Marco Paolini e il disastro del Vajont. Come teatro e giornalismo si incontrano

Ott 31, 2023

Articolo a cura di Raffaello Macelloni

Nel giorno del 34° anniversario della sciagura del 1963 direttamente dalla diga andò in onda su Rai2 Marco Paolini ne Il disastro del Vajont. Rivedendo il video oggi è evidente come  sul palco con Paolini convivono teatro e giornalismo insieme, in un binomio fatto di affinità, differenze e contraddizioni; un rapporto intimo, profondo ma allo stesso tempo irregolare, spigoloso. Due mondi che s’incontrano, diversi e lontani ma che in fondo possono avere matrice comune. 

Punti d’incontro 

La materia comune sulla quale teatro e giornalismo lavorano è la parola, che comunica  a tutti i livelli, dalla più semplice informazione per il giornalismo, alla partecipazione di un sentimento o di un pensiero per il teatro. È la forza della parola il punto in cui queste due diverse discipline si toccano. Le differenze sono nella modalità di utilizzo e nei criteri secondo cui si organizza ciò che viene descritto. La parola detta è diversa da quella scritta. La  scrittura giornalistica ha regole diverse rispetto alla drammaturgia teatrale, che viene restituita in scena. Se trascrivessimo ogni singola parola che recita Paolini durante il suo monologo e la andassimo a rileggere probabilmente l’esito risulterebbe del tutto inefficace. 

L’altro nodale punto di contatto è la narrazione e la sua funzione sociale. Il teatro racconta le storie e gli stati d’animo dei protagonisti; il giornalismo si propone di rappresentare fatti e situazioni rilevanti per la società come del resto fa Paolini con questo spettacolo. La narrazione diventa così  denominatore comune nonostante per il teatro il racconto abbia la finalità di intrattenere o di dare un insegnamento morale, mentre per il giornalismo abbia lo scopo più concreto di informare quanto concerne degli eventi dimostrabili

 I diversi ruoli nella società

Fra le funzioni sociali del giornalismo c’è il compito di ordinare le informazioni esistenti su un evento per consentire al fruitore della notizia di avere una conoscenza dei fatti. In altre parole, possiamo dire che c’è un filtro tra la vita reale e la versione ordinata  che arriva al lettore. Da qui emerge una differenza importante: se il teatro si basa sulla creazione di mondi alternativi che a volte possono essere verosimili ma non realmente esistenti, il giornalismo per definizione racconta fatti reali e dimostrabili. . Un reportage di guerra o una notizia necessitano di  attenersi ai fatti. Come per il racconto degli eventi apparsi sulle testate a seguito del  9 ottobre del 1963: quando dal sul monte Toc, situato nel comune di Erto e Casso, un’enorme frana si staccò e precipitando nel lago artificiale sottostante, provocò un’ondata gigantesca che rase al suolo la cittadina di Longarone. Il racconto è semplice, breve e contiene in sé la notizia. 

Nel momento in cui una narrazione tratta da eventi reali, come il Vajont, viene raccontata sulle assi di un palco, come ha fatto Paolini, allora in questo caso, ci si trova di fronte a una versione alternativa alla realtà. Non nel senso che saranno narrati fatti diversi da quelli accaduti, ma che ciò che veramente è accaduto, passerà attraverso  un linguaggio differente, che in questo caso è quello teatrale. La diga, il comune di Erto, i torrenti sono trattati da Paolini come fossero personaggi vivi. Cosa che non sarebbe possibile fare al telegiornale. Paolini non racconta solo la cronaca dei fatti e come la catastrofe sia stata scientificamente possibile, ma dà spazio anche al processo che ha portato alla tragedia.  Come è stata costruita la diga e perché, da chi e se qualcuno si era mai accorto che questo disastro era incombente; una aggiunta considerevole rispetto a una semplice cronaca giornalistica. La catastrofe non è iniziata alle 22:39 del 9 ottobre 1963 ma molto prima. 

Procediamo però per gradi.

Il palcoscenico

Paolini inizia il suo racconto non su un palcoscenico qualunque: si trova proprio sulla diga del Vajont, un luogo già evocativo, non uno studio televisivo o in un posto qualsiasi, ma proprio lì dove tutto è accaduto, dove si respira la stessa aria di quella notte del 9 ottobre 1963«Io» -dice Paolini- «il 10 ottobre andavo in seconda elementare, mi sveglio alle 7:30 e mia madre piange»

Già da queste parole dichiara un profondo coinvolgimento emotivo nei fatti accaduti. Nonostante fosse molto  piccolo al tempo dei fatti, si ricorda la mamma che piange e quella emozione gli resta dentro da qualche parte e sarà proprio quella, probabilmente, l’innesco per lo spettacolo. Il coinvolgimento emotivo a teatro è fondamentale. Lì sulle poltroncine rosse siamo travolti dalle emozioni e sono solo loro che contano. Perché quelle rimangono. 

Lo spettatore potrà non ricordare l’ora in cui si è staccata la valanga, il numero dei morti o altri dettagli, ma sicuramente non gli sfuggirà quello il racconto di questo disastro, evoca quella fitta al petto ogni volta che si sente nominare il Vajont. Su questo si muove la narrazione di Paolini, tra fatti di cronaca, invenzione e ironia. Non esita nemmeno a dichiararlo: 

«Stasera, ogni tanto, per tenervi attenti, invento. Io non rivelo niente, metto in circolo»

Il palcoscenico permette a Paolini di raccontare la storia del disastro del Vajont usando l’ironia chiave fondamentale per questo tipo di narrazione, evitando di annoiare il pubblico, non trattando gli argomenti di cronaca sempre dalla stessa prospettiva. Questa chiave prospettica serve soprattutto per trattare alcuni aspetti della vicenda, proponendo comunque una riflessione; il sorriso, che alcuni passaggi della narrazione possono provocare, non è altro che una serena constatazione di ciò̀ che si conosce. I concetti base restano, quindi, gli stessi: sono le modalità̀ comunicative a cambiare. L’ironia, infatti, è utile per esaminare con maggiore spontaneità le questioni più spinose.  

©  Marco Caselli Nirmal

Il caso di Tina Merlin

La personalissima prospettiva narrativa di Paolini inizia da un libro, Come si costruisce una catastrofe, il caso Vajont di Tina Merlin. Il titolo stesso è tutto un programma e lascia intendere che gli eventi  non siano successi per caso. Come racconta Paolini, viene spontaneo chiedersi chi sia questa Tina Merlin Tina Merlin è una giornalista, ha lavorato per l’Unità. 

«È un altro punto di vista della stessa storia: è il punto di vista del falco, cioè di chi ha osservato le cose da lì. La storia dei comprimari, la storia dei paesi solo lesionati e non totalmente distrutti. I paesi erano Erto e Casso.»

La Merlin, infatti, è la prima a scrivere degli articoli di denuncia sul pericolo della diga per la valle, preannunciando il disastro. «Già agli inizi degli anni ’50 » – ci fa notare Paolini con un tocco di ironia – «scrive una serie di articoli per l’Unità sulla prepotenza della SADE (Società Adriatiche Di Elettricità) nelle zone d’interesse montano, sull’esproprio delle terre dei contadini costretti ad andarsene e sulla messa in sicurezza dei paesi dell’area dolomitica del Veneto.» Da qui inizia la vera catastrofe: arrivare al 9 ottobre 1963 è stato un attimo. La tesi della giornalista evidenzia come l’interesse economico faccia da padrone, manovrando politica e scienza. La compromissione del potere politico con quello dell’economia diventa così profonda e indecifrabile, come spesso avviene tutt’ora. La Merlin non solo non viene ascoltata, ma nel 1959 « subisce un processo per diffusione di notizie false e tendenziose.»  che si conclude con la sua l’assoluzione. Tutti sappiamo come è andata a finire dopo.»  

Le perizie di Muller

Paolini entra ancora di più nel dettaglio addentrandosi nelle perizie geologiche di Muller. Il modo in cui il geologo viene descritto connota l’informazione: è un geologo, appunto, è austriaco e ha condotto degli studi sul terreno circostante la diga. 

Il modo in cui però racconta le sue ricerche sconfina nel mondo della finzione. Tanto che lo stesso Paolini dice testualmente: « io me lo immagino così…» e ne fa una imitazione strappando un applauso al pubblico. Se lo immagina, quindi è chiaramente una finzione. Poi apre improvvisamente una parentesi sulle vittime: dieci caduti durante i due anni di lavori per la diga. «Credo che questi dieci caduti siano letteralmente caduti […] vorrei sapere perché nell’elenco delle vittime questi dieci caduti non li trovo mai.» Uno schiaffo in faccia al pubblico che fino a pochi minuti prima rideva per l’imitazione del geologo Muller. Riso e pianto, c’è tutto in teatro: proprio come nella vita. Poi prosegue la sua narrazione fino ad arrivare al 9 ottobre. 

Una gara…

Nella località di Pontesei c’è un’altra diga, molto più piccola di quella del Vajont, che da un po’ di tempo non funziona correttamente. «Inclinazione degli alberi, fessurazioni sul terreno è evidente che una delle due sponde sta cedendo» racconta l’attore. Viene preso un provvedimento, si cerca di togliere un po’ di acqua dal serbatoio per evitare che in caso di frana l’acqua della diga possa arrivare a far danni giù a valle. La frana, nel momento in cui si abbassa il livello dell’acqua nel serbatoio, inaspettatamente accelera. «Diventa una gara» – dice Paolini – «togliere l’acqua dal serbatoio prima che caschi la montagna.» Viene istituito un servizio di sorveglianza intorno al lago: Arcangelo Tiziani, un solo uomo. Divaga sul tema della sorveglianza per aumentare la suspense fino ad arrivare al momento in cui Arcangelo dà l’allarme, ma è troppo tardi e non fa in tempo neanche lui a scappare. La frana in movimento accelera di colpo, cade nel lago e solleva un’onda di 20 metri che spazza via l’uomo.

Quattro minuti

L’enorme frana di più di due chilometri fa crollare nel lago del Vajont una massa di circa 300 milioni di metri cubi, un misto di roccia e terra, che sollevò una colossale ondata di 48 milioni di metri cubi d’acqua. L’onda si alzò in diversi flussi: uno andò a colpire alcune località di Erto, l’altro piombò su Longarone con una forza devastante distruggendo completamente il paese. L’acqua trascinò con sé famiglie, bambini, case. Duemila vite cancellate nel tempo di soli quattro minuti. 

Il tempo

In conclusione è corretto affermare, come questo caso ben dimostra che la notizia nasce al mattino e muore la sera. I giornalisti lavorano per la giornata, devono essere tempestivi nell’informazione e corrono contro il tempo. Non ci sono scadenze e non c’è nessun limite di tempo, quando invece ad entrare in gioco è la drammaturgia. Il teatro può permettersi di sfruttare e l’informazione come antefatto e puntare all’eternità.

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