In occasione del debutto del Grande vuoto, ultimo tassello della sua Trilogia del Vento presentata per il REF al Teatro Vascello, abbiamo intervistato Fabiana Iacozzilli. Nella parentesi di una pausa tra una prova e una replica, abbiamo discusso con la regista i processi creativi che l’hanno portata alle scelte compiute per i suoi tre spettacoli, passando per marionette e grottesco, attraversando il tema della cura, la memoria, fino a cercare di codificare la direzione di questo vento che soffia, tiepido e benefico, nei teatri.
Rispetto alla creazione di uno spettacolo, le diverse tipologie di linguaggi usate per la trilogia, come il teatro di figura, la performance e il video, nascono prima o dopo il tema prescelto?
I linguaggi nascono dopo. Prima mi interrogo su una questione, su cosa voglio interrogare me e il pubblico. Dopo averla messa a fuoco, inizio poi a pensare a quale possa essere la lingua migliore per esprimere la materia artistica su cui sto lavorando.
Mi succede di cambiare linguaggi, forse è una mia specifica. Per esempio fino a La classe avevo sempre lavorato con gli attori, che portavo a una cifra grottesca, tramite un lavoro minuzioso e accurato sull’azione scenica. Nel momento in cui, per La classe, ho deciso di partire dalla mia biografia e dai ricordi d’infanzia, mi sono interrogata a lungo su quale potesse essere il codice espressivo migliore.
Mettere in scena dei bambini sarebbe stato patetico, con degli adulti sarebbe stato grottesco, una strada che avevo appunto già percorso, avendo lavorato tanto sul teatro dell’assurdo in una prima fase stilistica. Quando ho avuto l’intuizione di usare le marionette mi è subito parsa l’unica strada possibile da percorrere per quel tipo di lavoro. Prendendo a esempio invece Il grande vuoto, l’ultimo spettacolo della trilogia, ho contaminato il lavoro con il video, ma sono arrivata al video per esigenze precise che hanno a che fare con la drammaturgia. In ogni caso, prima di tutto c’è la drammaturgia e poi il linguaggio che adotto affinché quella drammaturgia possa esplodere.
Ne Il grande vuoto dovevamo raccontare la solitudine di una donna che vive nella sua casa, affetta da una malattia neurodegenerativa di cui non si parla mai esplicitamente in scena;
avevamo bisogno di far immergere il pubblico in una precisa dimensione e per questo abbiamo utilizzato il video: abbiamo perciò deciso di fare delle riprese live dei movimenti dell’attrice durante lo spettacolo, contaminando anche con del materiale filmato precedentemente in un’altra casa. Anche in questo caso, come già per La classe, l’uso di un linguaggio preciso non è dunque un orpello, ma una necessità.

Come scegli i tuoi attori e le tue attrici?
In parte continuo a coinvolgere performer con cui lavoro da anni e per me questo è prezioso. Molte di queste persone rappresentano una costola di quella che è stata la mia compagnia storica (Lafabbrica, sciolta nel 2017, n. d. r.) e, anche se non sono più nella compagnia, sono per me le risorse più importanti, sono parte del progetto. Ci conosciamo da anni, parliamo la stessa lingua. Poi, quando devo scegliere altre persone, con gli anni ho imparato a capire cosa mi serviva. Non riesco a concepire l’incontro con l’attore o l’attrice passando per il semplice provino, perché il lavoro che faccio è un lavoro di improvvisazione, un lavoro che si costruisce insieme.
La materia che io propongo diventa materia comune, gli attori improvvisano sulle suggestioni che io do, perciò tengo molto di loro nella versione finale. Nel momento in cui decidiamo di lavorare insieme ci scegliamo, non è che io scelgo loro. Forse sono loro che scelgono me. Ci scegliamo insieme. Per esempio con Giusi Merli, la protagonista dell’ultimo spettacolo Il grande vuoto, abbiamo deciso di fare un lungo incontro di 9 giorni alla Corte Ospitale e abbiamo lavorato lì, insieme. È stato un privilegio che non accade spesso, lo so. In ogni caso ritengo sia importante cogliere un certo tipo di umanità piuttosto che un certo tipo di bravura attoriale.
Parlando del secondo lavoro della trilogia, Una cosa enorme, ti chiedo: cosa vuol dire prendersi cura oggi? La società di cui parli e a cui parli sente ancora il peso di Anchise, l’accudire i genitori? Ce l’abbiamo ancora come monito per la nostra crescita?
Non lo so se ce lo abbiamo ancora. Sarebbe sicuramente bello se ce l’avessimo. Una cosa enorme è uno spettacolo a rischio retorica, questo è evidente. Nel senso che la storia che io racconto vede una protagonista che si interroga sulla maternità, ma che alla fine si ritrova a prendersi cura di un padre. Partorisce un figlio-padre. Non possiamo allargare la domanda a un noi.
Nella nostra ricerca è evidente che questo punto di attenzione si sposta dal figlio al padre. Nel mio lavoro, prendersi cura è più visto come un atto generativo, come presa di responsabilità e come una riscoperta del senso della cura di sé, ma in relazione al padre. Allargare il discorso a qualcosa o a qualcuno che esce fuori dalla sfera più intima mi risulta realmente difficile. Avrei paura di risultare banale.

Passiamo a Il grande vuoto, che debutta adesso per il Ref al Vascello; vorrei chiederti: questo vuoto è, secondo te, più per chi assiste una persona che perde la memoria o per chi vive la perdita della memoria?
Io credo che il vuoto ci sia per entrambi con modi, forme e pesi completamente diversi. Forse il vuoto più grande lo vive chi assiste. Perché per il caregiver il grado di consapevolezza, il vuoto che si genera dentro, è maggiore. Stando al lavoro che abbiamo fatto, credo che nel momento in cui ti prendi cura di una madre o di un padre che non ti riconosce più, a quel punto, se non sei più riconosciuto da chi ti ha generato, ti viene da chiederti chi sei.
C’è un momento in cui sei sull’orlo del baratro, per cui ti domandi: “se non sono più nessuno per quella persona, chi sono?” Questo è un passaggio delicato e importante, per cui credo che il vuoto più grande sia per chi assiste perché entra in questa vertigine, in questa voragine.
Il vuoto più drammatico è invece quello di chi perde i pezzi. In questo spettacolo io però volevo tantissimo che si andasse verso la gioia. Il nostro percorso è passato per La classe, poi per Una cosa enorme, che dei tre è lo spettacolo più duro, più crudo, e volevo veramente lasciare questa trilogia al pubblico, e a me stessa, creando un momento di gioia.
Il grande vuoto finisce raccontando un grande ricongiungimento, mostrando come questo vuoto possa zampillare, come ci sia un’energia vitale anche lì dentro e come ciò possa accadere nel momento in cui i figli decidono, attraverso il teatro e il gioco, di entrare nel mondo della madre, nel mondo del Re Lear.
Accade quando i figli decidono di scivolare verso la madre per continuare ad avere un rapporto con lei, quando decidono di entrare nel mondo del teatro che è l’unico ricordo che lei ha.
In che direzione soffia artisticamente il tuo vento? Dove ti ha portata questa trilogia?
Non era nata come trilogia del vento, lo è diventata. La classe, il primo spettacolo, finisce con l’immagine del vento, nel secondo ci sono degli uccelli minacciosi che continuano a girare sopra la protagonista per consegnarle la creatura, come delle cicogne, e anche questo ha richiamato un’immagine di vento e aria. In realtà mi ha molto colpito questa strana chiusura del cerchio; è stata veramente inaspettata. Quando con Linda Dalisi, la dramaturg de Il grande vuoto che ha fatto un lavoro straordinario, ci siamo rese conto che anche questo terzo lavoro era così fortemente legato al vento, siamo rimaste colpite, perché non lo avevamo deciso.
La protagonista de Il grande vuoto, Giusi Merli, mentre lavoravamo sulle emozioni, ci ha rivelato che il suo cavallo di battaglia era Re Lear e soprattutto il monologo del Soffiavento a cui era legatissima. Di fronte a questa dichiarazione sono rimasta molto turbata, perché avevo già deciso di lavorare su una trilogia, ma non avevo ancora il titolo, per cui mi sembra che sia stato il teatro a manifestarsi di fronte ai miei occhi. Quindi forse il vento soffia, nella riscoperta delle possibilità che il teatro dà a noi artisti ogni volta. Forse in questo senso il vento soffia in un modo caldo. Lo dico perché prima di concludere questa trilogia stavo anche un po’ perdendo un certo fuoco.
Stavo diventando in un certo modo una professionista, che faceva bene il suo lavoro e basta. Invece ciò che è accaduto di fronte ai nostri occhi mi ha fatto pensare che, alla fine, il teatro, se gli si dà un’occasione, si manifesta. Ti si manifesta sempre. È lui che ti racconta la strada; è lui che ti racconta dove puoi andare.

Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.