce del Jakob von Gunten di Fabio Condemi è che fin dall’inizio inserisca questa ripetitività che potremmo definire senza senso, senza significato.
Verso la fine del romanzo Jakob dice «Via adesso non voglio proprio più pensare a nulla. Neanche a Dio? No! Dio sarà al mio fianco, che bisogno ho di pensare a lui?». Parlando di teologia negativa era questo che si intendeva: Dio è presente là dove avviene una sottrazione; dove si toglie, dove non si può dire che cos’è; in cui si può togliere tutto il resto per vedere quello che c’è.
Sempre verso la fine del romanzo Walser scrive «Mi devono gettare nudo sulla strada, e allora forse mi figurerò di essere il signore Iddio che tutto abbraccia»: mi ha fatto venire in mente un libretto recente di Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Io non penso che Walser conoscesse la leggenda dei sette dormienti, anche Calasso lo evidenzia. Questa però richiama strutture mitiche che tornano anche nella riflessione di Agamben sul monachesimo in cui parla del legame tra forma e vita nel monachesimo che mi pare molto abbia a che fare con Jakob von Gunten e con Walser in generale. Questo rapporto lui non lo concepisce come opposizione, ma sottolinea come in realtà derivi dalla capacità di pensare la vita come qualcosa che è dato, non come possesso, ma come in uso. Una cosa che riguarda molto questo cancellarsi, non avere niente, essere uno zero e poter usare il proprio corpo, la propria vita, per fare ciò che lui chiama servire.
Credo sia questo senso di spersonalizzazione che ci rende affascinante Walser, perché non ce lo fa apparire angoscioso. È la sua cifra ed è anche in parte la cifra dello spettacolo di Fabio: tutte queste azioni molto ripetitive che dovrebbero essere angosciose, gli attori presi in dei movimenti da cui non possono liberarsi, ma tutto è al tempo stesso molto divertente, giocoso, restituisce quasi un senso di grazia. La grazia è questo: essere presenti a se stessi, dimenticandosi di sé. La scelta di far mangiare un limone a un attore è angosciosa e violenta, ma diverte insieme noi che guardiamo e, penso, anche l’attore. Non possedersi, non avere il controllo su se stessi invece diventa quasi liberatorio, senza però diventare una cosa leggera, mantenendo questo aspetto un po’ sacro. Il sacro allora è l’orrore e il piacere che si incontrano. Un perdersi che angoscioso e liberatorio.
Fabio Condemi: Nel realizzare quelle scene abbiamo seguito questa doppia sensazione: sentirsi al tempo stesso liberati da qualcosa, considerando anche l’immagine angosciosa che dava l’annullarsi. Dopo una lunga sequenza di ripetizioni di azioni che ci siamo detti dover essere precisissime, ma non avere scopo, una delle prime battute è di Jakob: «Io sono contento che in questo posto mi fanno indossare un uniforme perché nella vita non ho mai saputo che cosa indossare.» Riflettendoci, questa battuta, che tra l’altro suscita ilarità nel pubblico pronunciata in un periodo storico come quello di Walser, in cui sarebbero poi arrivate delle uniformi in tutta Europa, ha una doppia valenza.
Francesco Fiorentino: Peraltro Il tema dell’uniforme torna all’inizio della trilogia di Broch I Sonnambuli dove il protagonista si mette l’uniforme perché questo lo compatta.
La questione dell’uniforme è molto interessante perché permette di sottrarsi alla tendenza: i gusti di vestiario sembrano una delle scelte più individualistiche e personali che esistano. Sono però determinati dalla moda, che è quanto di più capitalistico ci sia; l’uniforme non è l’uniforme del soldato, ma del servitore, di chi rinuncia a dominare e perciò diventa sovrano. Questo desiderio di annullarsi è il grande sogno di Walser: sottrarsi all’ansia di riconoscimento. Nelle conversazioni con Carl Selig parla continuamente di successo mancato; è un suo problema ricorrente. Il caso Walser è indicativo perché è uno dei primi tentativi di sottrarsi al narcisismo che la nostra società costruisce per farci essere conformi ad essa. Walser fa questa grande rivoluzione per cui fa dire a Jakob von Gunten «Non voglio essere riconosciuto, voglio servire».
Gianni Celati, che era un grande lettore di Walser, in un saggio dal titolo Leggere e scrivere, parla di Walser come uno di quegli autori che sfuggono all’interiorità, aderendo piuttosto all’estetica del contingente, una categoria che molto ha a che fare con il teatro. Questa categoria ha a che fare con Walser e con Jakob von Gunten?
Fabio Condemi: Nei miei lavori il rapporto con il contingente si manifesta in modo indiretto, quasi obliquo, e raramente è affrontato frontalmente. Tuttavia, durante le prove di Jakob von Gunten (ma anche nella restituzione pubblica, in particolare alla Biennale di Venezia dove si carica inevitabilmente di forte aspettativa) certe azioni risuonavano fortemente rispetto al contemporaneo, e poi agli spettatori. In Walser, il contingente è sempre presente in modo indiretto: dal punto di vista scenico, la scelta concettuale di creare uno spettacolo sul non essere liberi, con l’introduzione di ostacoli alla libertà dell’attore anziché di improvvisazioni, ha avuto un forte impatto. Quello che ne veniva fuori era molto forte: un continuo stridere con il contemporaneo e con le frasi fatte sul liberarsi o sull’essere se stessi che si dicono generalmente in teatro. Quello che noi abbiamo cercato di fare è di mettere in moto una drammaturgia e un marchingegno scenico che creasse degli impedimenti, come quello del limone: mangiarlo è un’azione reale che non può essere recitata; un’azione che costringe l’attore a confrontarsi con un movimento autentico che lo modifica.
Francesco Fiorentino: Il tema del contingente, sia in Walser che nel teatro di Fabio Condemi, ha diversi livelli. Prima di tutto c’è il livello creativo, dove nonostante si parta con un’idea precisa già strutturata dello spettacolo, ci sono momenti imprevedibili o casuali che influenzano la creazione stessa, come ad esempio la scena in cui gli attori apparecchiano il tavolo con dei caschi che li costringono a muoversi insieme. Questa scena, come mi ha raccontato Fabio, nasce da un sogno fatto durante le prove. L’elemento contingente così entra nel processo creativo, ma viene poi sistematizzato.
C’è poi il contingente che non vediamo, come nella scelta di far mangiare dei limoni agli attori, che viene incorporato nello spettacolo. Io penso che in questo Fabio compia una scelta che corrisponde molto a Walser: come una flânerie molto apparentemente scanzonata, la possiamo leggere al tempo stesso come un tentativo di esorcizzare il contingente. Tutto viene preso in questa rete di parole della passeggiata, del continuo dire senza che ci sia un evento che possa causare qualcosa di irreparabile. Walser lo prende dal sistema di ripetitività e ripetizione; Fabio costruisce uno spettacolo allo stesso modo. È interessante perché creando degli ostacoli per gli attori, questi si sentono più liberi, reagendo e ribellandosi all’imposizione del copione. In questo senso risulta più superficiale la libertà performativa che sembra aperta al contingente ma che in realtà poi lo cancella, si pensa di essere liberi, ma si finisce per ripetere sempre le stesse azioni: se siamo veramente liberi, ci annoiamo perché non accade nulla di nuovo. Al contrario, Fabio attraverso questa imposizione sceglie un ostacolo molto struttrato alla libertà dell’attore, che sente la propria libertà molto più palpabile, perché la percepisce come costretta e impedita. Più grande è l’ostacolo, più cresce il desiderio di superarlo. Una poetica dunque che, secondo me, non si affida direttamente al contingente, ma che lo tiene presente quando si struttura in questo modo ripetitivo e rituale.
Il romanzo I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy si apre citando Walser, descritto attraverso il paesaggio dell’Appenzell vicino a Herisau, il manicomio dove l’autore ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Jaeggy descrive Walser attraverso il paesaggio innevato, definendolo «Un’arcadia della malattia, dove sembra regnare pace e un idillio di morte». Negli spettacoli di Fabio Condemi, sia in Jakob von Gunten ma anche Nottuari, lo spazio è sempre attivante, ideale, ma aperto anche allo straniamento, inquietante e distorto. Vorrei sapere se nel lavoro sullo spazio scenico c’è una ricerca di questa ambivalenza.
Fabio Condemi: Si, sicuramente c’è. In Jakob von Gunten, avevo ragionato in questo modo con Fabio Cherstich [autore della drammaturgia dell’immagine, scene e costumi ndr.]: cosa fare in questo spazio dell’Istituto Benjamenta, riprodurre l’architettura di un istituto reale? Non era questa la nostra intenzione. L’Istituto Benjamenta è una rete di tensioni che si crea tra la presenza di Jacob il suo raccontare questo spazio: il lettore conosce questo spazio soltanto attraverso il racconto di Jakob nel romanzo.
L’altro punto da cui sono partito è il sottotitolo di Jakob von Gunten ovvero Un Diario; un diario in cui non è segnato il tempo, dove non ci sono giorni, mesi, in cui si ha la sensazione che potrebbero essere passati anni fra una pagina e la successiva. Jakob inizia dicendo:«Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta sono riuscito a diventare un enigma per me stesso». Non sappiamo da quanto tempo Jakob si trovi lì. Questo porta già in una dimensione di incertezza, a cui si aggiunge la descrizione degli altri allievi, che Walser dice «si preparano alla vita»: i loro esercizi sono come un’anticamera per la vita, come se si preparassero a uscire, senza che venga specificato verso cosa si preparino ad andare. La domanda allora sarà: che cos’è l’Istituto Benjamenta? L’adolescenza? Una fase della vita? Un momento in cui sono insieme la beatitudine il castigo? La grazia e il servire?
A evocare questo spazio c’è anche il direttore dell’istituto, il signor Benjamenta, che nella mia riduzione non appare, ma soltanto nominato, evocato da un quadro appesa al contrario, che è il ritratto dello stesso Walser. Invece la figlia del direttore, Lisa Benjamenta, ad un certo punto diventa la guida per Jakob, di questo ne parla anche Calasso, verso gli appartamenti interni, descritti a tratti come una discesa allucinata agli inferi o come la grande scoperta della vita. Qualche pagina dopo, quegli stessi appartamenti interni sono descritti come delle stanze in cui c’è solo una vasca con dei pesci che gli studenti devono pulire.
Il tentativo mio e di Fabio Cherstich è stato quindi quello di tenere, anche nello spazio, un discorso di tensioni e sottomissione a un potere che non si vede mai, insieme a un continuo passaggio tra sonno-sogno-veglia. Non serviva avere una vera chiusura o delle pareti, c’era bisogno però avere delle tensioni tra i personaggi. Il ritratto appeso al contrario che non viene mai spiegato durante lo spettacolo, rimane come elemento di scenografia e può essere letto diversamente ogni volta, in base anche ai diversi punti dello spettacolo. L’acquario in scena diventa, ad un certo punto, un paesaggio ulteriore in cui Jakob si perde.
Il suono anche diventa una drammaturgia: lo spazio viene abitato da suoni e passi, echi e metronomi e microfoni, restituendo la mia fascinazione verso il romanzo. La costruzione dello spazio coincide con il tentativo di capire quali sono le tensioni dentro il romanzo e restituirle, Sicuramente questa cosa ha influenzato anche dei miei lavori successivi: per Nottuari viene costruita una sorta di macchina che segue la scrittura di Ligotti, una scrittura in cui si perdono le coordinate tra presente e passato e le storie si mescolano.
Francesco Fiorentino: Gli spazi del Jakob von Gunten di Walser hanno qualcosa di intimo rimanendo però estranei, a me viene da dire come gli spazi dei sogni che sono spazi nostri, interiori, che mantengono però al tempo stesso una dimensione di estraneità e alterità, che io noto come una cifra anche del teatro di Fabio: i suoi sono spazi che hanno un ordine e una pulizia particolare. Il lavoro di Fabio Cherstich sul teatro di Condemi è essenziale, tutto è molto pulito, seppur ambiguo, lo spazio sembra intimo, però allo stesso tempo angosciante e strano, straniante. Nel finale di Jakob von Gunten questo spazio si sporca, diventa disordinato: c’è la neve, c’è un’accumulazione che rappresenta l’uscita verso un fuori che è il deserto, l’apertura totale, il deserto è il luogo che supera tutti i luoghi, il più disorientante che esiste: più del labirinto, perché ha indicazioni.
Un altro elemento significativo di Fabio è che la sua è scenografia fatta di tanti spazi che si aprono. Mi fa pensare a certe cose di Kafka, in cui non si sa mai cosa c’è dietro ogni porta, in Nottuari è così, proprio come negli spazi degli incubi.
E poi c’è l’elemento dell’ascolto. In Walser Fabio lavora su una drammaturgia sonora molto strutturata, dal metronomo e tutta una serie di suoni che strutturano lo spettacolo. A proposito del suono è interessante notare che in Walser la fantasia è associata, evocata dal suono, dove si parla dello spazio che trascende, dell’oltre, del fuori. Questo è legato al suono, all’ascolto.
Qualcuno ha detto che Walser gioca contro l’egemonia del visuale della cultura moderna, perché il visuale dà una cornice. Il tentativo è dunque quello di superare la cornice. Come diceva Derrida, l’orecchio è l’organo più vulnerabile; è sempre aperto, non si può chiudere come gli occhi, ma si può solo tappare. Ma non è la stessa cosa.

Walser è un autore che, nonostante non sia primariamente legato al teatro, molto vi ha a che fare sia per quanto riguarda gli adattamenti: basti pensare al lavoro della Casa d’argilla sempre su Jakob von Gunten o all’Etang di Giselle Vienne, o ancora Brentano di Romeo Castellucci, ma anche perché spesso nei suoi racconti descrive il teatro che, dice, nasce dalla “mancanza di ciò che avrebbe dovuto essere”, Jaques Bondy dice di lui che nel raccontare sembrava sempre stesse costruendo una recita. In cosa consiste dunque la specificità che avvicina Walser al teatro?
Fabio Condemi: In un racconto che si chiama Un incendio a teatro, ad un certo punto della narrazione un teatro brucia c’è una sorta di strano disastro, è un racconto che ho letto spesso durante le prove, perchè come alcune pagine di Jakob von Gunten prende una deriva inaspettata. C’è un momento del romanzo in cui Jakob immagina di essere un soldato sotto Napoleone e la narrazione subisce un cambiamento radicale di stile, ci troviamo improvvisamente nelle distese innevate.
Anche in questo racconto sul teatro, c’è un punto in cui si apre questa scena di incendio, provocando un cambiamento improvviso.
Io personalmente credo che il rapporto di Walser con il teatro si situi in quello che diceva Francesco Fiorentino: paradossalmente ti porta ad andare contro una dittatura del visuale, perché le immagini che dice Walser non si visualizzano, entrano nella testa. In Jakob von Gunten la figurazione così enigmatica di un luogo in cui le persone imparano a servire, è potentemente teatrale, genera immaginazione, fa girare la testa, le orecchie, ti cambia. Oltre a tutto questo c’è da considerare anche che Walser sfugge sempre, e questo porta a cercare il vuoto tra questa immagine che colpisce così potentemente e il fatto di volerla concretizzare, parla, ma non è mai descritta in modo definito e definibile. Un’altro nucleo, per tornare al saggio di Calasso, che a me aveva colpito moltissimo e che è tornato spesso nel modo lavorare sul testo, è quando lui parla di ironia ininterrotta di Walser, in cui anche prendersi sul serio il creare delle immagini dello spettacolo viene messo in discussione. Tutte le immagini che c’erano nello spettacolo dovevano in qualche modo svanire l’una nell’altra senza prendersi troppo sul serio e senza cercare di dare un’importanza specifica a una in modo da guidare troppo lo spettatore. La forza di Walser è che, alla fine di una sezione come la descrizione degli appartamenti interni, in cui sembra descrivere una discesa negli inferi, lui dice «Oggi poi ho pulito le posate» È come se non fosse successo niente.
Francesco Fiorentino: Per quanto riguarda il rapporto di Walser con il teatro di Walser ci sarebbe da ragionare sulla figura dell’attore, lui parla sempre di se stesso, anche in prosa ha scritto tantissimo, parlando quasi solo di se stesso, senza però dire niente di intimo. È come se parlasse di se stesso senza avere un’interiorità, rappresentandosi come senza interiorità.
È veramente un attore in questo senso, nel senso che sembra veramente, nel mezzo di una parte, che non creda a quello che dica e che stia recitando quello che dica, però non si sa bene poi a che cosa creda veramente. Questo è un altro modo per definire quell’ironia ininterrotta: non si sa mai quando è serio, non si sa mai quando è lui. In questo risiede il suo essere teatrale: è un attore che non smette mai di essere attore per tutta la vita. Anche quando dorme, è qualcosa di angoscioso, perché è un attore che non torna mai ad essere lui.
Questa è la cosa più teatrale: fa finta, è cerimonioso, è troppo esagerato, è sempre Fritz Kocher. Questo penso che sia una natura essenzialmente teatrale, perché a teatro non si sa mai se si deve credere o meno.

Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.