In un ottobre più caldo del previsto, mi ritrovo nel cortile delle Fonderie Limone, “una fabbrica delle arti” ricavata dalla struttura di questa ex-industria, nascosta tra la zona industriale di Moncalieri e quella residenziale di Nichelino, alle porte di Torino. Incontro Anna Cremonini, che è subentrata nel 2018 a Gigi Cristoforetti nella direzione di Torinodanza.
Esperta nel settore della produzione e organizzazione dello spettacolo dal vivo, si è formata al Teatro Due di Parma e ha collaborato con il Teatro Festival Parma. Successivamente ha lavorato per quattro anni alla Biennale di Venezia e poi al Mercadante di Napoli. Responsabile organizzativa per il festival Equilibrio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è stata nominata alla Commissione responsabile della valutazione qualitativa sul FUS per il settore danza. Emerge subito da questo incontro la capacità di Anna (mi ha puntualmente chiesto di chiamarla per nome) di mettere a proprio agio l’interlocutore e la sua volontà di “stare sul campo”, arrivando a ogni appuntamento del festival in anticipo e parlando con tutti gli spettatori. Come essere invitati a una cena, con tutti gli onori di casa. Ci siamo presi quindi qualche minuto per scambiarci delle impressioni sul festival, che ho cercato il più fedelmente possibile di riportare.
Mi sono trovato, dopo diversi anni passati a seguire il festival Torinodanza – e in particolare queste ultime edizioni – a definire questo evento come una tavola anatomica: ovvero un festival che mostra al pubblico diverse parti della danza di questi ultimi anni, sia nelle sue parti più conosciute e “popolari” – l’epidermide – sia nelle sue espressioni sperimentali, più interne al panorama. Lei si trova d’accordo con questa mia definizione? Inoltre ho rilevato che in questo festival trovano spazio coreografi affermati come Sidi Larbi Cherkaoui (con cui Cremonini vanta un lungo rapporto professionale di collaborazione, ndr) e Akram Khan, i quali ereditano il bagaglio dei grandi maestri europei, ma anche uno spazio dedicato alle sperimentazioni degli autori italiani.
La lettura che hai dato al festival è interessante in quanto è un punto di vista esterno al mio: forse proviene dal fatto che cerco sempre di darmi delle motivazioni per scegliere uno spettacolo. Cerco di lavorare con degli artisti perché in qualche modo restituiscono una visione della realtà, di una vita, di un qualcosa del nostro essere contemporanei: chi come Akram Khan lo fa in maniera più manifesta, con un sottotesto ideologico e politico che si porta sulla pelle (Khan è figlio di migranti dal Bangladesh in Inghilterra, ndr) e chi lo fa in maniera più astratta o traslata. Il comune denominatore di questi artisti credo sia la volontà di raccontare qualcosa di noi, attraverso il corpo: è un corpo moderno, contemporaneo, sensibile alle sollecitazioni ed ai contrasti. Gli artisti ci aiutano un po’ a capire il mondo in cui viviamo, un mondo che cambia tutti i giorni, si sgretola intorno o si ricostruisce.
Queste sono le parole che direbbe una persona che fa creazione, solitamente: io vedo sia una direzione artistica ma anche una precisa volontà creatrice.
Innanzitutto vengo dalla produzione teatrale, quindi ho una sensibilità al palcoscenico e so cosa succede a chi sta lì sopra. Non sono una creativa, ma seguo da sempre l’attività creativa: credo comunque sia più complesso fare uno spettacolo rispetto a un festival. In qualche modo però anche la composizione di un festival è in qualche modo una dichiarazione d’identità.
Torino ha un rapporto particolare con il teatro e con i festival, e anche con il progetto di rilevamento seguito dall’Università è emersa una diversificazione rilevante e un’attenzione a quello che avviene. Qual è stato il tuo impatto con questa realtà?
Quando ho seguito l’edizione del 2017, l’ultima diretta da Gigi Cristoforetti, ho potuto osservare in maniera più dettagliata gli spettatori, avendo la sensazione che il pubblico torinese sia di cultura medio-alta: percepisci una densità nell’osservazione, una forma equilibrata di assenso e dissenso. Non è un pubblico compiacente e anche se non ho avuto fortunatamente manifestazioni di dissenso, si rivela comunque esigente e costruisce un rapporto basato sulla fiducia.
In Italia si discute molto del fatto che un festival sia un momento di sintesi, una summa di quello che succede in questo settore: su che cosa si dovrebbe lavorare dal punto di vista dell’offerta e del dialogo con le istituzioni?
Io ho avuto il privilegio di essere arrivata in un festival che esiste da molti anni e ha costruito un rapporto con la città: sicuramente penso che una proposta di qualità – indipendentemente dal budget – crei un rapporto con il pubblico. Io mi sono inserita in una storia già tracciata. Noto con grande piacere che in Italia i festival di danza contemporanea esistono, crescono, hanno un pubblico, godono di un’attenzione più alta rispetto al teatro contemporaneo. La danza forse interpreta dei bisogni nuovi. In Italia non abbiamo i “Grandi Festival” – come ad esempio in Francia con Avignone – ma abbiamo delle dislocazioni, dove si è creata una maturità, un’esperienza. Sicuramente sono stati fatti molti passi avanti anche nei rapporti con le istituzioni; bisogna andare avanti, insistere, migliorare la qualità dell’offerta perché la stessa migliora la qualità della domanda, e questa significa una volontà collettiva più consapevole.
Un’ultima domanda: si parla poco di chi si affaccia al lavoro della direzione artistica: dal titolo di studi universitario, al tirocinio in ufficio, alla “gavetta dietro le quinte”: cosa consiglieresti a una persona che si affaccia a questo mestiere?
La mia esperienza suggerisce di avere tanto coraggio, ma soprattutto vedere tante cose: anche ciò che sembra non servire. Tutto aiuta a formarsi un’idea, un gusto, una visione. Io ho fatto tanti passaggi e cambi di visione, quindi ho rischiato. Sono fortunata, perché sono una donna e sappiamo che per noi l’evoluzione di un percorso professionale non è sempre facile – soprattutto nella fase che io chiamo “l’ultimo miglio” – ma credo si debba abbassare l’età media. Io ci sono arrivata tardi a questa maturità, ma credo che prima o poi debba arrivare una generazione di giovani: sicuramente fare esperienze diversificate e in luoghi diversi aiuta a formarsi un patrimonio personale spendibile.