In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza
Nina Berberova
Se in italiano espressione No man’s land viene spesso tradotta come terra di nessuno, il rischio che si corre è quello di perdere la dimensione soprannaturale, quasi esoterica della parola. La no man’s land è infatti una terra non fatta per gli uomini, come dice la poetessa Nina Berberova si tratta di uno spazio di libertà, in cui riscrivere i propri processi conoscitivi. Da questo desiderio di riscrittura di se nasce il percorso di formazione ideato dall’Argot Studio di Roma, che si rinconferma come realtà capace di creare un terreno neutro ospitante, come disse a proposito dell’Argot Rodolfo Di Gianmarco nel lontano 2005.
Le parole di quasi vent’anni fa continuano però ad animare le attività del teatro trasteverino che ha realizzato il progetto di Alta formazione teatrale No man’s land attraverso un programma diversificato e intenso volto a sostenere giovani attori professionisti nel gettare le fondamenta di un’identità attoriale. Il percorso è culminato in una restituzione, attraverso un adattamento de Le tre sorelle di Checov, che ha permesso al pubblico presente di cogliere il lavoro svolto sul rispetto delle personalità recitative degli allievi coinvolti, che nello spettacolo si cimentano in un meccanismo di riflettenza e riflessione costante, per loro stessi e per il pubblico.
Argot decide di improntare il suo lavoro su quello che si può definire uno dei pochi gradi 0 possibili del teatro, ovvero il dialogo: a essere coinvolti come docenti sono stati l’autore e regista Filippo Gili e gli attori Massimiliano Benvenuto e Arcangelo Iannace, che hanno provato, come dice Gili, a sconvolgere i piani alla ricerca delle scritture sceniche dei singoli interpreti e destrutturando le gerarchie.
Ad affiancare questo percorso, un gruppo di giovani tra i 16 e i 25 anni che, all’interno del progetto Dominio Pubblico, hanno incontrato gli attori partecipanti alla stagione di Teatro Argot come Eleonora Danco, Elena Arvigo, Tommaso Ragno, Anna Foglietta e Monica Nappo, gli incontri hanno permesso al giovane pubblico di approfondire quella che è la missione profonda di Dominio Pubblico e del Teatro Argot, ovvero la rottura delle barriere fra un palcoscenico, vissuto troppo spesso come distante, e un pubblico giovane, come quello di Dominio Pubblico che inizia a conoscere e a riscrivere le proprie regole della fruizione teatrale.
Un percorso quello di No man’s land votato alla ricerca dell’autenticità espressiva, della consapevolezza di potersi cimentare con i classici e con l’esperienza per tornare a ricercare un’orizzontalità fra professionisti della scena. Ne abbiamo parlato con il regista Filippo Gili.

Se dovessi raccontare il percorso di No man’s land da cosa partiresti: quali erano gli obiettivi e quali sono i nuovi requisiti richiesti agli attori per affermarsi nel mondo del lavoro?
Noi lavoriamo moltissimo sull’autenticità espressiva a teatro, come se fosse cinema vivo, come d’altronde è stato sempre dichiarato il nostro teatro, mio e di Francesco Frangipane. Se vogliamo dirla tutta, è anche un’esperienza da un certo punto di vista poco formativa, perché comunque il teatro ufficiale ti richiede poco una dimensione di verità. Noi cerchiamo di dare strumenti agli attori per rapportarsi con il teatro classico, un teatro un po’ difficile, o così apparentemente più difficile e con un grimaldello diciamo così mentale, scardinare i meccanismi che rendono così diversa la recitazione del testo classico dalla recitazione normale. Per noi è tutto normale o è tutto classico, quindi il lavoro che abbiamo fatto è quello semplicemente di abituare questi attori, sulla base specialmente di un testo classico come Le tre sorelle a potersene pensare all’altezza concedendosi anche il lusso di un’autenticità espressiva, che non significa portare il testo classico nella modernità, ma significa fare un viaggio nell’antichità non dimenticandosi i propri bagagli, non diventare un determinato personaggio, ma parlare, o ridere, o scherzare, o avere l’ironia o l’humor, o il patetismo contenuti naturalmente dall’attore.
Una delle cose che colpisce è un lavoro anche in un certo senso di stravolgimento del ritmo cechoviano. Come avete lavorato proprio per costruire questo spettacolo anche in relazione a questo discorso sul ritmo?
Secondo me il ritmo di Čechov è questo, Un attore grande riesce a camuffare questa ritmica attraverso una serie di linee più verticali, e i ragazzi sono riusciti in questo. La ritmica di Čechov è una ritmica viva, e spesso Čechov è fatto troppo vaudeville. Il ritmo è una cosa importante, chiaro che non è che impari a recitare se fai il ritmo, è anche una partitura.Qui la cosa fondamentale, è data dalla dinamica questo è un testo eccezionale, è un primo atto in particolare eccezionale che abitua proprio l’attore a dover stare all’interno di un percorso, non fraintendendo il proprio mestiere con il fatto di dire le battute. Qui i piani d’ascolto sono più importanti delle battute ed è un primo atto d’ascolto costante, perché sono in nove in scena contemporaneamente. Per un’ora e un quarto l’allenamento che dà questo tipo di situazione è impagabile, è impareggiabile. C’è anche un momento in cui diciamo il recitare è proprio l’ascolto, tanto più perché l’ascolto è dato, non è un ascolto univoco. C’è ascolto il personaggio, ascolta quello che vuole, quel che sa, quel che può: Quando parla Versinin tendenzialmente è talmente interessante e onesto intellettualmente quello che lui dice, è progressivo, non manifestativo. Quando parla Tuzenbach, che è un po’ più ridicolo, un po’ più buffo, c’è chi capisce l’aspetto un po’ grottesco e ci tiene questo tentativo di stare all’altezza di Versinin. La cosa bella è che poi ogni deriva che suscita l’ascolto è una deriva appropriata rispetto ai secondi fini dei singoli personaggi. La meraviglia è che poi come è nella vita, anche chi ottiene ascolto, lo ottiene frammentato dalle derive che il suo senso provoca, che sono diverse da l’uno all’altro

Questo discorso sui personaggi si riflette anche in un certo senso su un’autorialità dell’attore ed è interessante che in questo percorso di formazione c’è un discorso sulla dimensione analitica del testo, si parla di scrittura scenica, analisi testuali, la riscrittura dei classici che però come abbiamo detto non è una vera e propria riscrittura. Mi interessava sapere come avevate lavorato sulla materia testuale.
Per me questa è l’acqua calda, anche se ormai sembra essere l’acqua fredda. Non c’è teatro se non c’è lettura del testo approfondita. Adesso lasciamo perdere le varie mitologiche dieci giornate di prova a tavolino che si faceva una volta e io l’ho fatto quel teatro con Ronconi con le sessioni di dieci giorni di prova a tavolino. Però la prova a tavolino o comunque la lettura attenta che debba essere chiaramente a disposizione dell’attore, Se si vuole schiacciare la palla c’è bisogno di qualcuno che la alzi e la lettura del testo la fa chi alza, se no la palla non si può schiacciare. Se la rappresentazione è la palla che deve essere schiacciata, se non c’è chi te la alza muore il teatro. Se facciamo il teatro di testo, la lettura del testo, l’esegesi è veramente il cinquanta per cento, tanto più in uno spettacolo come questo, per un testo come questo che coinvolge dieci attori in scena.
I professionisti coinvolti nella formazione appartengono a diverse professionalità del mondo del teatro, di cui i ragazzi hanno avuto modo di indagare la storia e il percorso artistico. Qual è stata la reazione degli allievi a questo confronto con una generazione che ha alle spalle un’esperienza scenica importante
Questo nostro laboratorio è virtuoso, amato e spero che potremo replicarlo magari con uno schema leggermente diverso. Per me l’unica grande scuola, a parte tutta la visione romantica e frammentata della scolarità teatrale, è confondere i piani e stare accanto a quelli forti, Ho sempre pensato che sarebbe bello un giorno inventare un laboratorio costante dove cari amici con cui ho condiviso questo corso, hanno a disposizione un tempo per recitare insieme agli altri, non per gli altri, anche senza quasi fare commenti. il talento non è genetica, il talento è imitazione, esperienza e uso e questa a mio avviso sarebbe la via ideale per esercitarlo. È stata una bella esperienza perché abbiamo riscontrato sul campo un successo da un certo punto di vista, perché vedere poi lo stato finale rispetto alle fatiche la difficoltà di cercare di far arrivare una comunicazione per inquadrare la recitazione in una maniera tanto profonda quanto comunque autentica e non recitata, per noi è stata una grande gioia.
Vedere come molti di loro sono riusciti a entrare, ciascuno al suo livello e con la sua esperienza, nel meccanismo fenomenologico dell’autenticità espressiva. Ciò che abbiamo riscontrato è che questi ragazzi, chi più chi meno ragazzo e chi più, chi meno talentuoso, comunque hanno tutti quanti imbroccato una via dove si sono fidati e hanno sussunto la linea dell’autenticità espressiva e non del media recitativo come stereotipo di differenziazione tra il teatro e il cinema. Questo è stato molto bello.

Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.