MUTE e DOT chiudono la rassegna Open Dance 2025 

Giu 17, 2025

Articolo a cura di Sara Raia

Un unico corpo a terra al centro della scena del Teatro Nuovo di Napoli, di spalle, inizia il proprio movimento, quasi impercettibile, mentre le luci sono ancora accese e il pubblico si accinge a prendere posto in platea. In questo modo MUTE incuriosisce lo spettatore che solo allora si siede, pronto a dedicare la sua attenzione alla performer Martina Gambardella, che effettua piccoli bounces in silenzio, andando poi a compiere visibili e ripetute scomposizioni del corpo, facendo risaltare all’occhio quella del piede destro. La danzatrice articola il proprio bacino, il collo e le spalle, poi effettua circonduzioni di braccia. Il silenzio è spezzato da un suono che dapprima sembra un leggero fruscio, trasformandosi in seguito in un vento più forte e infine in un rumore metallico, paragonabile forse al clangore delle chiavi nella serratura.

La performer per la prima parte dell’esibizione continua a danzare al suolo in cerca di nuove e differenti connessioni. Poi il suo corpo si alza in piedi per assomigliare a quello di una marionetta che, in assenza di fili, si muove con libertà nello spazio. Allora la danzatrice pare scoprire le proprie possibilità di movimento: articola le dita della propria mano come se tra queste ci fosse della sabbia e fa in modo che l’input danzante origini da particolari punti, come il gomito, il braccio o i polsi. Il suo respiro è affannoso e il suo sguardo si orienta nel proprio spazio di spinta cinetica. La danzatrice guarda in direzione della quinta e quasi mai verso l’audience, ma i movimenti si fanno più veloci quando poi un’espressione sul volto, quasi impaurita, sembra spingerla a riappropriarsi del proprio posto inziale sul palcoscenico. Adesso lo stesso piede che s’articolava nella prima sequenza del solo sbatte a terra più volte, divenendo per qualche secondo lo strumento sonoro e comunicativo. La tensione corporea, mantenuta costante per la durata di MUTE, s’arresta solo alla fine, quando la performer ritorna alla posizione di partenza. 

Un breve momento di silenzio separa la danza di Gambardella dalla seconda performance, DOT, che presenta due danzatori in punti opposti della scena, in penombra. Indossano i costumi di Lina Orlando che assumeranno un ruolo determinante nella costruzione del pezzo. Marco Casagrande e Nicolò Giorgini, creano — e danzano —  una coreografia ipnotica. Riflettono sulla teoria dei buchi neri, immaginando DOT come una regione isolata dello spazio-tempo. Non è un caso allora che il pubblico si ritrovi dinanzi ad una visione quasi onirica, che segue l’orizzonte degli eventi con un andamento circolare, attraverso la forza gravitazionale del corpo. Ciò permette ai due danzatori, prima distanti, di unirsi poi in un tutt’uno.

© Manuel Cafini

Il sound, ideato da Borgo Perez, è sempre più incalzante e i performer sembrano a tratti fluttuare. L’occhio in platea osserva un susseguirsi alternato di luci ed ombre che si riflettono sui costumi dei danzatori e sulla base tonda e luccicante al centro della scena. Sopra di essa Casagrande e Giorgini iniziano un sapiente e affascinante lavoro di contact. I due danzatori, sfidando lo sguardo degli spettatori, si uniscono come per mimetizzarsi e creare con i loro corpi forme astratte, anche attraverso alcuni profondi cambré. Le due figure sono catturate da questa forza spaziale invisibile, che permette loro di seguire l’orbita ininterrotta con la medesima spinta, annullando per sempre le distanze.  

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