Memorie di mondo scomparso. L’abbaglio del tempo di Ermanna Montanari

Ott 1, 2024

L’abbaglio del tempo (edizione a cura de La Nave di Teseo, con i testi di Marco Belpoliti e Igort) di Ermanna Montanari – attrice, autrice, scenografa e fondatrice insieme a Marco Martinelli del Teatro delle Albe – è un libro che sfugge alle classiche categorie letterarie. Nella prefazione viene presentato come un romanzo, ma la prosa di questi scritti è un magma, una lava incontenibile, non indirizzabile.
Il nucleo centrale è dedicato alle memorie d’infanzia di Ermanna Montanari collezionate a Campiano, suo paese d’origine. Seguendo un andamento temporale ciclico, il volume si apre con il racconto di una recente visita di Ermanna insieme a un produttore cinematografico a Campiano; prosegue con la sezione Miraggi che racchiude le miniature campianesi e termina con dei “dialoghi a voce sola”, in cui l’autrice riporta conversazioni del presente con i propri genitori. 

Un primo tema che emerge dalla lettura de L’abbaglio del tempo è quello della compresenza: parole che si ripetono, vanno e poi ritornano. Sono parole-mondo, si trascinano dietro intere galassie di pensiero: concetti, rimandi, sensazioni che si staccano dal foglio e si attaccano al corpo. Parole che nella loro messa in relazione assumono una postura dicotomica, come se l’una fosse correlata a un’altra che è il suo opposto: c’è la luce. Quella dell’abbaglio, quella riflettente della neve bianca; la luce della stufa che fa da nutrice al mondo animale e umano insieme; e poi c’è il buio. Quello del pozzo, della notte agitata, dei fremiti e delle inquietudini dell’infanzia, quello della camera da ricevere – la stanza incellofanata, sempre intonsa per gli ospiti che verranno. Uno spazio che è reale e fittizio insieme, come il teatro. Il primo teatro in cui Ermanna Montanari abbia mai messo piede. 
E vi è la dicotomia del dentro e del fuori. Con il dentro che è lo spazio della casa – immobile, con l’aria viziata, custode dell’infelicità dei rapporti familiari – e il fuori – la terra coltivata, i filari, il cimitero, il letamaio –, luoghi di vita, di scoperta, di libertà dove si consolida l’amore per gli affetti più cari. 

Ermanna Montanari ci dona una poesia delle cose di pasoliniana memoria, insieme a lei vediamo e tocchiamo tutto. Afferriamo e ricollochiamo. Eppure, è proprio nell’attaccarsi addosso di queste parole-mondo che l’idea della dicotomia, dell’opposto, si rivela inadeguata: la potenza della narrazione sta nella compresenza, nella capacità di essere contemporaneamente. Di tenere assieme ricordi, confessioni, segreti che non si profanano nel disvelamento.

L’abbaglio del tempo custodisce le macerie di un mondo agricolo, primitivo, negli istinti e nel linguaggio. Un mondo scomparso. Il nonno paterno è il primo a cui Ermanna dedica un racconto: in Bianco neve, come in Renzo Montanari, è un uomo tutto d’un pezzo, un lavoratore instancabile, che vive in comunione con la natura. Il nonno padre, il nonno amico, il nonno confidente, il nonno da abbracciare sul gradino della porta d’entrata. Il nonno patriarca, da cui Ermanna cerca insistentemente attenzione e approvazione, il nonno che la difese quando a vent’anni decise di sposarsi con Marco Martinelli e fare teatro. Il nonno che a scriverne le tira fuori una poesia dolcissima e feroce a un tempo.
E questo mondo scomparso è primitivo come le figure che lo infestano, la violenza e la morte tra tutte, che non si palesa come concetto ma come elemento tattile: i gattini ammazzati, le tensioni omicide, i fiori appassiti, Ermanna che porta il nome di uno zio morto in circostanze violente e rinnegato – perché un’incidente stradale non è una morte degna per una famiglia in cui la morte, come molte altre cose, acquistano dignità solo attraverso il lavoro. 

L’Ermanna dell’infanzia è una bambina dall’udito largo: sente, sente tutto e questo la affatica. Campiano la affatica, con il suo dialetto, la sua lingua impregnata di terra, che sempre puntella il discorso e che riserva alcuni tra gli squarci poetici più alti. Una provenienza che scaturisce vergogna – l’italiano imparato a scuola –, un’appartenenza da ripudiare ma che affiora, inaspettatamente, ogni volta che Ermanna si fa teatro. 
Campiano è una di quelle crisi della presenza, tipiche del mondo primitivo – rese note dagli studi dell’antropologo Ernesto De Martino –, che si manifestano quando agli individui pare di perdere coscienza per via di un dolore insostenibile. Perdere la coscienza del proprio sé per scoprire coscienze nuove. Con L’abbaglio del tempo Ermanna Montanari raccoglie e conserva, posiziona tutto questo dentro a delle minuscole fotografie, componendo e offrendo a noi altri un vecchio album di famiglia dai bordi sfilacciati.

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