È con un canto, con una preghiera levata tra le colonne della Chiesa sconsacrata dei Santi Stefano e Tommaso a Spoleto – oggi Auditorium della Stella –, che Davide Enia invita il pubblico a raccogliersi in un rito collettivo, di memoria e di autoanalisi, attorno al suo Autoritratto, debuttato tra il 29 giugno e il 7 luglio al Festival dei Due Mondi. Un rito celebrato attraverso il corpo del regista, interprete e drammaturgo palermitano che, solo sulla scena – affiancato dalle musiche e dalla voce di Giulio Barocchieri – , si lascia attraversare dai fantasmi dei cadaveri abbandonati dalla mafia sulle balate della propria città a partire dagli anni Ottanta, dalle abbanniate e dai richiami dei mercanti di Ballarò, dalla scompostezza disperata di un cunto che cerca le parole per un “mondo andato in frantumi” nell’istante in cui sull’autostrada di Capaci scoppia la bomba che il 23 maggio 1992 massacra Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni», inizia a raccontare Enia, delineando un percorso di formazione scandito da date e prime pagine dei giornali, in cui la storia intima di ognuno si intreccia con quella di una comunità: nella Palermo della sua giovinezza, il grado di separazione con chi è affiliato a Cosa Nostra e con chi la combatte si riduce infatti al minimo, alla distanza di pochi banchi di un’aula scolastica e di qualche isolato in un quartiere. Se, come insegna Carla Lonzi, “ogni parola che dirà il critico dell’opera è il ritratto del critico stesso”, il tentativo di comprendere un fenomeno come quello mafioso – con i propri codici e con le proprie strategie – si riflette in un processo doloroso di autocomprensione a cui è convocata un’intera generazione: perché vengano sviscerate e sottoposte a critica quelle strutture di linguaggio e di pensiero apprese culturalmente, in seno alle proprie famiglie, che permettono il proliferare di un’inquietante zona grigia. È in una forma di «patriarcato» – quel «familismo amorale» su cui si fonda anche l’organizzazione criminale siciliana – che una sistematica educazione al silenzio trova le radici: fin dall’infanzia la parola non detta suggella legami di amicizia maschile, arrivando a forgiare, nell’età adulta, quei padri e quegli uomini muti descritti in Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017), e poi ne L’Abisso (Premio Ubu come «miglior nuovo testo italiano» nel 2019). Nelle parole di Giovanni Brusca, responsabile di aver «aver commesso e ordinato oltre centocinquanta delitti» e divenuto in seguito collaboratore di giustizia, «la mafia» è infatti «il regno dei discorsi incompiuti»: un’incompiutezza che non permette di risalire alle intenzioni e di individuare in maniera trasparente le responsabilità.
Le parole pronunciate alle ragazze durante l’adolescenza sono dunque connotate come coraggiosissime, ed è nel fiore degli innamoramenti e delle ribellioni liceali che si staglia un’altra figura fondamentale per la coscienza civica di Enia e per quella dei giovani di un’intera città: quella del suo insegnante di religione, don Pino Puglisi, l’«uomo mite» ucciso con dei colpi di pistola alla nuca il 15 settembre 1993. Dopo aver letto un breve testo teatrale in cui l’autore palermitano, ancora ragazzo, illustra sette precetti «per sopravvivere a Palermo», Puglisi – lungi dall’incarnare la “censura del clero” – commenta con sobrietà: «È accurato. Bisogna nominare le cose».
E tra le rime che grottescamente si inseguono per tratteggiare una logica linguistica appartenente alla città – Palermo Vucciria, Palermo Santa Rosalia, Palermo tua madre è mia, Palermo che vuoi che sia –, può allora avvenire la «nominazione del trauma»: la violenza efferata agita sul corpo del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato per 778 giorni, per poi essere strangolato e disciolto nell’acido, viene raccontata da Davide Enia ripercorrendo parola per parola quanto deposto durante il processo. Sono infine le bombe a spazzare via il silenzio, a renderlo impossibile. Nella torrida estate in cui Enia attende i risultati della maturità, parlando al telefono con un’amica dei fumetti di Andrea Pazienza, la «nevrosi» che porta ad associare ogni «botto» a un attentato a Paolo Borsellino si trasferisce sul piano di realtà, con l’asfalto di via D’Amelio saltato in aria e gli alberi rimasti «orfani delle foglie», il 19 luglio 1992. La generazione accorsa in strada, in piazza, è una generazione che si scopre unita: una generazione che inizia ad andare all’estero, e una volta tornata, “vede Palermo per la prima volta”, la comprende nei suoi caratteri eccentrici, intuendo, grazie a uno sguardo rinnovato, la connessione tra i resti dei palazzi bombardati e la speculazione edilizia, tra le zone non illuminate e l’agevolazione dello spaccio, tra il controllo dell’acqua e il dominio esercitato su una città. Per questa «città cimitero», disseminata di lapidi, risuona allora il Miserere di Giovanna Marini.

Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.