Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. Intervista ad Andrea Incorvaia

Ago 20, 2018

L’iniziativa “Mi Riconosci?” nasce alla fine del 2015 dalla volontà di un gruppo di professionisti del mondo dei beni culturali (studenti e laureati, lavoratori e in cerca di occupazione) di cambiare la realtà lavorativa del settore. Situazione che si presenta complessa e articolata: professioni del tutto ignorate quali educatori museali o paleontologi, o riconosciute solo in teoria e in attesa di decreti attuativi (come archeologi, antropologi, bibliotecari), o in attesa della fine di processi lunghi anni, quali i restauratori. Da qui l’idea di creare una campagna unitaria sull’accesso alle professioni dei Beni Culturali, sulla valorizzazione e riqualificazione dei titoli di studio del settore. Dal momento della sua nascita il movimento cerca di instaurare un dibattito pubblico sul tema facendo pressione su Governo e Ministero.

Abbiamo intervistato Andrea Incorvaia, uno dei promotori di Mi Riconosci?:

  • Il Rapporto Io sono cultura 2016, consegnato al Ministero dei Beni Culturali dalla Fondazione Symbola e Unioncamere, prova che il settore culturale è uno dei pochi in cui, nonostante la crisi, le entrate hanno continuato a crescere, eppure dai dati ISTAT 2015 si evince che l’80% degli Italiani non è mai andata a teatro nel corso dell’anno, il 68% non ha mai visitato un Museo e il 56% non ha mai letto un libro. Come si spiega questa apparente contraddizione?

I dati vanno letti, provando a focalizzare bene il periodo storico che ci trasciniamo dietro. Il settore culturale di per sé riesce da sempre ad attrarre tanti e tante i problemi, come sempre, riguardano la natura economica poiché le spese che hanno contraddistinto il comparto, soprattutto negli ultimi anni, sono state esigue. La contraddizione nasce dal fatto che si è spesso fatto degli istituti culturali luoghi di conoscenza “mordi e fuggi” legati ad occasioni come mostre ed esposizioni, che dopano sensibilmente il dato relativo.

  • In merito al Teatro, il Rapporto Io sono cultura 2016 rivela a p. 226 che i campioni di incasso presentano un repertorio privo di grandi sorprese e in simbiosi con i palinsesti televisivi. In un’intervista rilasciata a Gianfranco Capitta e pubblicata da Laterza nel 2015 nel volume Teatro della conoscenza, Luca Ronconi riflette sulle condizioni di precarietà diffusamente accettate e assorbite dai giovani attori e sulle loro aspirazioni: « Una domanda che faccio loro solitamente, un po’ provocatoriamente, è se considerano quello che andranno a fare un’arte, una professione oppure un lavoro. È necessario che abbiano la consapevolezza dei propri obiettivi. Dico loro chiaramente che se vogliono fare arte ed essere artisti, allora dovranno contare solamente su se stessi, andando incontro a una serie di frustrazioni incredibili; potranno farcela (o non farcela) indipendentemente dalle loro capacità, in un rapporto tra essi stessi e il loro saper fare. Se vogliono farlo come un lavoro che presuppone una ricompensa, sappiano che l’arte non necessariamente viene ricompensata, l’artista può esserlo come può non esserlo, e il mercante può riconoscerlo o meno, e quindi pagarlo oppure no. È un rapporto col mercato. Se si fa un lavoro, si prende un compenso perché si svolge un servizio per gli altri. Altrimenti non si può chiamare lavoro: una cosa che serve solo a chi la fa può essere una gratificazione personale, ma non un lavoro. La gratificazione, a sua volta, può essere un risultato, ma non l’obiettivo, che è invece quello di essere utile a qualcuno. Se poi vogliono fare la professione, ebbene debbono sapere che qualunque professione ha le sue regole. E bisogna conoscerle, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, e adattarvisi. E comunque bisogna seguirle ». Qual è, a vostro parere, la giusta strategia per monetizzare l’arte senza svilirla?

Innanzitutto possiamo ben specificare che se pensiamo al settore dei beni culturali come un mero luogo di profitto, commettiamo un errore pacchiano. La famosa frase pronunciata da un famoso Ministro, qualche anno fa, è un’aberrazione se pensiamo banalmente a quello che il Patrimonio diffuso, con tutti annessi e connessi, potrebbe fare per la crescita di questo Paese. Personalmente mi viene da pensare all’esempio che dette BLU, lo street artist, tempo fa. Nel 2016 infatti un privato propose la creazione di un Museo realizzato sulla base delle sue opere, prevedendone il distacco dai muri e portandole in luoghi privati e quindi a pagamento. L’artista si oppose e addirittura cancellò di sua spontanea volontà una sua opera a Bologna, dipingendola interamente di grigio scrivendo al suo posto “in ogni caso nessun rimorso”. L’arte è di tutti e tutte così come non può essere ingabbiata all’interno di formule che prevedano aperture gratuite una tantum, bisognerebbe allargare le possibilità per tutti in maniera che i dati citati nella domanda precedente sugli italiani poco partecipi alla vita culturale, subiscano una netta inversione di rotta.

  • Uno studio che il Comune di Bergamo ha affidato a Prometeia nel 2016 dimostra che per ogni 10 occupati direttamente sostenuti da attività culturali se ne generano altri 15 in settori diversi da quello culturale. Dal Contratto per il Governo del Cambiamento, però, come denunciate in un vostro articolo, non emerge la volontà di rilanciare il nostro Patrimonio Culturale rilanciando l’occupazione. Quali credete che siano le motivazioni?

Al netto di tutto pensiamo che il governo giallo-verde, pur considerando decenti le uscite ultime del nuovo Ministro abbia poco interesse nell’affrontare un serio ragionamento sui professionisti di settore e sul Patrimonio. Staremo a vedere e monitoreremo al dettaglio le mosse: una cosa è sicura il nostro mondo ha bisogno di una svolta importante, pena il disastro definitivo.

  • Dal 1985 il FUS ha subito un calo del 55% e la mancanza di investimenti ha contribuito a provocare l’abbattimento dei diritti e del costo del lavoro. Il settore teatrale pullula di professionisti che accettano lo sfruttamento come male minore, legittimando il sistema: in che modo si può arrivare a un patto etico tra professionisti e datori di lavoro?

I beni culturali sono da sempre stati laboratorio ottimale per lo sfruttamento lavorativo. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento fortissimo di utilizzo sconsiderato di lavoro povero o addirittura forme di volontariato sostitutivo che ledono su due binari paralleli: anzitutto la tutela del lavoratore, in seconda battuta la qualità del servizio che si offro alla cittadinanza, elemento fondante per la declinazione totale dell’articolo 9 della nostra Costituzione. Il messaggio che passa, in maniera abbastanza semplice; utilizzare sempre più manodopera a basso costo o gratuita sopperendo alle fortissime carenze strutturali del comparto.La cosa che più ci fa rabbia è data dal fatto che anche e soprattutto le Istituzioni hanno legittimato tutto questo; basta pensare al bando che l’allora MiBACT fece per 1000 unità di “personale” legate ai progetti di servizio civile. I buchi sono tanti e si pretende di salvare il sistema rattoppandoli e rimandando al problema in eterno. Il patto etico, che la campagna ha presentato nel Febbraio 2017 (PLAC) a Montecitorio vuole essere un vademecum che provi parlare alle componenti che lavorano per lo sviluppo del settore, cercando dei meccanismi e interconnessioni che disinneschino la guerra tra poveri e rigettino totalmente l’idea del “massimo ribasso”

  • State portando avanti la battaglia sull’occupazione culturale attraverso il sito https://miriconosci.wordpress.com, la pagina Facebook https://www.facebook.com/miriconoscibeniculturali/, seguita da più di 21000 utenti, e l’hashtag #‎RILANCIAMOILPAESE. Spazi e strategie virtuali, ma con risonanza reale: a Roma, il 6 ottobre 2018, si terrà la prima manifestazione unitaria di tutto il settore culturale Italiano. Quali manovre lo Stato dovrebbe mettere subito in atto per salvaguardare la dignità dei lavoratori culturali e al contempo rilanciare l’economia del Paese? Perché il 6 ottobre dovrebbero scendere in piazza tutti i cittadini e non solo chi lavora o aspira a lavorare nel settore dei Beni Culturali?

Inizio partendo dalla manifestazione che si terrà a Roma il 6 Ottobre p.v., una grande occasione per tante e tanti; per farsi sentire e cavalcare l’onda di una vertenza strategica per il futuro del Paese. Dignità del lavoro e tutela di tutto ciò che è arte rimane, a nostro modo di vedere, un percorso unico da battere con convinzione e determinazione, un momento unico per una definitiva e primissima collettivizzazione del problema. Stare in piazza a Roma in quella giornata è di stringente importanza per tutti, poiché la cultura è il bene comune per eccellenza. Le manovre che uno Stato serio dovrebbe mettere in atto per l’intero settore partono anzitutto da un vero e proprio piano delle assunzioni, se pensiamo che da qui al 2020 moltissimi strutturati del MiBAC andranno in pensione. In seconda analisi rilanciare il Patrimonio diffuso che con la riforma Franceschini ha subito un disinvestimento clamoroso al fine solo ed esclusivo, di rilanciare (ce ne era bisogno?) i grandi siti culturali e i grandi enti. Infine dire basta una volta per tutte al volontariato sostitutivo, come Mi Riconsoci abbiamo presentato, lo scorso Febbraio, una proposta di legge sulla revisione di parti della Legge Ronchey, la quale in alcuni passaggi rende ambigua la presenza proprio dei volontari della cultura a discapito dei professionisti. Non molleremo, questa è solo l’onda lunga dell’inizio.

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