La messa in scena di un paradigma: questo è l’Antigone. Così, la versione portata al Teatro Astra di Torino da Massimiliano Civica si svolge tutta, necessariamente, dentro uno spazio delimitato con precisione che gli interpreti osservano, in attesa che la luce della ribalta si accenda su di loro, e che al momento opportuno raggiungono con fare rigoroso e marziale. Un paradigma che ha ancora declinazioni da svelare: lo suggeriscono gli abiti contemporanei, che ammiccano – neanche troppo velatamente – a un passato molto lontano, accostando agli abiti eleganti delle principesse le divise militari ornate di stelle rosse di Creonte e (quasi specularmente) di Emone, ma forse ancor più la figura del Polinice in camicia nera su cui gli altri spengono e riaccendono, col procedere del racconto, la luce e il fulcro dell’intera narrazione. Che però resta saldamente all’interno del quadrato, dove si fronteggiano, insieme ai modi di intendere il reale, secoli di potenziali letture e le relative negazioni.
Mettere in scena l’Antigone è, infatti, ridiscutere un modo di vedere il mondo, prendendo una posizione. Dalla parte della legge degli uomini, di quella degli dei o – adesso più spesso, ed è la strada che Civica sceglie – da nessuna delle due parti. Dentro al suo ring di luce i due antagonisti si specchiano: non c’è più una posizione giusta, un’empatia che possa godere di una voce sola. Antigone e Creonte non fanno che compiere lo stesso errore: la presunzione della correttezza della propria posizione, il peccato di hybris. Così la voce del buonsenso di Emone, che richiama alla capacità di mettere in discussione le proprie idee, ha un suono più che mai contemporaneo che svela tutta la sua problematicità. Le idee devono sempre essere messe in discussione? Interrogarsi è sempre un segno di maturità? Questo sembra chiedere il tragediografo, ma la risposta oggi è la stessa? Un elemento simbolico, se ancora ce ne fosse necessità, di quanto Antigone e la sua storia non abbiano mai finito di parlare, e di mettere in difficoltà lo spettatore di ogni tempo.
Mettere in scena un archetipo, sviscerato e piegato a ogni esigenza registica, significa anche confrontarsi col modo in cui si decide di rappresentarlo. Massimiliano Civica sceglie un cardine molto preciso, la parola. A farne le spese è la resa espressiva, con attori chiamati ad annullare completamente il carico patetico di cui le migliaia di Antigoni snodate lungo la storia hanno dato prova. Ne emerge una interpretazione complessivamente innaturale, in alcuni casi. È così, ad esempio, per il corifeo di Marcello Sambati – una figura recuperata dal regista in contrasto all’abitudine del teatro contemporaneo di espungerla. Una figura che qui si pone spesso al centro della scena con habitus teatrale per antonomasia, a tratti persino grottesco, persino disturbante per lo spettatore abituato all’immedesimazione. Vistoso il contrasto con Francesco Rotelli, chiamato a impersonare, oltre a Emone, una guardia che, per rendere la voce dialettale del testo originale, si esprime attraverso un espressivo romanesco.
Così l’Antigone di Monica Piseddu e l’Ismene di Monica Demuru si muovono su corde tese, attente a non strapparle. Come vorrebbe fare il Creonte di Oscar De Summa, costretto a essere padre dei figli-cittadini di cui si è assunto la responsabilità, anche quando non la desidera più. Perchè governare, si suggerisce, è un onere molto più di quanto sia un onore. Quella della resa, in una scena nuda, è una scelta orientata proprio a sfrondare di ogni altro motivo d’interesse il ritorno alla parola. Quella che Civica affida ai suoi attori è una nuova traduzione che svela (ancora) le potenzialità di una lingua feconda come quella sofoclea, in cui le parole portano con sé significati troppo spesso banalizzati. Deinos, soprattutto. Una parola attribuita a entrambi, e tradizionalmente resa come “meraviglia”. Civica invece sceglie una soluzione evocativa ed eloquente: “miracolo che fa paura”. Tanto Antigone quanto Creonte, sua sorta di doppio rovesciato, sono qualcosa che esce dalla norma. Lo sono egualmente. Ed entrambi sono, per questo, pericolosi. Questo suggerisce la lingua scelta dall’autore e la traduzione letterale che il regista ha scelto. Questo conferma la lettura filosofica calata nel contesto storico originale che il regista ha scelto in luogo di quella immedesimativa per lo spettatore di oggi.
L’ elogio della flessibilità si rivela quindi uno strumento che Civica definisce “sovrapolitico” (e si potrebbe definire antipolitico, se il termine non fosse connotato). È infatti la fotografia di una dialettica in cui non ci si ascolta, si mette in scena una parte. Piegando anche le parole a quel che si vuol dire. Così, il celebre emistichio “sono nata per amare, non per odiare” svela una traduzione orientata. Il verbo usato dal tragediografo non è infatti quello propriamente traducibile con “amare”, ma un neologismo che vi unisce una particella che vale “con”. Se quindi, si domanda Civica, ha sentito l’esigenza di un verbo nuovo, che tipo di significato differente bisogna presupporre? Senza, naturalmente, poter avere una risposta, il regista opta per una traduzione che mette potenzialmente in discussione la lettura dell’intera frase, e persino dell’intero testo “sono nata non per odiare, ma per amare i miei famigliari”. Un’entità limitata, che fa da specchio rovesciato a quella collettiva per conto della quale il corifeo parla, un gruppo di cittadini sui quali fa perno un’altra decisiva scelta, quella delle parole con cui Creonte viene congedato. Non la possibilità di governare ma il dovere di occuparsi di ciò che lo circonda. Così occorre calare Sofocle non nel nostro tempo ma nel suo, suggerisce la messa in scena di Civica, e sentire la sua voce rivolgersi a Pericle, e invitarlo all’equilibrio di tutti gli opposti: donna-uomo, dei-legge, aristocrazia-popolo. A rifiutare ogni forma di radicalità. Soprattutto quella della (sua) democrazia.