Marie-Bernard Koltès e il teatro del ragazzo poco prima della foresta

Gen 12, 2024

È andato in scena il 10 gennaio scorso a Teatri di Vita di Bologna, nell’ambito della stagione D’io, Teatro e Famiglia, Le amarezze di Marie Bernard Koltès, diretto da Andrea Adriatico. Lo scritto d’esordio del drammaturgo francese scomparso prematuramente nel 1989, a soli 41 anni, dopo aver contratto l’Aids, tra i più interessanti autori del teatro contemporaneo sul quale già da alcuni anni la critica si sta adoperando per una retrospettiva su questo artista considerato l’ultimo dei maudit.

Una rappresentazione corale di un conflitto familiare, quella diretta da Adriatico, basato sullo scritto di un Koltès poco più che ventenne, nel 1970,  ispirato dal romanzo autobiografico Infanzia, di Maksim Gor’kij, del 1813. È l’opera giovanile che segna il suo ingresso nel mondo della drammaturgia con “le tensioni che sono figlie di riflessioni di fine vita e non di gioventù” come ha dichiarato il regista intervistato da Emilia Romagna Cultura nei giorni scorsi, ma che al tempo stesso esprimono la freschezza e la carica trasgressiva di un’epoca, quella degli anni’70, appunto. Del quale Koltès è stato un figlio privilegiato, avendone assimilato in pieno, secondo Adriatico, la volontà di rottura con il modo di fare teatro. Affrancandolo, ad esempio, dalla tiepida e rassicurante atmosfera borghese in cui era calato da tempo, per portare all’attenzione il palcoscenico come luogo dell’alterità, transitorio, insicuro, messaggero di verità ma mai uguale alla realtà.

Un teatro e una scrittura sempre disturbanti e attraversati dalla malinconia che scaturiva dal suo essere diverso e irriducibile, capace di partire dalla sfera dell’intimità  per parlare della società, del mondo e dei suoi orrori sociali, primi tra tutti le ingiustizie e l’avversione verso il fenomeno migratorio, il razzismo, l’omosessualità, che troviamo ad esempio in La notte poco prima della foresta.

Rappresentato per la prima volta al Festival di Avignone nel 1977 e a proposito del quale il drammaturgo dichiara essere il suo vero primo testo teatrale, rinnegando i primi sette che lo hanno preceduto, l’opera, tra le più conosciute e ancora di sconcertante attualità, è un monologo duro ed essenziale su tratta dei migranti e caccia ai fuggiaschi, impossibilità di avere radici che non siano quelle del proprio corpo disteso sull’erba e senso di impotenza.

Un impianto drammaturgico più articolato, invece, quello di Lotta di negro e cani del 1979, ambientato  in un’azienda dell’Africa Subsahariana dove un operaio di colore viene a chiedere la restituzione del fratello assassinato da un collega bianco razzista e finisce per infatuarsi della moglie del capocantiere. 

Senza riconciliazione né mediazione né ascolto, la narrazione del dramma familiare e sentimentale di Koltès parte dal non luogo che è il cantiere, per riaffermare la transitorietà dello spazio in cui il dramma viene agito e si dipana. Accentuandone così la componente inquietante e contemporaneamente esprimendo la dimensione di un luogo che si può e si deve abbandonare immediatamente. Oppure  la possibilità di uno spostamento verso un altrove, dove (forse) quel sangue non verrà più sparso. O ancora: il cantiere come spazio di costruzione dell’identità umana, per sua natura incompiuta, sempre in movimento, sempre conflittuale.

Per questo anche l’incontro con l’altro da sé per Koltès non può che essere lacerante e oscuro, destinato a sfociare in violenza, che sia lo straniero, l’omosessuale, l’assassino. Tutte figure non introiettabili come parti di un archetipo umano ed esistenziale, come si evince da altri suoi lavori quali  Nella solitudine dei campi di cotone del 1986 o l’opera scritta mentre stava morendo, Roberto Zucco del 1988.

Nel primo, ancora una volta è lo spazio, buio e sordido, a suggellare il dramma che è destinato a consumarsi tra due figure modernamente tragiche nel loro anonimato: il Cliente e il Dealer. Koltès sembra portare alle estreme conseguenze l’alienazione a cui la società condanna il diverso. Privandolo anche del nome proprio e collocandolo nel non luogo, infatti, mostra l’inevitabile ostilità in cui sono trascinate le persone dominate dalla paura che deriva dalla non conoscenza di se stesse e dell’altro/a.

Nella sua ultima opera, dedicata invece all’episodio di cronaca realmente avvenuto in Veneto negli anni ’80 del secolo scorso, Koltès, fedele a se stesso e alla sua volontà  di scartare  le mezze misure, prende un personaggio con ben poche connotazioni positive e realmente esistito, Roberto Succo. Si tratta di un giovane apparentemente normale che nel 1981, per futili motivi, uccide i genitori per poi darsi alla fuga all’estero, essere catturato e rinchiuso in un ospedale giudiziario psichiatrico dal quale fugge, per commettere altri 5 omicidi, fino alla cattura definitiva e al suicidio in carcere nel 1988.

Un testo che prende le mosse dall’immagine del pluriomicida vista in metropolitana a Parigi, nel periodo in cui frequentava l’università in carcere ed era riuscito a fuggire durante un permesso per andare in Francia. Pubblicato postumo e presentato per la prima volta in lingua tedesca a Berlino, alla Schaubühne nel 1990 dal regista Peter Stein, è il testamento della sua poetica intrisa di pasoliniana disperazione e corsa verso la morte.

La condizione di fuggiasco, la fine sentita come imminente, l’esplorazione del non luogo per eccellenza, quello della morte, fino alle sue estreme conseguenze, al di là di ogni freno o inibizione. Forse questi i motivi che hanno spinto Koltès a scegliere Succo come destinatario della sua opera di commiato da un’esistenza troppo breve. Troppo breve per chi scopre questo autore, ne rimane avvinto e si chiede come si sarebbe evoluta la sua arte. Ma forse non dovrebbe. Perché la sua arte si è fatta carne, ha trovato compimento, così come Koltès ce l’ha consegnata.

Tutta la sua vita è fin dall’inizio a servizio del suo teatro. Dallo spettacolo di Medea, interpretato da Maria Casarès nel 1969, che lo persuade a intraprendere la strada di drammaturgo, al Théâtre du Quai, la comunità di artisti costituita a Troyes. Fino alle sue opere allestite per la prima volta da Patrice Chéreau, poi le regie di Peter Stein, Bruno Boëglin e Catherine Lemire, la sua adesione e militanza politica nel Partito Comunista e i suoi viaggi in Africa e Sud America. Le delusioni professionali, la droga, l’omosessualità e la malattia. Una voce di potente drammaturgia che ha vissuto fino in fondo il suo tempo e ha profetizzato quello a venire.

La sua prima biografia, a cura della giornalista di Le Monde, Brigitte Salino, risale al 2010, mentre nel 2009 gli erano stati dedicati due convegni di studio a Caen e Parigi. Tra i curatori figura Arnaud Maïsetti, che nel 2018 ha pubblicato per Les editions de Minuit un approfondimento biografico e artistico.

Anche in Italia la figura di Koltès da alcuni anni viene seguita con interesse e diversi sono i testi a lui dedicati tra i quali segnaliamo il contributo di Franco Quadri, Da Salinger a Roberto Zucco di Bernard-Marie Koltès e quelli del critico e conduttore radiofonico di Fahreneit Radio 3, Graziano Graziani che ha indagato il percorso di Koltès proprio insieme a Maïsetti.

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