Marco Baliani e il pianto di Nemesi

Dic 13, 2023

Inizia con Kohlhaas, nel 1989, l’avventura del regista, attore e narratore Marco Baliani, pioniere del teatro di narrazione, attraverso il quale la storia viene narrata piuttosto che rappresentata e trasposta sul piano percettivo attraverso la mediazione dell’attore-narratore, che è solo in scena.

L’opera di Heinrich von Kleist del 1500 al quale Kohlhaas si ispira, racconta di un sopruso subito da un commerciante di cavalli da parte di un nobile che ruba, segrega e maltratta due dei suoi animali e il suo servitore e che dopo aver tentato inutilmente di ottenere giustizia per vie legali, decide di andare a ucciderlo, seminando terrore per tutto il Paese. 

In scena al teatro Rasi di Ravenna il 25 novembre scorso, Kohlhaas è una parabola che Baliani arricchisce con le sue personali suggestioni e attraverso la quale parla al pubblico con grande trasporto di ingiustizia di Stato e di ricerca della verità, che ciclicamente si ripete in ogni epoca e che, talvolta, spinge chi la subisce a farsi Nemesi, «dea dal volto scuro e figlia della giustizia», come viene descritta dal poeta Mesomede nel secondo secolo d.C.

Con il teatro di narrazione, nato alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso con quest’opera ed evoluto, attraverso Baliani stesso, nel post narrazione con i lavori successivi, la narrazione scavalca i canoni legati alla rappresentazione visiva prediligendo quella uditiva. 

Come ha più volte spiegato Baliani, non si tratta di una narrazione cronologica, soprattutto non si tratta di una cronaca dei fatti. Il narratore apre al pubblico il suo universo percettivo ed emotivo, dando spesso voce a più protagonisti della vicenda. 

Si assiste così ad una disgregazione dell’evento di cronaca, visto (e sentito) da molteplici prospettive e punti di vista, perché la finalità non è, appunto, indignare, ma piuttosto far percepire l’evento in modo disturbante e carico di domande rimaste in sospeso.

Da Corpo di Stato, dedicato all’omicidio irrisolto dello statista Aldo Moro del 1998, che prosegue il cammino di Kohlhaas trasponendo il tema dell’ingiustizia nel passato recente e interroga la generazione protagonista degli anni di piombo sui risvolti drammatici della lotta armata e del terrorismo. 

Poi Trincea, del 2018, in occasione del centenario della prima guerra mondiale, in cui Baliani sceglie la metafora della gabbia come idea-guida della narrazione sull’ingiustizia di chi la guerra la subisce, ispirandosi all’espressionismo del pittore Francis Bacon

Fino a Una notte sbagliata del 2019 sul caso Stefano Cucchi, morto in carcere in seguito a percosse, in cui la vicenda viene narrata entrando e uscendo attraverso i suoi personaggi, noti e non, compresi un uomo e il suo cane usciti a passeggio quella sera. Tanto che Baliani parla di una vera e propria gimkana attoriale, data dai «Continui cambi percettivi e linguistici, dentro una rete di rimandi sonori e visivi».

«Mi sembra di vivere in un tempo in cui la sacralità del vivente, la sua inviolabilità biologica si è incrinata e compromessa». Il corpo è un tema centrale nella poetica teatrale di Baliani, a cui la narrazione rimanda incessantemente. 

Il corpo piegato di Aldo Moro nell’auto, quello martoriato di Cucchi, quello ingabbiato nelle necessità estreme di sopravvivenza del soldato comune. Una svolta antropologica inversa rispetto a quanto promesso dal progresso della civiltà contemporanea sui diritti umani e sulla quale il teatro di Baliani continua a interrogare e interrogarsi.

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